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 |  | Chi è «La donna capovolta»? In dialogo con Titti Marrone
 
  Il  tema della badante viene trattato con un focus speciale sulla sua vita nel romanzo La donna capovolta (Iacobelli  Editore, 2019) di Titti Marrone. La  storia parla del rapporto fra due donne, Eleonora e Alina, in apparente  contrapposizione tra di loro, ma con moltissime cose in comune. Eleonora  è una filosofa, insegna studi di genere, frequenta amici intellettuali e  progressisti, ha un marito narciso e una figlia all’estero. Tutto bene? No, non  proprio, perché – complice l’età che avanza – Eleonora si trova in preda a una  sorta di spaesamento interiore. Forse perché ha un’anziana madre demente da  accudire. Alina è una efficientissima badante moldava ingaggiata per alleviare  Eleonora dalle incombenze di cura della madre. Il confronto tra le due donne –  che fanno entrambe perno sulla terza, la vecchia madre – è come una deflagrazione:  si specchiano l’una nell’altra e si detestano per questo. Pensano di essere  diversissime e invece sono legate da una reciproca dipendenza che non riescono  a tollerare. Entrambe si trovano d’un tratto a essere tradite, deluse dove  meno se l’aspettavano. E nello scritto di Titti Marrone ciascuna racconta la  sua esistenza direttamente, per la sua parte, in brevi, spietati e a volte  ironici lampi di coscienza contrapposti: un susseguirsi di personaggi e  d’involontaria feroce comicità sulla vecchiaia, la malattia, i piccoli trucchi  per fuggire dalle responsabilità. L’autrice  del romanzo, napoletana,  giornalista, ha pubblicato vari libri tra i quali Controluce, con  Gustaw Herling(Pironti 1992), Il sindaco (Rizzoli 1996), Meglio non sapere (Laterza 2003, ultima  edizione 2020), e il romanzo Il tessitore di vite (Mondadori 2013).  Dal 1996 insegna Storia e tecniche del giornalismo. Ha curato la raccolta di  racconti Ho sete ancora. 16 scrittori per Pino Daniele (Iocisto  edizioni 2015).
 
 
 La donna capovolta è una storia di  stringente attualità relativa alla complessità dell’accoglienza. A quali input  personali e sociali ha risposto?
 Ho  scritto il romanzo soprattutto per una di quelle urgenze inderogabili,  spontanee, che ti nascono dentro quando vivi un forte disagio e hai bisogno di  mettertelo davanti, stendendolo per iscritto su una pagina, affidandolo a  parole che non avevi avuto il coraggio di pronunciare nemmeno con te stessa. E  se poi, come nel mio caso, credi nel potere terapeutico della  scrittura, allora quell’atto di ‘distendere’ una storia offrendola –  offrendoti – in pasto anche agli altri può arrivare a curarti. Come se tu ti  guardassi allo specchio. In tutta onestà. Naturalmente, a spingermi  è stata anche l’esperienza personale vissuta con mia madre, malata per otto  anni, e con una serie di badanti che si sono susseguite nel tempo. E avevo  fatto esperienza di ogni tipo di badante ricavandone sensi di disagio, di mie  inadeguatezze, e facendo scoperte sul mio conto che non mi sarei mai aspettata.  Ma il mio racconto è solo in parte ispirato da ciò: in misura maggiore a  spingermi è stata la consapevolezza della distanza enorme che si crea in un  rapporto fortemente sperequato, tra noi donne occidentali e le donne dell’Est,  che lasciano tutto per adattarsi a fare i lavori che noi non sappiamo, o non  vogliamo, più fare.
 
 
 La copertina del libro  ritrae una «Alice in Wonderland» con la testa all’ingiù. Ebbene, perché mai  Eleonora e Alina sono ambedue una «donna capovolta»? Entrambe si trovano d’un  tratto, a essere tradite, deluse dove meno se l’aspettavano. Entrambe vivono  uno snodo dell’esistenza. E ciascuna racconta dall’inizio la sua direttamente.  Sono deluse dall’esistenza, dalla quale si aspettavano esiti diversi da quelli  realizzatisi. Sia Eleonora che Alina sono donne capovolte per il fatto  di non stare più bene nella pelle fin lì indossata, perché costrette  dalle circostanze a rovesciare le proprie visioni del mondo e dei rapporti.  L’impianto del racconto è un susseguirsi di situazioni, colpi di scena e  personaggi in cui le voci narranti producono effetti d’involontaria feroce  comicità sulla vecchiaia, la malattia, le delusioni della vita, i piccoli  trucchi per fuggire dalle responsabilità.
 
 Eleonora è una filosofa,  insegna studi di genere, frequenta amici intellettuali e progressisti; Alina è  una efficientissima badante moldava. Per quale ragione il confronto tra le due  donne, le quali fanno entrambe asse sulla terza, l’anziana genitrice,  assomiglia a un’esplosione? Lo  svela la terza voce del racconto, alternata alle parti in prima persona: è  quella di un «io» narrante che oggettivizza e svela  le tensioni in corsa tra le due donne. Tensioni nelle ultime pagine esplose in  un dialogo diretto tra Eleonora e Alina, con punte comiche o anche drammatiche,  che svelano un aspetto assai diffuso nella complessità delle nostre vite ma non  esplorato a sufficienza: la difficoltà di praticare una vera accoglienza nei  confronti di qualcuno che si lascia alle spalle gli affetti per farsi carico di  assistenze pesantissime e, dall’altra parte, la difficoltà ad adeguarsi a ruoli  e modi di vivere così profondamente diversi da quelli del proprio Paese di  provenienza. Il finale a sorpresa è la cosa che più mi sono divertita a  inventare, perché credo che ben rifletta la difficoltà di una possibilità di  «sorellanza» molto vagheggiata ma assai poco accessibile. 
 
 «Una freccia per Eu,  l’altra per No Eu. Nella mia lingua, l’io e il non-io, l’essere e il non  essere. […] pulisco altrui water, vengo da un povero Paese post-comunista ma  nascostamente sono una maratoneta della cultura occidentale». Alina conosce,  tra gli altri, Dante, Shakespeare, Ionesco. Perché, a suo avviso, lo stereotipo  della badante rozza e priva di cultura stenta a morire? Perché fa comodo a chi  assume una donna con queste mansioni. Si evita la fatica di doverla conoscere,  si risparmia lo sforzo di entrare nel loro mondo. E ci si rifugia in una rappresentazione  utilitaristica dell’altra, chiudendo le porte alla possibilità di stabilire un  rapporto intimo o anche solo umano.
 
 Nel suo scritto ciascuna  protagonista narra la sua vita direttamente, per la sua parte, in fuggevoli,  brutali e, a volte, ironici bagliori di coscienza antitetici: la vecchiaia e la  malattia posseggono una vis comica in sé o la scherzosità è un escamotage  stilistico? Non è solo per un  escamotage stilistico che mi sono sforzata di introdurre notazioni ironiche  anche nel raccontare la malattia e la vecchiaia della signora Erminia, la madre  di Eleonora. Spero di non apparire irriverente, ma credo che sia importante  raccontare queste dimensioni, che prima o poi riguarderanno tutti, senza  patetismi, con leggerezza e autoironia.
 
 Cattivo umore, tristezza  persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza e fantasie  suicide sono i sintomi della «Sindrome Italia», definizione coniata nel 2005 da  Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych ad indicare gli effetti dell’«affetto a  pagamento». Un Paese può essere apportatore di stress patologico? Sicuramente sì, e l’Italia  finisce per esserlo per le badanti romene. L’inchiesta pubblicata sul «Corriere  della Sera» due anni fa metteva in evidenza proprio la «Sindrome Italia»,  studiando il caso dell’Istituto psichiatrico Socola di Iași dove le badanti  ricoverate sono oltre 200 all’anno. Depresse, insonni, aspiranti suicide in  base a quello che la primaria Petronela Nechita ha definito «più che una malattia,  un fenomeno medico sociale». Donne  immigrate e lavoro di cura, oggi, rappresentano un welfare invisibile  ciononostante bisognevole d’innovazione sociale. Qual è la sua opinione in  merito?
 Si  è del tutto smarrito il principio della cura, sia nella dimensione del privato,  in cui sempre meno si è disposti a farsi carico dei propri cari che ne  avrebbero bisogno, sia nella dimensione pubblica. Occorrerebbe una vera  rivoluzione culturale per reintrodurlo, ma dovrebbe misurarsi innanzi tutto con  il narcisismo e l’egocentrismo dominanti che, insieme con l’assenza di senso di  responsabilità, purtroppo oggi dominano soprattutto nei Paesi più ricchi.  L’integrazione  è un processo multifattoriale esteso nel tempo, un percorso con plurime  sfumature e molteplici sfaccettature, un iter faticoso multidimensionale. Un medium potrebbe essere rappresentato dalla  comprensione, dalla familiarità, dall’empatia?
 Sì,  e dalla capacità di ascolto degli altri. Se non avviciniamo i mondi distanti,  come quello di Eleonora e Alina, che restano distanti fino alla fine e oltre,  non c’è partita per una vera integrazione.  Da  giornalista, quanto pensa che il ruolo dei media incida sulla vita sociale, nel  combattere gli stereotipi e i pregiudizi ancor oggi molto presenti, favorendo  l’integrazione e l’inclusione?
 Incide molto. Ma purtroppo incide anche nell’altra  direzione, diffondendo e amplificando pregiudizi e stereotipi: questo avviene  soprattutto nei social, in cui ciascuno si chiude in una propria bolla  autoreferenziale, interagendo solo con persone che hanno il proprio stesso  punto di vista e spesso costruendo fake news e dinamiche di odio.
 
 
  
 
 
 
 
        A cura di   Giusy Capone e Afrodita Cionchin(n. 11,  novembre 2021, anno XI)
 
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