«Oggi ti sono passato vicino». In dialogo con Tommaso Urselli

Tommaso Urselli è autore di teatro. In passato alcuni suoi componimenti poetici sono stati pubblicati e positivamente recensiti da Maurizio Cucchi su Lo Specchio de «La Stampa». Oggi ti sono passato vicino, da poco pubblicata per Ensemble, è la sua prima silloge poetica; la sezione ‘Parole alle formiche’, particolarmente apprezzata dal poeta Giuseppe Conte (sue le parole in quarta di copertina), è giunta finalista al Premio InediTO – Colline di Torino 2019.

Giuseppe Conte ha affermato: «Sono poesie che dietro una brevità quasi da haiku nascondono invece abissi di angoscia e visionarietà occidentale: I morti, Figlio soltanto (molto bella), Era, Mia piscina… vivono di immagini tra l’onirico e il metafisico che le rendono molto significative… sino a testi come Treno siderale, dove una maggiore complessità sviluppa sin dal titolo – quotidiano e cosmico – il tema centrale di tutta la silloge».


«
C’è solo l’andare senza fermarsi:/ se i piedi il sonno volesse mangiarseli/ è permesso cadere, non addormentarsi». Lei scrive versi che narrano una quotidianità quasi atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge. La vita umana vive una costante condizione di anonimato?

Non ne farei una questione di anonimato, se con questo si intende una condizione in cui sia dominante una passività di fondo o l’inutilità di ogni ricerca di senso. L’assenza di coordinate storiche e una certa atemporalità possono suggerire a mio avviso un’altra possibilità: quella di rendersi conto che ogni essere vivente, non solo umano, indipendentemente dal contesto in cui vive e dalla sua specifica identità, è parte di un «tutto» di cui, questo sì, spesso ci sfugge l’enorme complessità. Ma non mi sembra un dato sminuente o avvilente, anzi… dovrebbe contribuire ad accendere curiosità, senso di reciprocità...
Per venire al nostro ambito, credo nella possibilità della poesia come fotografia di un processo in continuo divenire, più che come affermazione dell’io che la produce. Del resto, per dirla con Rimbaud, «Io è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua...»


Lei sta spendendo il suo tempo quale autore di teatro. In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?

Qualche mese fa, lo scorso maggio, la compagnia teatrale «Teatro Periferico», con cui avevo precedentemente collaborato come drammaturgo, mi ha proposto di tenere una giornata di laboratorio di scrittura poetica rivolto agli allievi di un corso di formazione teatrale. Si trattava per me della prima volta dopo tempo, di un incontro di lavoro in presenza, e non ho saputo fare di meglio che pensare di dare lo stesso titolo del libro che avevo composto durante il confinamento, Oggi ti sono passato vicino; non per mania di autoreferenzialità (durante il lavoro non sono stati utilizzati testi dal libro) ma perché nelle mie intenzioni esso contiene e racconta di un desiderio, una necessità che tutti abbiamo avvertito in questo periodo, sia pure in maniere e declinazioni differenti: quello di stringersi, di fare fronte comune dinanzi a qualcosa di sconosciuto, in una situazione in cui proprio la possibilità di essere uniti veniva per forza di cose a mancare. Come tradurre allora questa necessità in una pratica realizzabile?
Da circa venti anni mi occupo di drammaturgia. Scrivere per il teatro significa scrivere per degli attori che porteranno sulla scena il tuo lavoro… niente di più impensabile durante il confinamento, in cui come autore teatrale sono stato decisamente in lutto... mi era del tutto impossibile pensare di scrivere qualcosa che sarebbe andato in scena «dopo», in un momento in cui i teatri erano chiusi, morti… il teatro non è fatto di «dopo», è fatto di «adesso», un adesso da condividere corpo a corpo: corpo del drammaturgo, corpo del regista, i corpi degli attori, i corpi degli spettatori… Così la mia scrittura ha cercato altre strade, già frequentate in passato anche se non in maniera sistematica: dalla rivisitazione di quegli sporadici tentativi in versi e dalla composizione di testi ex-novo, ha così pian piano preso forma questo libro, che porta in sé le tracce di una necessità evidente fin dal titolo (anche se quasi mai nei testi c’è esplicito riferimento al tema del virus e della pandemia, tranne che in una composizione).
Dunque, tornando al laboratorio, la cosa che ho sentito più sensata e organica, è stata quella di trasformare in oggetto di lavoro di gruppo la pratica di scrittura in versi che mi aveva accompagnato durante il confinamento badando di non cedere alla tentazione di farne una ricetta o un manifesto, ma di restare sempre nell’ambito dell’interrogativo, a sé e al gruppo da cui il sottotitolo: «Nella distanza dei corpi, può la poesia avvicinare? Un laboratorio di incontro attraverso la scrittura». Quale «lenimento» migliore della condivisione?


«Ti sento, è la tua voce, il tuo/ articolare lento e cadenzato./
Oggi ti sono passato vicino». La sua versificazione è lucida, nitida, disincantata, priva di edulcorazioni, scevra da vergogne. C’è un limite a ciò che si può narrare?

È una domanda a cui credo sia possibile dare risposte anche molto differenti, e tutte legittime. Quello che conta, a mio parere, è che questa risposta scaturisca da un percorso, una pratica di lavoro che l’autore avverte come necessaria. È questa necessità, forse, a disegnare il limite tra ciò cui è importante dare forma e ciò che può essere tenuto per sé.


«I morti, onde del mare/ bianca spuma che a lungo ha viaggiato/ e a casa ritorna,/ alla madre infinita». Le parole che inanella in versi appaiono sensibilmente refrattarie al rispetto ovvio e ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione. Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?

Non credo che un autore debba fornire chiavi d’accesso… caso mai, forse, fabbricare porte… Sta poi al lettore la scelta di aprirle o meno, per visitare i luoghi su cui si affacciano; questo a prescindere dalla comprensibilità o meno dei suoi testi e da quelli che potrebbero essere i suoi intenti comunicativi. Ma a proposito di comunicazione, vorrei qui citare la poesia e le parole di Antonio Neiwiller, uomo di teatro che ci ha lasciato nel secolo scorso; in particolare queste righe da un frammento del 1993 (stesso anno della sua scomparsa) dedicato a un altro grande uomo di teatro, Tadeusz Kantor:

«...È tempo che l’arte
trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione...»

(da l’altro sguardo: per un teatro clandestino, dedicato a t. kantor)

A ogni modo, tornando ai testi della raccolta e a eventuali strumenti di comprensione, mi riconosco nello sguardo di Franca Alaimo, di cui riporto qui un estratto da una sua nota di lettura:

«... l'autore fa uso di altre esperienze artistiche a lungo praticate, essendosi cimentato con il teatro (si ritrovano, infatti, in molti testi l'estro drammatico, l'impianto dialogico, ma anche l'asciuttezza di un autore grandissimo quale Beckett), e con la musica, specialmente il jazz (da cui provengono il ritmo sincopato di certi testi) … Né escluderei la meditazione buddhista e per l’epigrammatica sapienza di certi versi e per la concezione dell'Uno come inizio e ritorno di ogni cosa in una perenne ciclicità...»


La sua silloge potrebbe scomporsi in quattro momenti: memoria, contemporaneità, teatro, dolore. C’è un filo rosso che le congiunge?

Giocando un po’ a parafrasare Artaud: la vita, e il suo doppio.







A cura di Giusy Capone
(n. 2, febbraio 2022, anno XII)