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 |  | Vincenzo Fiore su filosofia auto-sperimentale, anti-fanatismo e «l’infernale sincerità» di Cioran
 
  «In un’epoca dove il fanatismo sembra essere tornato  alla ribalta a livello mondiale, il pensatore romeno è un antidoto che ci rende  immuni». (Vincenzo Fiore) A partire da questa premessa, pubblichiamo un’intervista con  Vincenzo Fiore che affronta la filosofia  auto-sperimentale, l'anti-fanatismo e «l’infernale sincerità» di Cioran.
 Vincenzo Fiore (nato  nel 1993 in Solofra, Italia) si è laureato e specializzato in  Filosofia presso l’Università degli studi di Salerno.  È membro del Progetto di  ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. Si è occupato delle  interpretazioni totalitarie di Platone pubblicando il saggio Platone totalitario (Historica, 2017). Scrive  per le pagine culturali di «The Post Internazionale» e de «Il Quotidiano del  Sud» e collabora con diverse riviste. Con Nulla Die ha pubblicato il suo libro  su Cioran e il romanzo Nessun titolo (2016). Con lo stesso editore, è in corso di ripubblicazione il suo esordio  letterario Io non mi vendo. (dalla  quarta di copertina)
 
 Il libro di Vincenzo Fiore è dedicato a Emil Cioran. La filosofia  come de-fascinazione e la scrittura come terapia, Piazza Armerina (En): Nulla  Die, 2018, 187 pp. Già dal suo esordio  letterario con Al culmine della  disperazione, Cioran dichiara di aver chiuso i conti con la «filosofia ufficiale».  Il pensatore romeno non elaborerà mai una nuova dottrina o una visione del  mondo, e rivendicherà per tutta la vita la sua «inutilizzabilità». Una strage  delle illusioni e uno smascheramento senza pari nella storia delle idee, volti  all’eliminazione del profeta che si nasconde in ogni uomo. Pertanto, la  filosofia di Cioran non sarà altro che un esercizio di de-fascinazione e la  scrittura si rivelerà una terapia volta a sopportare l’esistenza, nel vano  tentativo di riscattare la dolcezza anteriore alla nascita. Il testo ripercorre  e analizza lo stretto rapporto fra biografia e pensiero in Cioran,  soffermandosi sui temi teoretici del me  phynai, di Dio e del suicidio. In appendice: una lettera inedita del  filosofo, un articolo della giornalista Carol Prunhuber, e alcuni ritratti fotografici  di Vasco Szinetar. (dalla quarta di copertina)
 L'intervista, realizzata da Rodrigo Inácio R. Sá Menezes [1], è stata pubblicata  inizialmente en portoghese sul Portale  E.M.Cioran/Brasile [2],  accompagnando una recensione del libro di Vincenzo Fiore. Io voglio ringraziare  Orizzonti Culturali Italo-Romeni per l’accoglienza e l’opportunità di  diffondere gli studi su Cioran. 
 Rodrigo Menezes: Caro Vincenzo, innanzitutto  ti ringrazio per la cortesia e la gentilezza di questa intervista. Devo dire che  grazie a Cioran mi sonno avventurato nelle lingue francese e spagnola  (inizialmente, per leggere le sue opere complete, che non sono integralmente  disponibili in portoghese), e adesso anche nell’italiano (una sfida alle  limitazioni linguistiche e culturale). Detto questo, mi scuso fin d’ora per  eventuali errori e inconsistenze in questa lingua così bella che non voglio  maltrattare. Per cominciare, mi piacerebbe sapere quando e come hai scoperto  l’opera di Cioran… Potresti parlarci del tuo itinerario intellettuale, dalla  prima lettura fino a la pubblicazione di Emil  Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia?
 
 Vincenzo Fiore: Ho  scoperto Cioran quando ero ancora uno studente liceale. Avevo trascorso un anno  intero a leggere Nietzsche, che mi aveva aiutato a sopportare un grande dolore.  Un giorno mi sono imbattuto casualmente in un aforisma del pensatore romeno, e  ne sono rimasto letteralmente folgorato. Nel giro di poco tempo ho acquistato tutti  i suoi testi. La lettura dello scettico dei Carpazi è stata la migliore terapia  che potessi scoprire. Inizialmente, non potevo immaginare che mi sarei occupato  anche a livello universitario di Cioran. Tutto è nato un po’ per caso, un po’  per passione.
 
 R.M.: In Brasile, c’è un certo  pregiudizio politico-accademico che rende difficile l’inserzione di Cioran  nell’ambito degli studi universitari. Per molti, il nostro autore non è altro  che uno scrittore, un letterato, ma non filosofo, perché i filosofi non fanno ciò che fa Cioran (diciamo, «filosofia lirica»,  «filosofia come de-fascinazione»), e ciò che fa Cioran, i veri filosofi non lo  fanno [3], questo non avrebbe nulla a che fare con la Filosofia… E, se arrivano  a riconoscergli una dimensione filosofica, l’esistenza di un pensiero, è soltanto per squalificarlo a priori come «nichilista»,  «reazionario», etc. Com’è il rapporto tra Cioran e l’università in Italia? Ci  sono progetti di ricerca, tesi e dissertazioni in sviluppo? Quali sono i temi  più affrontati?
 
 V.F.: Le etichette non sono mai servite a nulla, figuriamoci se  possano essere utili per comprendere l’opera di un autore come Cioran. Esiste  davvero un limes preciso capace di  separare in maniera netta la filosofia dalle altre scienze e dalle altre  discipline? Io credo di no. È ovvio che dopo Nietzsche, la filosofia non è più  la stessa. Cioran è figlio di quel filone a-sistematico che si è imposto con il  filosofo tedesco. Per dirla alla Russell, la filosofia è quella nebulosa che  racchiude e che lentamente espelle i saperi umani. Per questo sotto il termine  filosofo, che a volte può essere un termine di comodo, ricadono autori del  tutto diversi, come ad esempio: Talete, Agostino, Galilei, Hegel, Sartre,  Popper. Ovviamente, Cioran non è l’artefice di un sistema, non è un epistemologo,  non è un accademico, né tantomeno è un proclamatore di dottrine, egli è un  pensatore che può essere incluso nella storia delle idee nella misura in cui si  interroga sull’esistenza, sulla nascita, sulla morte, sul mondo (ma non solo). Per  rievocare ancora Nietzsche: «Il  filosofo deve essere la cattiva coscienza della sua epoca», di sicuro Cioran lo  è stato.
 In Italia, tanto del  lavoro sul pensatore romeno si è svolto e si sta svolgendo al di fuori  dell’università. Basti pensare all’attività di Antonio Di Gennaro, punto di  riferimento sull’argomento nella Penisola. Senza dubbio, c’è l’Università degli  studi di Napoli «L’Orientale»,  che ogni anno si trasforma nel luogo di ritrovo di tanti studiosi provenienti  da tutto il mondo, sede dove si svolgono convegni internazionali e giornate di  studio (tutto coordinato dal Prof. Rotiroti). Sempre in Campania, anche  l’Università di Salerno e la Pontificia facoltà teologica dell’Italia  meridionale si sono aperte, in maniera diversa, all’opera dello scettico dei  Carpazi. Ci sono poi realtà interessanti come Trento, Milano e Padova dove  insegnano o si sono formati studiosi italiani di Cioran. Per il resto, c’è  ancora tanto da fare...
 
 R.M.: Dal titolo, il tuo libro sintetizza ciò che me sembra  essere l’essenziale del pensiero di Cioran. In altre parole, si tratta di un doppio ricorso, procedimento, motivo o  principio; due registri operativi, due chiavi ermeneutiche che si uniscono e si  completano nel nucleo di questa «filosofia auto-sperimentale» che Cioran  concepisce per sé, come dici tu stesso. Da un lato, lo scetticismo, questo  «esercizio di de-fascinazione», come dovere della lucidità; da un altro, il  bisogno di scrivere, l’esigenza vitale della scrittura come una sorta di  (auto)terapia, una vera medicina, paradossale e ambivalente, per sublimare il  dolore d’esistere e la consapevolezza della fatalità inerente alla vita, per trasmutare  la decomposizione e la disperazione in principio creativo, autopoietico…
 Detto questo, come concepire la scrittura come «una  confessione e una maschera» (La  tentazione di esistere), ossia un principio di denudazione e trasparenza  interiore (conoscenza di sé, lucidità), e allo stesso tempo un filtro [4], un artificio  dalle virtù occulte, un principio di dissimulazione e di moltiplicazione  infinita di apparenze?
 
 V.F.: Cioran esortava i suoi  lettori a scrutare fra le lettere di un autore, per riguardarli dalla maschera  che poteva rappresentare l’opera. Gli studiosi di Cioran, a loro volta, hanno  accolto tale suggerimento proprio per comprendere meglio i suoi scritti. Il  risultato è pressoché sorprendente: leggere gli epistolari del pensatore romeno  è come leggere brani dalla sua opera, vi è la stessa infernale sincerità. Che  sia un aforisma rivolto alla pubblicazione o il passaggio di una lettera  destinata a un amico, la scrittura in Cioran non è mai dissimulazione,  nascondimento, artificio. La parola viene presentata sempre cruda e nuda. Non  caso, egli amava dire che tutto ciò che non è diretto è nullo…
 
 R.M.: Dato questo concorso fra de-fascinazione e scrittura  terapeutica, come vedi il rapporto, in Cioran, fra ironia, logos frammentario e affetti quali la malinconia e la noia, come  espressioni di una certa nostalgia metafisica (dor in romeno), ovvero del «paradiso perduto» [5]? La ragione della  mia domanda è che sembra esistere, nell’opera di Cioran, una tendenza contraddittoria  e irriducibile, senza nessuna preoccupazione di unità, per esempio: scetticismo  (dubbio scettico, sospensione del giudizio, indecidibilità) e pessimismo o persino  nichilismo; scetticismo e pathos mistico, «la passione de l’assoluto in un’anima scettica»…
 Il caso di Cioran non sembra essere quello di qualcuno  che non sposa nessuna posizione, nessuna tesi, nessuna verità temporanea e «di  temperamento» (Sommario di decomposizione),  ma bensì quello di qualcuno che adotta moltissime posizioni, che sostiene il pro e il contra di tutto: tutte le posizioni di un uomo senza posizione»,  secondo Peter Sloterdijk [6], o, nelle parole dello stesso Cioran, il «nichilista  che crede in tutto» (Sillogismi dell’amarezza),  ossia che sperimenta con le sensazioni e le idee, portandole fino al limite de  la comunicabilità. Nella misura in cui è fortemente influenzato da  Schopenhauer, non erediterebbe, a malincuore, un certo idealismo filosofico  che, non essendo kantiano, ma bensì schopenhaueriano (pessimista, tragico, ateo),  è – come idealismo – una sorta di reazione allo scetticismo come l’ultima  parola in materia di conoscenza? Sarebbe il pessimismo di Cioran soltanto un  effetto, un impressionismo, una posa? È possibile ridurre Cioran,  filosoficamente parlando, a un semplice e puro scettico senza nessuna  aspirazione metafisica?
 
 V.F.: Non vi è unità, perché Cioran non ha mai fatto della  contraddizione un problema, anzi. Cioran  spiega che il suo aforisma non deve essere considerato un vero e proprio  aforisma, ma il risultato di uno svolgimento di pensiero di cui si è salvata  soltanto la conclusione, dopo aver cancellato l’intera pagina. Il frammento  permette, a differenza della rigidità del sistema, una certa libertà e smorza  sul nascere la possibile creazione di una dottrina o di un sistema. Il  vantaggio dell’aforisma è che esso non ha bisogno di fornire prove ed essendo  frutto di sensazioni temporanee giustifica anche eventuali contraddizioni: «Si  tira un aforisma come si tira uno schiaffo».
 Occorre  ricordare, che prima ancora di essere uno scettico o un negatore, Cioran è soprattutto  un disingannato, un rinnegato. Egli ha attraversato di tutto, prima di  rifiutarlo, di svelarlo. Si è immerso nella storia della metafisica, si è  infatuato del nazismo da giovane, ha cercato l’estesi leggendo Santa Teresa.  Qualora fosse proponibile il termine nichilista per Cioran, sarebbe troppo  riduttivo, troppo semplicistico. Cioran ha sì avuto un’aspirazione metafisica,  sì un’aspirazione di un dialogo con Dio, ma il risultato finale è stata sempre  una aspra disillusione. Una sua battuta diceva che tutto delude in questo  mondo, persino la santità.
 R.M.: Secondo Mario Andrea Rigoni (nota della pagina 62 del tuo  libro), Al culmine della disperazione può essere capito come un’anticipazione del Sommario  di decomposizione. Nel tuo capitolo sulla «filosofia come esercizio de  de-fascinazione», affermi che, dopo la guerra, Cioran «si lascia alle spalle le  infatuazioni del suo passato romeno, per ritornare – radicalizzandole – alle  posizioni teoretiche ed esistenziali della sua prima opera.» (p. 61). Dopo un  periodo di «fervore politico», l’autore romeno, ora scrivendo in francese, volge le spalle al tempo» (Sommario di decomposizione), alla Storia, confezionando per sé la  condizione di un «esilio metafisico».  Il tuo libro ha il pregio di illuminare la tensione e le contraddizioni fra due  «progetti» di gioventù, per così dire (oppure due ossessioni): uno di loro cancellato, l’altro mantenuto e sviluppato  per tutta la vita (in ogni caso, due tendenze incompatibili, inconciliabili,  rappresentate rispettivamente per Pe  Culmile Disperării e Schimbarea la  Faţă a României).Il tuo  libro anche illustra un dettaglio notevole riguardo al «passato scabroso» [7]  di Cioran (e che, al di là del tuo libro, per quanto ne so, soltanto la  biografia critica [8] di Patrice Bollon lo esplicita). Mi riferisco all’ibridismoinerente alla visione politica del  giovane Cioran, ammiratore di Hitler e di Lenin, fra nazismo e bolscevismo, dittatura  e «collettivismo nazionale» (ciò che non è piaciuto al fondatore della Guardia  di Ferro, Corneliu Codreanu), per non parlare dell’autocritica severa secondo  la quale se gli ebrei fossero scomparsi, neanche così i problemi dei romeni  sarebbero risolti. Alla demagogia non piacciono la franchezza, la parrhesía; la verità non interessa alla politica.
 A parte Schimbarea, Al culmine della disperazione è  seguito da Cartea amagirilor, Lacrimi şi sfinţie Amurgul gândurilor: tre libri che sono, penso, abbastanza religiosi  nel contenuto e nella forma [9] – e non unicamente quello in mezzo, così caro  all’autore, che lo considerava «il libro più  religioso già scritto nei Balcani», e che gli è costato molto per essere  pubblicato (in una sorta di self-publishing,  come lo espliciti). La mia domanda è: vedi qualche parallelo, anche se  paradossale o negativo, fra Lacrime e  santi e Il funesto demiurgo? Sarebbe  questo ultimo, anch’esso un libro religioso, sebbene d’indole diversa da  quell’altro, e anche scritto in una lingua diversa, in un contesto biografico e  storico-culturale diverso? Per finire, consideri la categoria ermeneutica del religioso – concepita antropologicamente  ed esistenzialmente, senza alcuna connotazione dottrinaria e dogmatica, persino nella totale incredulità –  importante per capire il pensiero di Cioran?
 
 V.F.: La definizione che si è imposta in merito all’approccio  di Cioran con la fede è quella di «teologo ateo», ovvero colui che, pur essendo  uno dei nemici principali della fede, si serve di concetti religiosi per  spiegare il corso della storia e la condizione dell’uomo. Un esempio su tutti,  è il mito della caduta. D’altronde, egli scriveva ne Il crepuscolo dei pensieri, che il vero religioso può dispensarsi  dalla fede, ma non da Dio.
 Il  periodo in cui scrive Lacrime e santi sono anni di estasi febbrile, Cioran fa esperienza di una vera e propria «crisi  religiosa senza fede» e trascorre più di un intero anno ad ascoltare musica e  leggere quasi esclusivamente agiografie, opere di sante e Shakespeare. Il filosofo,  in completa solitudine, confessa di essere arrivato a un limite e di non aver  altro interlocutore che Dio. Avvicinandosi alla mistica, Cioran dice di aver  oltrepassato il limite di Dio, ovvero di aver avuto un’esperienza di estasi,  che non è altro ciò «che Meister Eckhart chiama la deità [Gottheit]». Questa forte attrazione per la mistica, è un elemento  che lentamente si affievolirà, soprattutto dopo il passaggio nella lingua  francese, lingua nella quale Cioran presenterà una versione non integrale  dell’opera. Ne Il funesto demiurgo,  invece, il pensatore romeno, sempre fedele al suo stile, redigerà una critica  più strutturata al cristianesimo, definito una religione totalitaria, uno  strumento di controllo, una favola che si nutre di lacrime.
 R.M.: Nella terza e ultima parte del tuo libro, , affronti la visione cioraniana della nascitacome unatragedia, un male irrimediabile: sia l’uscita del non-essere verso  l’essere, oppure dell’essere verso il non-essere, a seconda della prospettiva,  in ogni caso, si tratta veramente di una «perdita» (de l’unità, de l’identità,  de la pienezza originale…), una «caduta» (nel tempo, nella consapevolezza,  nella materia, nel regno della decomposizione), un abbassamento, un diventare  che non doveva diventare… Il maggior problema, il vero male non è la morte – il  fatto che siamo necessariamente mortali, che dobbiamo morire – ma bensì la nascita, «l’inconveniente di essere  nati».Due  aforismi che esprimono il fatalismo cioraniano (un aspetto tipicamente  balcanico del suo pensiero che l’allontana dai suoi contemporanei, esistenzialisti  francesi): «Non nascere è indubbiamente la migliore formula che esista. Non è  purtroppo alla portata di nessuno.» «La morte è un stato di perfezione, il solo  alla portata di un mortale».
 Ritornando  al tuo libro, nell’ultima parte scrivi che «sebbene Cioran sia il filosofo che  più ha approfondito il tema della sciagura della nascita, non è stato il primo  a interrogarsi sul problema.» (p. 120) Possiamo far risalire questa visione,  come lo fai, a diverse origini storiche e matrici culturali: la tragedia antica,  lo gnosticismo, la filosofia indù e il buddhismo, oppure, più prossimamente, un  certo Nietzsche (notevolmente colui della «saggezza del Sileno», nella Nascita della Tragedia) e Schopenhauer. Ora  c’è un neologismo, un certo concetto, spesso oscurato e stigmatizzato dai suoi  detrattori moralisti, e legato dai suoi sostenitori a quelle tradizioni di  pensiero: l’antinatalismo. Nel tuo  libro, citi il movimento internazionale Voluntary  Human Extinction Movement (VHEM) e dici che hanno come punto di riferimento  l’opera di Cioran, «sebbene spesso usurpata per fini politici», aggiungi subito  dopo, tra parentesi.
 Forse  conosci l’opera di Théophile de Giraud, L’art  de guillotiner les procréateurs (Éditions La-Mort-qui-Trompe, 2006) [10],  un manifestoantinatalista che inizia  con una antologia de citazioni di filosofi, pensatori e saggi dell’Occidente e  dell’Oriente, di tutte le epoche (Omero, Sofocle, Zhuangzi, Petrarca,  Shakespeare, Francisco de Quevedo, Montesquieu, Goethe, Strindberg, Breton, tra  gli altri), sul tema del male di essere nati. Una delle epigrafi è del Funesto Demiurgo. L’autore (belga) è un  attivista antinatalista ed ecologista, creatore della «Giornata senza Genitori»  (Non-parent’s Day), ad essere  celebrata da coloro che si rifiutino di procreare.
 Questa militanza non è lo stile di Cioran, sebbene le  conseguenze siano le stesse: il «rifiuto di procreare» (Sommario di decompozione). Che il pensatore romeno non abbia lasciato  bambini non è una casualità, una contingenza, ma una questione di destino,  necessità, persino un «imperativo categorico». Non aver lasciato bambini è la  più grande coerenza fra la vita e l’opera di Cioran; non si immagina un come padre di famiglia: «Fondare una famiglia.  Credo che me sarebbe più facile fondare un impero.» L’antinatalismo non sarebbe  un dato irriducibile nella filosofia cioraniana della de-fascinazione? La  lucidità non sarebbe incompatibile con la progenie? Non c’è un antinatalismo naturale in Cioran – non una posizione  politica e ideologica, ma bensì esistenziale e metafisica, oso dire religiosa?
 
 V.F.: Sono d’accordo. A differenza dell’antinatalismo  contemporaneo, in Cioran è completamente assente la componente  politico-ambientalista. Vi è un abisso tra il suo pensiero e quello di David  Benatar, anche se l’esito è lo stesso. Nelle  pagine cioraniane riecheggia puramente l’eco dell’antica sentenza silenica del me  phynai, ovvero l’urlo della sofferenza universale che sembra travolgere  ogni essere del creato, tutto ciò che ha forma, persino il granito. «La materia  è sola».
 Cioran  è consapevole di aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre.  La sua estrema lucidità era incompatibile con la procreazione. Sì, forse anche  questo è un elemento della de-fascinazione. Una volta svelata l’esistenza nella  sua brutalità, una volta compreso il non-sense di questo teatrino chiamato  vita, a che scopo mettere al mondo dei bambini?
 
 R.M.: Hai scritto la prefazione  alla edizione italiana della biografia intitolata Portrait eines radikalen Skeptikers (2007) [11], dal tedesco Bernd Mattheus.  Esistono altre biografie, per esempio quella da Patrice Bollon, già menzionata,  e anche quella da Gabriel Liiceanu [12]. Quali aspetti vorresti evidenziare sulla  biografia critica di Mattheus? Quali sono i suoi meriti, i suoi punti positivi?
 
 V.F.: Quella di Mattheus ha il  merito di essere una biografia completa e rigorosa sul pensatore romeno.  Probabilmente non ha avuto, finora, l’attenzione che meriterebbe. Mattheus ha  pensato e scritto questo testo, stando in costante rapporto con Cioran,  osservandolo da vicino. È infatti anche un libro ricco di aneddoti. Inoltre,  egli cita tanto materiale non ancora edito in Italia e in molti altri paesi. Nicola  Baudo, responsabile dell’editore Lemma Press, è stato coraggioso a investire su  questa perla editoriale. Senza contare poi, l’eccellente traduzione italiana a  cura di Claudia Tatasciore…
 
 R.M.: C’è un libro, o ci sono  libri di Cioran che sia/siano il tuo/i tuoi favorito/favoriti? Qualche aforisma  memorabile che vorresti citare? Prima di concludere, sentiti libero di  lasciarci con delle tue parole finali – su Cioran, sul tuo libro, sull’Italia,  quello che vuoi…
 
 V.F.: Non aggiungo altro. Posso  solo consigliare la lettura di Cioran, a coloro che non l’hanno ancora  scoperto. In un’epoca dove il fanatismo sembra essere tornato alla ribalta a  livello mondiale, il pensatore romeno è un antidoto che ci rende immuni. Ringraziandoti  per questa approfondita intervista, ti lascio con un aforisma a me caro tratto  da Confessioni e anatemi: «In un pianeta incrancrenito ci si dovrebbe  astenere dal fare progetti, ma se ne fanno sempre, perché l’ottimismo, com’è  noto, è una mania degli agonizzanti».
 
 
 
 Intervista realizzata da     Rodrigo  Inácio R. Sá Menezes(n. 9, settembre 2019, anno IX)
 
 NOTE
 1. Brasiliano,  nato a Salvador, capitale dello stato di Bahia, nel 1979. Laureato in  Comunicazione Sociale presso la Fondazione Armando Álvares Penteado (FAAP), nel  2003. Laureato in Filosofia presso la PontificiaUniversitàCattolicadiSao Paulo (PUC-SP), nel 2009. Master in Scienze della Religione (2007) e  dottore in Filosofia (2016) presso la stessa PUC-SP. I suoi studi riguardano la  dimensione religiosa eterodossa (senza la  fede) del pensiero di Cioran, i rapporti tra pessimismo e nichilismo  moderni, da un latto, e la Gnosi antica, l’eresia gnostica (Bogomili), da un  altro (tema del suo Master); anche i rapporti tra nichilismo, esistenza e  scrittura in Cioran (tema del suo dottorato). È l’editore del Portale  E.M.Cioran/Brasile, creato nel 2010. Ha pubblicato diversi articoli su Cioran  in riviste brasiliane e internazionale, compresso su Orizzonti Culturali  Italo-Romeni, ed anche tradotto diversi saggi francese e testi da gioventù di  Cioran, che sono stati pubblicati in riviste specializzate di traduzione e sullo  stesso Portale E.M.Cioran/Brasile.
 2. SÁ MENEZES, Rodrigo Inácio  Ribeiro, Cioran, a filosofia como  desfascinação e a escrita como terapia: entrevista com Vincenzo Fiore, Portal E.M.CIORAN/Brasil.
 3. In modo  più o meno analogo a ciò che scrive il filosofo francese e amico di Cioran, Clément  Rosset, sulla possibilità di una filosofia tragica: «È infatti la stessa  nozione di “filosofia tragica” che si trova nel centro della discussione.  Nozione contestata per una reciprocità esclusiva: il tragico non essendo  ammesso se non a titolo di non filosofico, e il filosofico a titolo di non  tragico. […] Infine, ora filosofi, ora tragici; mai filosofi tragici.»  ROSSET, Clément, Logique du pire (edizione  brasiliana: Lógica do pior. Traduzione di Fernando J. Fagundes Ribeiro ed Ivana Bentes. Rio de Janeiro: Espaço e Tempo, 1989, p.  18).
 4. «Questo pharmakon, questa “medicina”, questo  filtro, insieme rimedio e veleno, si introduce già nel corpo del discorso con  tutta la sua ambivalenza. Questo incanto, questa virtù di affascinamento,  questa potenza di sortilegio, possono essere - volta a volta o simultaneamente  - benefici e malefici. Il pharmakon sarebbe una sostanza con tutti i caratteri che tale termine potrà connotare, in  fatto di materia dalle virtù occulte, profondità celata che rifiuta la propria  ambivalenza all'analisi, che già prepara lo spazio dell'alchimia, se non  dovessimo giungere più giù per riconoscerla come l'anti-sostanza stessa: ciò  che resiste a ogni filosofema, eccedendolo infinitamente come non-identità,  non-essenza, non-sostanza, e per ciò fornendogli l'inesauribile avversità del  suo fondo e della sua mancanza di fondo». DERRIDA, Jacques, La farmacia di Platone. Traduzione dal  francese di Rodolfo Balzarotti. Milano: Jaca Book, 1985, p. 57-8.
 5. «Io non  sono di qui; condizione di esiliato in sé; da nessuna parte mi sento di casa  – non appartenenza assoluta a checchessia. Il paradiso perduto – la mia  continua ossessione». CIORAN, E.M., Quaderni:  1957-1972. Traduzione di Tea Turolla. Milano: Adelphi, 2001, p. 22.
 6.  SLOTERDIJK, Peter, Le prieur de l’Ordre  de la Saint Folle Témérité, in «Magazine Littéraire» (Cioran. Désespoir, mode d’emploi), maggio 2011. Disponibile anche in portoghese.
 7. Parafrasi  del titolo italiano del libro di Marta Petreu: Cioran sau un tre cut deocheat (2011); An Infamous Past: E.M. Cioran and the Rise of Fascism in Romania,  in inglese; Il passato scabroso di Cioran in italiano (tradotto dal romeno da Magda Arhip e Amelia Natalia Bulboacă,  Orthotes, 2015).
 8. BOLLON,  Patrice, Cioran l’hérétique. Paris:  Gallimard, 1997.
 9. La  religiosità di Lacrime e santi già si  manifesta nel libro precedente, Cartea amăgirilor, e rimane intensa nel libro seguente, Amurgul gândurilor (Il crepuscolo dei pensieri). Infatti, si tratta ancora del lungo  periodo d’insonnia che coincide con l’inizio de la produzione di Cioran, al culmine della disperazione: la  scrittura come terapia, poiché «la creazione è  una temporanea salvezza dagli artigli della morte». Un’epoca di vera disperazione ed agonia, ma anche di  estasi e trasfigurazione (oppure de-figurazione),  in ogni caso intensità, come lui  stesso ha dichiarato in diverse occasioni. Sono, tutti e tre, libri segnati dal  lirismo e dal parossismo, dall’effusione verbale e dall’eccesso di attività  interiore, da una solitudine cosmica infinita, da solo con sé stesso o con Dio,  e soprattutto da ossessioni religiose e mistiche (Dio e il male, il peccato  originale, la caduta, la salvezza, l’estasi, etc.). Il linguaggio di questi tre  libri è pieno di simbolismo religioso, dai titoli alle epigrafi, ai temi  trattati nelle sue pagine.
 10. Il  libro è integralmente disponibile in formatto Pdf sul sito ufficiale  dell’autore.
 11.  MATTHEUS, Bernd, Ritratto di un scettico  estremo, trad. it. di Claudia Tatasciore. Bergamo: Lemma Press, 2019.
 12.  LIICEANU, Gabriel, Itinerariile unei  vieti: E. M. Cioran/Apocalipsa dupa Cioran. Bucarest: Humanitas, 2001. Edizione francese: Itinéraires d’une vie: E. M. Cioran. Paris:  Michalon, 1995.
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