Con Vincenzo Maria Oreggia tra autobiografia e romanzo autobiografico

È da poco uscito Il mercato del vento di Vincenzo Maria Oreggia, edito da Galaad Edizioni, un romanzo autobiografico che alterna vicende ambientate in Senegal a ricordi di una gioventù milanese. Vincent, alter ego dell’autore, porta accanto al nome di sempre quello islamico di Abdourahim. Narratore e poeta nato a Milano e residente a San Benedetto del Tronto, Oreggia si divide da oltre un ventennio tra la cittadina marchigiana e Dakar, la capitale del Senegal. Nel 2010 aveva pubblicato il romanzo Pesce d’aprile a Conakryche può considerarsi la prima tappa di un ampio percorso africano continuato in Il mercato del vento.
Oreggia ha collaborato con riviste letterarie e quotidiani tra cui «Il Foglio», «La Repubblica» e «Il Manifesto». Dal 1995 pubblica racconti, scritti di viaggio, romanzi e poesie, riunite nella raccolta La misura degli anni (2017), sua precedente pubblicazione. Ha inoltre realizzato i cortometraggi Dal Basso (2009) e Il Miracolo del Pane (2014).


Pesce d’aprile a Conakry e oggi Il mercato del vento. È nota la differenza tra autobiografia e romanzo autobiografico. Quale solco ha impresso nella scrittura letteraria la sua vicenda umana?

I confini tra autobiografia, romanzo autobiografico, autofiction e simili definizioni volte a catalogare forme di scrittura che attingono all’esperienza vissuta sono molto più labili di quanto si creda. Se parliamo di letteratura ci riferiamo comunque a una pratica artistica in cui l’immaginazione ha una parte preponderante, e il passato viene sempre reinventato. Uno scrittore, anche se pone al centro della propria opera la memoria, si trova di fronte a un universo ignoto; le immagini tornano in modo sfocato, le prime sensazioni sono imprecise. Affinché questo mondo abitato da fantasmi possa rivivere deve sottoporlo a quel particolare procedimento alchemico che è la scrittura letteraria, capace di riportare alla luce panorami e figure estinte. Deve necessariamente tradire il passato, ovvero immaginarlo, facendo uso di tutti gli strumenti di cui dispone la sua lingua. L’opera d’arte non è il calco di ciò che è avvenuto, ma la ricreazione di un contesto fittizio da cui i ricordi mandano segnali di vita da amplificare e trasformare. Perfino l’autobiografia, il genere più fedele ai cosiddetti fatti, se non vuole annoiare deve ubbidire a questo processo. Quando ho iniziato, con Pesce d’aprile a Conakry, la mia avventura nella memoria tra Africa ed Europa, i due Continenti tra i quali da oltre vent’anni divido la mia vita, mi si è aperto uno spazio immenso cui attingere. Ho un temperamento per certi versi contraddittorio, che tende ad immergermi interamente nel presente ma al tempo stesso è fortemente nostalgico, un binomio che ha influito anche sul modo di concepire la forma del mio romanzo, che alterna tempo presente e tempo passato, prima e terza persona pur dando voce a un medesimo personaggio. Il mio alter ego romanzesco mi concede di muovermi liberamente avanti e indietro nei ricordi e di calarmi poco dopo nel flusso del divenire. Vincent e Abdourahim, i due nomi, accanto al mio di battesimo, che assume il protagonista di Il mercato del vento, sono, come diceva Milan Kundera a proposito dei personaggi di romanzo, degli «io sperimentali» gettati nel pozzo della memoria per attingervi storie e sempre nuove versioni di me stesso. La letteratura diventa così una sorta di specchio deformante, e sono io, scovando e aggiustando parole, a deformare questo specchio fino a ottenere un risultato che mi sembra soddisfacente, un quadro sufficientemente luminoso che finisce per avere una sua intrinseca vitalità. 


Vincent, suo alter ego, reca accanto al nome di nascita quello islamico di Abdourahim. Quanto è necessario, oggi, rappresentare un’identità polimorfa?

Nell’ambito di BookCity, la manifestazione dedicata ai libri che si svolgerà a Milano il prossimo novembre e che quest’anno ha per tema «la vita ibrida», stiamo definendo una nuova presentazione del mio romanzo. Il concetto di vita ibrida si sposa bene con la mia idea di identità, che deve farsi, specie nel mondo attuale, oltremodo flessibile per accogliere in sé differenti modi di vivere. Considerare l’identità qualcosa di rigido o stereotipato apre la strada all’intolleranza, al pregiudizio e a diverse forme, scoperte o dissimulate, di dittatura. L’identità polimorfa potrebbe sembrare un ossimoro, un concetto ambiguo e irrealizzabile, ma è proprio su questo che dobbiamo lavorare. Non è sempre facile guardare con ironia e con il giusto distacco al proprio mondo e alle proprie tradizioni, mettere tra parentesi noi stessi e considerarci come una delle molte versioni che può incarnare l’essere umano, ma se vogliamo evitare le conseguenze nefaste dell’identitarismo dobbiamo farlo. Assumere un’identità polimorfa non vuol dire perdersi, ma fare un passo indietro, rinunciare alla propria centralità e aprirci con generosità ad altri modi di vivere. Significa accrescere la consapevolezza della pluralità del mondo, allontanandosi da quegli slogan identitari che infestano oggi tanta cattiva politica.       


Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emozionale. Quale valore attribuisce all’elemento della ‘memoria’ nella texture del suo romanzo?

Se qualche emozione passa dalle mie pagine ai lettori, è perché sono stato io il primo a emozionarmi mentre scrivevo. È questo, forse, il motore primario della scrittura: la ricerca di una particolare emozione. Giuseppe Pontiggia, il grande scrittore scomparso da quasi vent’anni e di cui ho seguito al principio degli anni ’90 alcune tra le prime lezioni italiane di scrittura creativa, affermava che la letteratura crea uno specifico effetto di sorpresa e riconoscimento. Ci si meraviglia per le scoperte che via via ci offre l’autore e nel contempo ci si riconosce. A questa emozione stimolata dall’arte della scrittura aggiungerei quella di un’espansione, una dilatazione delle facoltà interiori che nei momenti più alti giungono a una forma di contemplazione del reale. Anche nella prosa autorevole accade ciò che proviamo in poesia. Nei passi migliori della narrativa si annidano invenzioni poetiche che oltre a nutrire la nostra conoscenza sugli esseri umani e sul mondo migliorano la nostra vita spirituale, la allenano a rimanere a un livello che direi appunto contemplativo. Un narratore che lavora principalmente con la memoria va alla ricerca, in ultima analisi, proprio di quegli attimi di dilatazione e ricettività che condensano un senso misterioso delle cose, dove le domande cessano e la risposta giunge grazie a quelle che pensando a Proust chiamiamo epifanie. Si tratta di rivelazioni non di qualcosa di specifico, ma di una luce – mi è impossibile non ricorrere a metafore – che conferisce all’esperienza un senso di verità incontrovertibile. Arte e spiritualità, in tale prospettiva, procedono di pari passo. Il mio avvicinamento al sufismo, la corrente mistica dell’islam, è stata la prosecuzione di una ricerca che ho iniziato e che proseguo con la scrittura. Non troverei altrimenti una valida ragione per trascorrere moltissime ore seduto al tavolino a leggere o a battere su una tastiera. Se esiste un’autenticità nella mia attività di scrittore, e se riesce a produrre emozioni nel lettore, è per un’aspirazione a qualcosa di assoluto che ho fin da ragazzo. L’esercizio dello stile non è fine a se stesso, ma uno strumento di conoscenza e un’opportunità di trascendere sé stessi.    


Africa subsahariana, Senegal; Italia, Milano. Quanto è distante il ‘nostro’ Occidente da Dakar, meditando sul senso della parola ‘comunità’?

La cultura, la società e le tradizioni africane sono in effetti molto distanti da quelle occidentali, specie nella fase che l’Occidente sta attraversando. Nel mondo occidentale viviamo un periodo di aridità; il senso del bene collettivo e della fraternità umana si sta smarrendo a favore di un individualismo esasperato. Anche ciò che chiamiamo cultura diventa spesso oggetto di un consumo frettoloso e alimenta l’egocentrismo. Se da una parte cresce questo narcisismo culturale, a livello più diffuso assistiamo a una vera e propria idolatria di modelli di vita promossi dai centri del potere. L’esaltazione della famiglia tradizionale, il nazionalismo, il culto della concorrenza basato sulla forza e la prevaricazione, il feticcio dell’arricchimento monetario come panacea di tutti i mali, la riduzione dell’arte a puro momento ludico e l’imbarbarimento della religione ridotta a fanatismo: a tutto ciò siamo arrivati. Non voglio idealizzare la società africana, ma devo riconoscere che lì sopravvive qualcosa di molto prezioso che in Occidente diventa sempre più raro. Penso al senso di comunità e di partecipazione al destino altrui che respiro sulle strade senegalesi. Nel quartiere in cui ho lungamente abitato a Dakar, ma anche in altri contesti africani, non ho mai provato quella forma di isolamento di cui soffriamo in qualsiasi città europea. Se dopo il lavoro esco a farmi un giro per il mio quartiere africano mi capita di fare tardi senza accorgermene. Ogni angolo è buono per scambiare due chiacchiere. Con il sarto, il tappezziere, il meccanico o uno dei tanti sconosciuti incrociati allo spaccio alimentare o chissà dove. Chiacchiere che si limitano a qualche scambio sul più e sul meno ma che possono trasformarsi in discorsi seri e magari in un imprevisto invito a cena che prelude a nuove amicizie. La condivisione del cibo e la convivialità sono altre spie illuminanti circa il modo di sentire africano. Se qualcuno rifiutasse di riceverti dicendo ‘ho gente a cena’, come può capitare da noi, questa giustificazione suonerebbe come un’offesa. Il cibo è un bene comune che va condiviso e non può essere millantato come oggetto di proprietà esclusiva. È solo un esempio, ma significativo. Poi, a livello governativo, esistono le storture che possiamo immaginare, esiste il bene e il male, come ovunque, ma la sensibilità diffusa nel popolo è qualcosa di cui il nostro Occidente ha un bisogno immenso.          


La Signora del balcone, Donna Elena, è affetta dal morbo di Alzheimer ma nessuno ne fa un dramma, anzi, è reputata «un totem dalle sembianze umane» attorno a cui i bimbi saltellano. Quali sono le peculiarità dell’approccio alla malattia che ha potuto riscontrare in Senegal?

Nella società senegalese vige un rispetto ancestrale per gli anziani. Donna Elena, la madre del protagonista di Il mercato del vento, ritagliata sulla figura di mia madre, è una settantenne che nonostante la perdita della memoria e il disorientamento spazio-temporale viene portata in Senegal dal figlio, che se ne prende cura insieme a Penda Ndiaye, un personaggio femminile che spicca del romanzo e con cui Vincent intrattiene una burrascosa relazione sentimentale. Penda manifesta quelle che noi occidentali considereremmo forme di superstizione nei confronti dell’anziana smemorata. Quando Donna Elena pronuncia i nomi mamma o papà chiede subito a Vincent di fare sacrifici apotropaici per ammansire le divinità superne. Una donna anziana che invoca i suoi genitori è un segnale allarmante, un messaggio inviato dal mondo degli spiriti a noi umani affinché si compiano atti concreti per ristabilire un equilibrio compromesso. Può essere necessario il sacrificio di un animale, un’offerta ai bisognosi o altre pratiche di natura animista. La spiegazione clinica di una malattia non basta a giustificarla. Un uomo, si dice in Africa, non muore mai per caso, e le cause concrete, scientifiche, non sono sufficienti a spiegare il dolore e la perdita. In ciò che spesso liquidiamo come superstizione si nasconde in realtà una visione del mondo che non lo limita alla sfera materiale. Qualsiasi cosa accada ha un movente che rimanda a un orizzonte celeste composto da entità invisibili in relazione continua con le nostre vite. La presenza del soprannaturale è profondamente sentita e lo scetticismo verso l’universo ultraterreno è percepito come un’anomalia o addirittura una forma di cecità. In Senegal convivono l’islam, maggioritario, il cristianesimo e molte credenze animiste, che nonostante la pratica del monoteismo permangono fin da tempi remoti. Una malattia cronica come l’Alzheimer non è vissuta con un senso di dramma e con il risultato di quella triste marginalizzazione che si verifica in Europa. La malattia, come l’invecchiamento, sono cose che riguardano la comunità. Donna Elena veniva chiamata da tutti semplicemente Mamy. Era una Madre per antonomasia, una sorta di madre sociale, e così succede per qualsiasi donna che superi una certa età, a prescindere dall’esistenza o meno di una prole. Portare mia madre in Senegal è stata un’esperienza straordinaria. L’ulteriore disorientamento che secondo il parere di molti avrebbe potuto soffrire si è tradotto nel suo contrario. La nostra Mamy è stata avvolta da un’atmosfera di calorosa accoglienza. Si è divertita suonando i tamburi, passeggiando tra mercati o giocando con i bambini che bussavano ogni giorno alla porta. Non c’era dramma, ma gioia nell’intrattenere quella che era considerata come un’anziana signora in difficoltà, e non una preoccupante malata.             


Sul significato più profondo della scrittura e anche della lettura ci si continua a interrogare nei modi più diversi, come nella sorprendente favola della faina zoppa che impara a leggere, raccontata nel romanzo di Bernardo Zannoni, recente vincitore del Premio Campiello. Quale potrebbe essere, per lei, il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

La lettura e la scrittura sono opportunità di fare esperienza del reale attraverso quella misteriosa finzione che è la creazione artistica. Dico misteriosa perché pur servendosi dell’immaginazione riesce a nutrirci in modo concreto, modifica la nostra visione del mondo, ci insegna a capirlo e a comportarci di conseguenza. Penso che se i politici e in genere i responsabili delle scelte collettive fossero amanti della letteratura, questo pianeta prenderebbe una direzione più giusta. I libri, venendo al mio caso specifico, mi sono stati di grandissimo aiuto nei frangenti migliori e peggiori della mia vita. Quelli che ho scritto e forse ancora di più quelli che ho letto. Hanno rintuzzato ambizioni più futili e mi hanno confortato nei momenti in cui avevo bisogno di un orizzonte più vasto per continuare a desiderare la vita. Lettura e scrittura sono attività che elevano l’uomo e ne possono, se non curare, consolare il malessere. Necessitano di lentezza e lunghe pause dalla frenesia del consumo di cose e informazioni che scorrono in superficie. Sono un regalo inestimabile per il nostro spirito e l’antidoto migliore alla confusione contemporanea. In società dove tutto sembra muoversi su un piano orizzontale, alimentano un sapere che penetra in profondità. Il nostro dna culturale è in buona parte inscritto nei libri, da millenni, e impoverire la letteratura, nella sua pratica come nella sua fruizione, equivale a impoverite noi stessi.   


La scrittura contemporanea annovera tante scrittrici. Allo stesso tempo però si dice che ricevono pochi premi e faticano per emergere. Come vede l’attuale status della letteratura
esperita da donne?

Non sarei così pessimista. Sono uno scrittore e non uno storico o un sociologo della letteratura, ma pur non avendo una visione completa di quello che accade in merito alla letteratura femminile, ho l’impressione che negli ultimi decenni abbia acquisito corpo e visibilità crescenti. Nell’Ottocento e per un buon tratto del Novecento le scrittrici erano eccezioni all’interno di una comunità di colleghi prevalentemente maschile. I motivi sono diversi e sappiamo quanto la donna abbia sofferto un ruolo gregario in una storia indirizzata e interpretata da uomini. Non è successo soltanto in letteratura, ma in ogni campo. Le cose tuttavia stanno cambiando, non hanno raggiunto una condizione soddisfacente ma le donne emergono finalmente da protagoniste. Se riferendoci a un secolo fa e cercando nelle antologie scolastiche troviamo solo poche scrittrici, oggi il numero è decisamente aumentato. Credo inoltre che le donne custodiscano meglio degli uomini un importante segreto che consente loro di sfuggire più facilmente al sistema utilitaristico che caratterizza l’attuale momento storico e riduce l’essere umano a una macchina organizzata per il consumo. La donna conosce in maniera più naturale e istintiva dell’uomo, per vocazione, il segreto del tempo, sa concedersi senza calcoli e interamente al presente: una qualità indispensabile anche alla pratica letteraria. Oserei dire che in questo senso la letteratura è essenzialmente femminile.


La letteratura romena è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

La letteratura romena, con le punte di diamante dei celebri autori e autrici che ha citato, gode in Italia di buona salute. Non è diffusa come le più corpose letterature occidentali, quella dei paesi anglofoni ad esempio, ma ha un suo posto durevole e una sua cerchia di affezionati lettori. Personalmente, riascoltando i nomi di Cioran o Eliade, mi si riaccendono molti ricordi. Emil Cioran fu un mito giovanile; custodisco nella mia libreria diversi suoi titoli, e quando, neppure diciottenne, gironzolavo per il Quartiere Latino di Parigi, alzavo i miei occhi curiosi e cercavo le finestre della mansarda in cui allora abitava. Ricordo alcuni dei suoi aforismi a memoria, mi capita di ricordarli tra amici e sono contento che l’opera di Cioran sia oggetto di rinnovata attenzione. Anche Mircea Eliade è stato uno scrittore e un intellettuale che mi ha aperto orizzonti inediti, specie attorno a quell’aspetto mistico delle religioni che mi ha da sempre coinvolto.




A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 10, ottobre 2022, anno XII)