Virginia Zeani: l'Assoluta della lirica, amica di Fellini, Rossellini e Pavarotti

I fans la chiamavano L’Assoluta, in un’epoca in cui Maria Callas era La Divina e Renata Tebaldi L’Angelo. «Ho imparato moltissimo da te», le scriveva nel 1996 il dio degli acuti, Luciano Pavarotti, dopo averle dedicato, in un concerto a Indianapolis, l’aria Donna non vidi mai della Manon Lescaut. Lei, Virginia Zeani, povera migrante arrivata in Italia dalla Romania comunista degli anni Quaranta, giunge ai vertici della lirica di ogni tempo senza poter contare su altro fuorché la propria voce. Una storia bellissima, autenticamente sorprendente, esplorata in presa diretta nel libro-intervista a cura di Sever Voinescu, «Canta che ti passa» (Galaxia Gutenberg, Cluj-Napoca) di cui è in preparazione la pubblicazione in lingua italiana.
Nata nel 1925 a Solovastru, anonimo villaggio nel nord della Transilvania, Virginia Zeani si stabilisce nel 1943 in Italia e nel 1980 negli Stati Uniti. Studia con professori leggendari – Lydia Lipkowska a Bucarest e Aureliano Pertile a Milano – poi sposa il grande basso Nicola Rossi-Lemeni. Debutta nel ruolo di Violetta Valéry della Traviata di Verdi a Bologna, nel 1948, e si ritira dalle scene nel 1982, per insegnare poi canto fino al 2004 alla scuola di musica dell’Università Indiana, negli Stati Uniti.
In una carriera che ha coperto quasi tre generazioni, Virginia Zeani ha interpretato circa settanta ruoli, cantando con tutti i grandi cantanti del mondo – Beniamino Gigli, Franco Corelli, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, Plácido Domingo, Luciano Pavarotti, Nicolae Herlea –, sotto le più prestigiose direzioni – Tullio Serafin, Herbert von Karajan, Zubin Mehta, Carlo Maria Giulini – e sui più grandi palcoscenici del mondo: Roma, Milano, Vienna, New York, Parigi, Londra. Una parabola di vita fuori dal comune, ricca di amicizie straordinarie, come quella con Federico Fellini e Giulietta Masina, Tyrone Power e Roberto Rossellini, Nino Rota e Luciano Pavarotti.

Pubblichiamo in anteprima ampi stralci dal libro-intervista, tradotto in italiano da Afrodita Cionchin.

 

Signora Zeani, quando ha deciso di andare a studiare e fare carriera in Italia?

Il sogno di studiare in Italia ce l’avevo da molto tempo. Mio padre mi aveva raccontato dell’Italia come del posto più bello al mondo. In più, l’Italia era la patria dell’opera, l’epicentro dell’arte alla quale volevo dedicarmi. Ma c’era un altro motivo che, a quell’età, era importante quanto gli altri: ero innamorata di un italiano. Un bel ragazzo. Io avevo 16 anni e lui 18. Con lui avevo cominciato a parlare l’italiano e lui mi correggeva – mi dava lezioni, senza che me ne accorgessi. Anche lui aveva la passione della musica, ma era piuttosto filosofo. Era studente di lettere e filosofia. Si chiamava Nino Ghezzi. Per anni l’ho sognato...

A Milano è arrivata a conoscere il suo idolo, Aureliano Pertile, in quegli anni una grande star, un Pavarotti dell’epoca, una grande gloria! Era il tenore preferito di Toscanini e, chi sa quanto Toscanini fosse esigente con i suoi tenori, capisce il valore di Pertile. Era un mostro sacro e così è rimasto nella storia dell’opera. Com’è arrivata da lui?

Alcuni giorni dopo l’arrivo a Milano, conobbi il colonnello Giovannini e sua moglie. Due persone ammirevoli. Lui era colonnello in pensione, viveva modestamente insieme alla moglie e non avevano figli. Mi comprarono un regalo che non dimenticherò mai: il mio primo cappotto in Italia. Ne avevo un grande bisogno. Poi, furono sempre loro a portarmi per la prima volta in Svizzera, dove mi comprarono della cioccolata. Quando sentirono che avevo una buona voce, mi pregarono di cantare per loro e poi mi invitarono a mangiare da loro. Parlando di musica, lui disse ad un certo punto: «Il nostro miglior amico è Aureliano Pertile. Hai mai sentito parlare di lui?». Non riuscivo a crederci. Dissi loro che era il mio idolo e che il mio più grande desiderio era quello di poter fare lezioni con lui. È stato Dio a spingermi verso queste persone molto amiche di Pertile. Per tutta la sera mi hanno raccontato come cantava per loro, quanto le donne andavano pazze di lui in qualsiasi ruolo facesse e che successo enorme aveva. La moglie di Pertile si chiamava Italia. Donna Italia, che lo difendeva da tutte quelle donne, riprendeva tutti i soprani che cantavano con lui e se ne innamoravano: «Questo è mio marito, non vostro, solo sul palcoscenico è vostro!». Alla fine della serata mi diedero il suo indirizzo. L’ammirazione enorme che avevo per lui mi diede il coraggio pazzo di vincere la mia timidezza e di andare da sola a casa sua. Suonai alla porta, e chi venne ad aprirmi? Aureliano Pertile in persona. Quando lo vidi, scoppiai in lacrime. L’emozione era così forte che cominciai a piangere e non potevo più dire nulla. Lui era scioccato: «Che è successo? Entri pure!». Sua moglie era dietro di lui e cosa poteva pensare vedendo una giovane sconosciuta di vent’anni piangere alla loro porta? Mi diedero un po’ di acqua e, vedendo che non riuscivo a calmarmi, mi diedero anche un po’ di cognac. Non riuscivo a parlare. Infine, mi ripresi e dissi loro che l’emozione di vederli era grandissima, che ero una cantante della Romania, che avevo ascoltato a Bucarest i suoi dischi e lo ammiravo moltissimo. Solo allora si tranquillizzarono anche loro – avevano capito cosa mi era successo. Sapevo che lui era professore al Conservatorio di Milano ma che aveva una vita molto agiata – era sempre fuori, passava molto tempo in campagna, dove aveva una tenuta.

E gli disse allora che era un giovane soprano che voleva fare lezioni con lui.

No, gli dissi che volevo un consiglio. Mi fissò un appuntamento per il giorno dopo, quando ci sarebbe stato anche il pianista. Così vi andai e cantai per la prima volta La Bohème che sapevo già a memoria. «Bellissima voce, con molti colori, dobbiamo lavorare sulla dizione». Poi gli cantai La Traviata. «Ho cantato Traviata – mi diceva lui – con la miglior Violetta dei miei tempi, Claudia Muzio». E mi diceva che, dal punto di vista tecnico, non avevo problemi, ogni nota era al suo posto, tutto andava bene. Diceva che dovevamo lavorare un po’ in legato e alle doppie delle parole italiane.

Così ha cominciato a fare lezioni con Pertile. Quanto pagava?

Non mi ha mai chiesto soldi, però facevo delle maglie a Donna Italia. Lavoravo molto bene.

Quali sono le cose più importanti che ha imparato da Pertile?

L’importanza della frase musicale intera che, con lo studio, ho adattato alle mie qualità. Ho formato il mio gusto musicale con Pertile, ho capito come cantavano gli altri. Ad esempio, parlava molto di Mafalda Favero, che avevo visto con Di Stefano in Manon di Massenet, nell’estate del 1947. Mi sembrava un po’ vecchia – lei aveva 37 anni, io 21. E lei era una delle favorite di Toscanini. Mi parlava molto dei loro spettacoli. Pertile è stato la persona che ha avuto il più grande influsso sull’intellettualità della mia voce. Lui mi ha fatto capire non solo come cantare, ma anche perché dovevo cantare in un certo modo e, soprattutto, che senso aveva cantare.


Sul palco insieme a Beniamino Gigli e Giuseppe Di Stefano

Mi piacerebbe che parlassimo di alcuni dei suoi molti partner in arte. La lista è impressionante. Non c’è un grande tenore degli anni 1950-1970 con il quale lei non abbia cantato. Vorrei partire dal grande Beniamino Gigli.

Sì, non era la prima opera in cui cantavo, ma lui era il primo nome importante accanto al quale ero sul palcoscenico. Come le ho già detto, avevo due idoli. Il primo era Aureliano Pertile, e sono arrivata a studiare con lui dall’autunno del 1947. Il secondo era Beniamino Gigli, e sono arrivata a cantare con lui nel 1950.

Dove?

Al Cairo. È lì che ho debuttato, accanto a lui, in Elisir d’amore di Donizetti. La differenza d’età fra di voi era di... Come diceva anche lui: tra di noi c’era una differenza di 40 chili e 40 anni. Anche se, in realtà, lui aveva solo 35 anni più di me.

Che tipo di uomo era?

Un uomo dolce, simpatico, tranquillo e molto sicuro di sé. Era arrivato ad una tale padronanza del suo mestiere, della sua straordinaria voce, che sembrava un dio. Faccio un esempio. Ad un certo punto, tutti gli uomini della compagnia dovevano fare un concerto in una sorta di competizione tra loro, per il pubblico. C’erano: Gino Bechi (baritono), Antonio Annaloro (che a quell’epoca era quasi il miglior tenore)...

Non era più famoso di Gigli...

No, certamente. Era più giovane. Annaloro aveva 28-29 anni ed era il migliore tra i giovani. Gigli era, come le dicevo, un uomo tranquillo, ma quando era in competizione con gli altri diventava un po’ ambizioso. Era rilassato, non era per nulla dinamico, diciamo pure che era un po’ stanco come persona. Ma la sua voce era splendida, come intenzione e colore. Tutti quanti cercavano di cantare molto bene: stimolati dal fatto che Gigli doveva cantare con loro, volevano fare anche loro bella figura. E tutti cantarono molto bene, con acuti pieni, bei colori, tutto come si deve. Alla fine, arriva Gigli, entra sul palcoscenico e dice: «Adesso canterò anch’io qualcosa, ma non aspettatevi qualcosa d’importante, ho una certa età, non ho più il loro respiro, la loro energia», e comincia È la solita storia del pastore (Lamento di Federico), la splendida e celebre aria de L’Arlesiana di Cilea. Tranquillo, soave, senza pathos, un po’ malinconico, con una straordinaria gioia interiore di sentire se stesso, con la voce perfettamente calibrata. Il pubblico è semplicemente impazzito. Io ero dietro le quinte e li guardavo da lì. Dopo aver finito l’aria, torna dietro le quinte, gli applausi non si fermano, esce e poi torna indietro, gli applausi arrivano ancora dirompenti, lui esce di nuovo e poi torna dietro le quinte, gli applausi non cessano e lì, dietro le quinte, si volge verso di me e mi dice a bassa voce: «Adesso li metto a posto». Poi esce e comincia a cantare: Mamma, la famosa canzonetta, di un’irresistibile tenerezza. Non le dico cos’è successo... Una follia! Non potevi non ammirarlo. Io, che ero un’ammiratrice delle voci e del modo di collocare la voce, di dosarne l’emissione con anima, rimasi affascinata.

Quando oggi fa lezione con dei tenori, per fare esempi di tenori celebri parla di quelli della generazione di Gigli e di coloro con i quali lei ha cantato?

No. Esemplifico piuttosto con Pavarotti e Domingo, perché i giovani li conoscono.

I suoi allievi non conoscono Gigli, non conoscono le grandi voci del passato?

Gli allievi, soprattutto in America, non vengono a lezione desiderosi di conoscere ciò che è stato in passato. Non ne sono interessati. Loro conoscono il presente. Conoscono cioè Pavarotti, Domingo, qualcuno conosce anche Carreras, ma di meno. Alcuni conoscono la Callas, ma non molto, perché non l’hanno vista in tv come hanno invece visto questi tenori. Quasi non ricordano che c’è stata una Tebaldi, un idolo per gli americani di quaranta, cinquant’anni fa.

Ma si può fare questo mestiere senza conoscere la grande tradizione?

Io dico loro che non è possibile. Li esorto ad ascoltare molti dischi, a rispettare tutto ciò che è stato grande nel passato, ma loro non ne sono molto interessati. Vogliono cantare bene e basta. Posso dire dunque che la vecchia scuola del belcanto è in un certo senso abbandonata, perché i giovani di oggi non ascoltano più i dischi. Pertile, ad esempio: nessuno dell’Università lo conosceva fino a quando sono arrivata io. Se si parla ad un cantante attuale di Toti Dal Monte, un grande soprano degli anni ‘20-’40, non ha idea di chi sia. Di Beniamino Gigli qualcuno può anche avere conoscenza, se è un melomane appassionato. Nella scuola americana di canto non viene data grande importanza al passato, e neanche alla preparazione generale. Io dico sempre che non si può interpretare Giulio Cesare se non si conosce qualcosa della Roma antica, o che non si può interpretare Butterfly se non si conosce qualcosa dell’Estremo Oriente. Ciò però non significa che in America non esista cultura.

Lei ha cantato con Giuseppe Di Stefano?

Ho cantato con lui in I puritani, La Bohème, Lucia di Lammermoor... Con lui è successa una cosa terribile. Dovevamo cantare insieme Lucia di Lammermoor, all’Arena di Cagliari, ma non venne allo spettacolo. Mandò qualcuno dal direttore, un’ora prima, per dirgli che non era in voce e non poteva cantare. Parlai con lui, ma non ci fu verso. Abbandonò lo spettacolo.

E sul palco come era, un buon partner? Si sentiva bene con lui?

Non era un buon partner, perché non ci si poteva basare su di lui. Cantava per se stesso, in primo luogo, e anche per il pubblico. Mi ricordo una Bohème che ho cantato con lui a Venezia. Alla fine del primo atto, non ha potuto fare il do naturale e l’ha fatto un’ottava più basso. Il pubblico, ovviamente, ha protestato. E lui, invece di essere un po’ imbarazzato, mi disse all’orecchio: «Lascio in questo momento lo spettacolo e vado al casinò». Gli ho subito risposto: «Ti prego di non farlo, se no mi rovini». Abbiamo continuato fino alla fine, ma non mi è affatto piaciuto questo suo atteggiamento. Per fortuna, il pubblico si è di nuovo riscaldato con me e siamo arrivati al quarto atto. Nell’ultimo atto, quando stavo per morire e lui mi stringeva fra le sue braccia, mi strinse così forte che non potevo respirare. E allora, mentre lo stavo abbracciando, l’ho colpito con le unghie e gli ho detto senza mezze parole: «Fammi respirare». Non era un buon collega. Ma il pubblico, come le ho già detto, lo amava. Come si fa a capire il pubblico?


Amici per sempre: Federico Fellini, Roberto Rossellini, Nino Rota

So che ha conosciuto da vicino Fellini e Giulietta Masina. Com’erano all’epoca?

Ovviamente sapevo da molto tempo chi erano. Chi non conosceva Federico Fellini e Giulietta Masina? Soprattutto in Italia! Nel 1963 comperammo un terreno a Fregene, per costruire una casa di vacanza. Notai che Fellini e la Masina avevano un terreno vicino al nostro e volevano costruire una casa a circa trecento metri dalla nostra. Loro erano da più tempo a Fregene, e quando fecero il film Le notti di Cabiria, nel 1957 (mia vergogna, non ho mai visto questo film), ci furono delle riprese con alberi secolari e una parte del film venne girato sul terreno che avevo comprato io. Sul mio terreno c’erano molti pini secolari, piantati sin dal diciassettesimo secolo dal Papa Clemente IX. Fregene era stata residenza papale all’epoca. Costruii una casa attorno a questi alberi. Con Fellini e la Masina facemmo subito conoscenza e diventammo amici. Ci vedevamo molto spesso. Quando eravamo tutti a Fregene, passavamo molto tempo insieme. Le case erano molto vicine ed era nostra abitudine trascorrere insieme la Pasqua, il Natale e il Capodanno. Gli incontri avvenivano soprattutto a casa nostra, perché era più spaziosa, e si mangiava bene.

Che tipo di uomo era Federico Fellini?

Un uomo versatile, estremamente versatile. Era difficile avere una conversazione seria con lui. Quando ci si parlava, sosteneva il dialogo ma era assente, si vedeva chiaramente che la sua mente stava da un’altra parte. Aveva un mondo interiore immenso, ricchissimo, soltanto suo, che lo assorbiva del tutto. A me non dava fastidio perché vi ero in qualche modo abituata – anche Nicola era talvolta assente nello stesso modo. Sarà stata questa la ragione per cui hanno subito stretto amicizia. Parlavano molto, degli argomenti più diversi: religione, occultismo, letteratura, arte ed altro ancora. Era un sognatore assoluto, un sognatore senza limiti. Giulietta Masina era una donna pratica e molto naturale. Un’artista splendida, unica. Come era nei film, così era anche in realtà. Quando vedevo quanto fosse naturale nei film, quando vedevo che nei film era se stessa, avvertivo la sua grande onestà. Lei non imbrogliava. Era una donna modesta, ma intellettualmente molto raffinata, che amava cucinare e avere ospiti. Il loro entourage era formato soprattutto da personalità del mondo del cinema. Si incontravano frequentemente con Vittorio De Sica, che è stato spesso anche nostro ospite, con Mastroianni...

Fellini conosceva l’opera? Amava l’opera?

Non gli piaceva. La accettava, ma diceva che era qualcosa che non lo affascinava. L’opera era incomprensibile per lui e non cercava neanche di capirla. Con fatica l’ho portato una volta all’opera, a vedere me e Nicola in I racconti di Hoffmann. Gli è piaciuto come abbiamo cantato, si è complimentato con noi, ma si vedeva chiaramente che non gli piaceva l’opera. Mi sono sempre chiesta come mai una persona con tanta ricchezza interiore, con tanta immaginazione, non fosse affascinata dalle storie raccontate nelle opere, dalla splendida musica delle opere. Non lo so. Credo che non si desse tempo per pensare ad altro se non al cinema, e la musica era, per lui, solo musica di film. Era prigioniero senza scampo dei propri pensieri. Ed è per questo che divenne famoso. Aveva spesso degli accessi di reclusione, non voleva vedere nessuno. È anche vero che erano in molti a importunarlo.

Roberto Rossellini l’ha conosciuto tramite Fellini o in un’altra circostanza?

No, Rossellini l’ho conosciuto prima di Fellini. Il fratello del regista Roberto Rossellini, Renzo Rossellini, era un importante critico musicale di Roma, ai tempi in cui cantavo lì. Ovviamente, ci conoscevamo benissimo. D’altronde, Renzo Rossellini componeva la musica dei film di suo fratello, così come Nino Rota componeva la musica per Fellini. Tramite lui, ho conosciuto anche Roberto Rossellini.

Nino Rota è stato un eccezionale compositore. La sua musica, nei film di Fellini, è sensibile, semplice, diretta. È irresistibile!

Sono stata molto amica anche di Nino Rota. Era un uomo con la testa fra le nuvole. Ha fatto fortuna con la musica, ma viveva al conservatorio di Bari, in una stanza piena di libri. Era anche lui un sognatore. Forse per questo andava così d’accordo con Fellini. Si era comprato anche lui un terreno a Fregene, non lontano da noi, con l’intenzione di costruire una casa di vacanza. Non ha mai costruito nulla. Dopo la sua morte, un parente ha venduto il terreno. Nino Rota ha scritto un’opera per Nicola: La visita meravigliosa. Un’opera molto interessante. La sua musica da film era straordinaria, ma ha fatto cose belle anche nell’opera. Il cappello di paglia di Firenze, la sua opera più nota, che ho visto due o tre volte, era molto bella. Era pieno di talento. Nino Rota era un solitario, aveva i suoi modi. Vestiva modestamente, sembrava povero e molto timido. Era inoltre molto generoso con tutti gli amici e i parenti.

Che impressione le fece Roberto Rossellini?

Roberto era un uomo molto speciale, un po’ agitato senza motivo. Tutti i registi sono difficili da capire, perché vivono solo dei loro sogni. Nella loro mente, scambiano il sogno per realtà e vivono in un certo senso parallelamente alla società. Il mondo della loro mente ha un legame con il mondo reale, ma quel legame non è, in fondo, molto forte. Era un uomo affascinante, le donne erano pazze di lui. Si è sposato più volte e ha divorziato. Ha avuto una relazione con Anna Magnani, poi si è sposato con Ingrid Bergman e poi, anche se non l’ha sposata, ha avuto una relazione lunga e profonda con una donna molto influente, Sonali Das Gupta, attrice e regista indiana. Ad un certo punto, è andato in India a girare un film ed è tornato a casa con lei. Poi ha lasciato anche lei, ed ha vissuto con un’altra regista più giovane.


Per 640 volte Violetta Valéry

Parliamo ora del personaggio che ha interpretato oltre 640 volte nella sua carriera, del personaggio con il quale il pubblico l’ha quasi identificata: Violetta Valéry della Traviata. È stata la Violetta suprema nei cuori di migliaia e migliaia di spettatori di tre generazioni. È quasi incredibile! Ha cantato la Traviata dall’inizio degli anni ‘40 fino alla fine degli anni ‘70. L’ha conosciuta bene. Come ha immaginato Violetta Valéry? Come si fa questo ruolo?

Dipende dalla donna che interpreta Violetta e dalla sua relazione con la musica di Verdi. Violetta non è la creazione del soprano che la interpreta, è la creazione di Verdi. Nell’opera, i personaggi sono eminentemente musicali. La musica è la loro carne, il loro corpo, il loro spirito. Verdi l’ha creata. L’interprete la percepisce anzitutto e decisivamente attraverso la musica di Verdi. È come se si dovesse riempire un modello. Non puoi né debordare né lasciare spazi vuoti all’interno del modello. Se l’interprete ha una voce flessibile, allora è ideale per questo ruolo. La vocalità è essenziale. Il primo atto è molto difficile, è uno dei più difficili atti d’opera per un soprano. Nel primo atto c’è anche un mi bemolle – la nota più alta nella coloritura di Violetta. Non è obbligatorio fare questa nota. Se la voce non lo permette, non bisogna avventurarsi. Moltissime cantanti riproducono l’intero atto con un tono sotto quello che c’è nella partitura, perché diversamente non possono sostenere la linea vocale. Ho cantato la Traviata per ventisette anni e sono sempre stata in tono. Solo negli ultimi anni, non potevo più fare il mi bemolle, perché la mia vocalità si era sviluppata in un determinato modo e non volevo più forzarla. La maturità vocale spinge a dare di più.

Rimaniamo alla domanda su Violetta Valéry. È chiaro che ha fatto il ruolo in un modo a 20 anni e in un altro a 40. Con l’età, ha capito qualcos’altro del personaggio? Si è maturato il personaggio?

No. Ero io a diventare più matura. A 20 anni, i pensieri e l’atteggiamento che si hanno sulla vita sono in crescendo, perché la strada è all’inizio. Con il tempo, il corpo, la mente e la voce si compiono, diventano più forti. La voce matura deve essere ben curata per rimanere flessibile. Solo alla maturità si possono esprimere più sentimenti. Il grande amore è, in realtà, lo stesso. Ma a vent’anni lo si vive in un modo, a trent’anni in un altro, a quaranta in un altro ancora. Si tratta della propria persona. Il personaggio è lo stesso.

Per noi, spettatori, è preferibile un soprano nel ruolo di Violetta Valéry a vent’anni oppure a quaranta?

Se le piace la musica, deve ascoltare una cantante in tutte le tappe della sua carriera. Ci sono tante Traviate formidabili! Si può preferire la Callas o Angela Gheorghiu, importante è capirle tutte, perché ognuna offre nell’interpretazione qualcosa che è solo suo. L’età, l’intelligenza e la sensibilità sono molto diverse da una cantante all’altra. In fondo, ogni persona ha i propri standard di bellezza. Ciò che è bello per me può non esserlo per gli altri. Il mio è il punto di vista di chi ha cantato per alcuni decenni questo ruolo. Non posso dire qual è la Violetta che preferisco. Se si arriva a stare sul palcoscenico e a cantare la Traviata per dieci o quindici anni a livello mondiale, è semplicemente straordinario resistere. Questa è la prova di aver fatto un ruolo la cui bellezza non è scomparsa. Una bellezza solida. Callas, Sutherland, Caballé... tutte siamo, come si dice, straordinari esempi di interpretazione, ma ognuna in un altro senso. Ci unisce però il fatto di aver resistito in questo ruolo ad un alto livello. So che un melomane, tendenzialmente, ama una sola interpretazione, solo una. Ma io, poiché capisco l’essenza di questa performance, amo tutte queste interpreti.

Noi, spettatori, siamo così: ognuno ha il suo favorito o la sua favorita.

Callas, Zeani, Tebaldi, Sutherland, Angela Gheorghiu – siamo molto diverse: fisicamente, come mentalità, come sensibilità e, ciò che si nota subito, come voce. Ma quando cantiamo la Traviata abbiamo, in profondità, qualcosa in comune.


Sever Voinescu
Traduzione dal romeno di Afrodita Carmen Cionchin
(n. 5, maggio 2013, anno III)