«Grandi talenti e manager mediocri: cultura tutta da riformare». In dialogo con Vlad Alexandrescu

Vlad Alexandrescu è filologo, storico delle idee e specialista in cultura francese, professore di letteratura francese presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bucarest, coordinatore di dottorato di ricerca. Dopo la laurea in francese e tedesco della stessa facoltà (1989), ha seguito i corsi di master presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, vi ha conseguito la laurea di master nel 1991 e poi, nel 1995, il dottorato in filosofia «Summa cum laude», dopo di che ha compiuto vari stages di ricerca presso alcune istituzioni di prestigio (tra cui il «New Europe College» di Bucarest e il «Warburg Institute» di Londra). Nel 1997 è stato anche professore invitato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. In quanto specialista degli inizi della modernità (secc. XVI-XVIII), è membro di varie società europee del campo (Parigi, Lecce, Londra ecc.), membro fondatore del Centro di ricerca «Fondamenti della Modernità Europea» dell’Università di Bucarest e della rivista internazionale «Journal of Early Modern Studies». Vlad Alexandrescu è autore o coautore di più volumi dedicati prevalentemente agli inizi della modernità europea, pubblicati in Romania o all’estero, di numerosi saggi e articoli apparsi in riviste di specialità di molti paesi, traduttore di opere fondamentali della cultura europea e curatore di alcune edizioni di riferimento di grandi testi della cultura romena, come le opere di Tudor Vianu e di André Scrima e del monumentale lavoro di Dimitrie Cantemir, L'immagine irrafigurabile della Scienza Sacro-Santa, pubblicato dalla Mondadori nel 2012 e gratificato del premio «Nicolae Bălcescu» dell’Accademia Romena.
Nel periodo marzo 2006 – agosto 2011 è stato ambasciatore della Romania nel Granducato di Lussemburgo e nel 2015-2016, per alcuni mesi, ministro della cultura nel governo romeno Dacian Cioloş.

Professore, comincerei con gli esordi. Che cosa ha significato per Lei essere nipote del grande critico letetrario Tudor Vianu, oppure, più genericamente, che significa per un bambino crescere in una famiglia di alta intellettualità?

Ho vissuto la mia infanzia e adolescenza nel periodo comunista. Il fatto di essere nipote di Tudor Vianu ha significato prima di tutto l’obbligo morale di continuare in un certo senso ciò che il mio nonno aveva fatto per la cultura romena e, contemporaneamente, una forte consapevolezza di appartenere a una famiglia che era diversa dalle élites comuniste che, come tutti, le vedevamo intorno a noi. La cultura mi sembrava una sorta di rifugio, la casa dell’Europa e della libertà, era un modo di pensare me stesso nel mondo dei valori autentici.

Lei conosce bene i sistemi di insegnamento francese e romeno. Che cosa hanno portato a Lei gli studi conseguiti alla celebre Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi? E, pesando ai tanti giovani romeni che studiano oggi all’estero, che speranze hanno loro e che speranze in loro possiamo avere noi?

Sono arrivato a Parigi con una borsa di studio offerta dal Governo Francese nell’autunno del 1990, un anno dopo la laurea alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università du Bucarest. Per me questo ha significato un benefico cambiamento del sistema di insegnamento e un forte accento sulla responsabilità individuale e sul lavoro in équipe con il coordinatore di dottorato e con i suoi collaboratori. Oggi, con gli stages offerti dai programmi ERASMUS e con i vari scambi accademici, considero che i giovani hanno delle opportunità che non devono lasciarsi sfuggire. Noi, romeni, lottiamo ancora con un’inerzia istituzionale e con una mentalità bloccata, con un’incapacità di puntare all’eccellenza. Senza la libera circolazione e formazione dei giovani è difficile immaginare il futuro del nostro paese.

Lei è specialista di livello internazionale negli studi sugli albori della modernità. Perché questo interesse per quella svolta culturale? Crede che conoscerla meglio ci aiuterà ad affrontare in modo più dialettico e tranquillo le vicissitudini dei nostri tempi?

Sono convinto che studiando di più gli inizi della modernità saremo capaci di capirne meglio le sue incertezze recenti; se approfondiamo il pensiero dei secoli XVII e XVIII potremo comprendere in gran parte anche la filosofia mediatica del nostro tempo. D’altra parte, collocare ogni evento contemporaneo nell’andamento storico europeo ce lo rende più limpido e inquadrabile. La modernità romena è strettamente legata a quella europea e i tentativi di delineare una specificità isolata della cultura romena sono, secondo me, fallimentari. La cultura romena si è costruita in permanente dialogo con l’Occidente europeo, persino quando il dialogo era polemico. Ma capire non significa accettare. Il programma di studi sugli inizi della modernità aiuterà l’Europa, ritengo io, a riacquistare la capacità di reazione a eventi importanti che minacciano, come nel passato, la cultura europea. 

Pensa per caso al pericolo ottomano di allora?

Sì. E penso, per esempio, a come un personaggio come Guillaume Postel abbia tentato di integrare lo studio dell’Islam nella cultura europea e a quanto si dice che, a Venezia, Tintoretto abbia adottato lo stesso sincretismo religioso nei teleri della Scuola Grande di San Rocco. Penso anche a come, a San Pietroburgo, il principe moldavo Dimitrie Cantemir, socio dell'Accademia di Berlino, abbia fatto da mediatore culturale fra Islam e Ortodossia con la sua Historia incrementorum atque decrementorum aulae othomanicae e soprattutto con il Sistema o costituzione della religione maomettana. Come a quei tempi l’Europa ha saputo mobilitare le sue risorse culturali, immaginative, creative, potrebbe farlo anche adesso per fronteggiare le importanti sfide dei nostri giorni. 

Continuando questo discorso, ricordo che Lei ha fondato, insieme a Dana Jalobeanu, non solo il Centro di Ricerca «Fondamenti della modernità europea» dell’Università di Bucarest ma anche la rivista Journal of Early Modern Studies dedicata all’interazione fra scienze, filosofia, religione ecc. nei primi secoli della modernità. Riconosciuta a livello nazionale e internazionale, la rivista ha un board e un contenuto di altissimo livello. Perché non vi si incontrano articoli scritti da ricercatori romeni? Una tale rivista pubblicata in Romania non dovrebbe essere anche uno stimolo e un’affermazione dei giovani ricercatori romeni?

Ho fondato, con Dana Jalobeanu, nel 2012, questa rivista semestrale nel sistema academic double blind peer review, con un’importante collaborazione internazionale. Da allora in poi è cresciuta costantemente. Dopo tre anni siamo riusciti a essere quotati nel catalogo ISI – Emerging Sources Citation Index, successo notabile per una pubblicazione dell’area umanistica. Ci siamo imposti la regola di non pubblicarvi noi stessi e di non privilegiare gli articoli dei ricercatori romeni perché romeni. In altre parole, ogni articolo si sottopone alle stesse procedure. Sono convinto che, ora che ha raggiunto uno standard internazionale, la rivista attirerà anche i ricercatori romeni.

Lei è anche specialista di Dimitrie Cantemir e la cultura romena può esserLe grata per questo. Come si è accesa in Lei la scintilla Cantemir e che direzione ha seguito? Ci racconti un po’ quest’avventura e che significato riveste per Lei?

Il momento cruciale di questo incontro è stata la scoperta nella Biblioteca dell’Accademia Romena, fra le carte dello studioso Grigore Tocilescu, di un frammento del manoscritto autografo del lavoro di gioventù di Cantemir Sacro-sanctæ scientiæ indepingibilis imago. Ciò ha segnato l’avvio del progetto, da molto tempo desiderato e ulteriormente portato in porto, di tradurre in francese e in italiano questo primo importante trattato filosofico scritto da un romeno all’inizio della modernità europea. In questo progetto io mi sentivo il continuatore di una direzione di prestigio della cultura romena – quella di Virgil Cândea e Dan Sluşanschi, intellettuali di grandissimo valore che hanno consacrato parte della loro attività alla diffusione dell’eredità di Cantemir e alla comprensione del suo posto al crocevia della modernità romena. Cantemir mi affascina per la sua formazione filosofica che abbina l’insegnamento teologico greco-ortodosso con l’umanesimo dell’aristotelismo padovano della fine del secolo XVII. Lui è un iniziato di grande finezza e dalla cultura enciclopedica, che rifonda la cultura cristiana orientale. Sacro-sanctae scientiae indepingibilis imago (1700) propone una filosofia ortodossa, completamente disgiunta dall’aristotelismo padovano all’epoca fiorente nell’Accademia Patriarcale di Costantinopoli. Il metodo sperimentale, la spiegazione fisica dell’arcobaleno, la circolazione del sangue sono temi irrisi dal giovane Cantemir che aspira a riportare nella coscienza del lettore la prisca philosophia con la contemplazione del volto divino. Avrà forse letto le Meditazioni di Cartesio? La certezza della presenza dell’infinito dentro il finito, la traccia del Creatore nel creato sembrano suggerirlo. Eppure quale capovolgimento di valori! Quale ritorno alle fonti! Col principe moldavo si ritorna alla teologia apofatica di uno Pseudo-Dionigi l’Areopagita, alla visione beatifica di Gregorio Nasianseno.

Bello, ma cambiamo discorso. Che cosa l’ha spinto ad accettare o a desiderare una tregua nella sua carriera scientifica per dedicarsi a quella diplomatica?

L’idea che un intellettuale deve assumersi una missione più generale, quella di rappresentare e ripensare i valori del proprio paese. Ho accettato la missione nel Granducato di Lussemburgo quando la Romania si integrava nell’UE, nel 2007, e quando la città di Sibiu diventava, insieme a quella di Lussemburgo, capitale della cultura europea. Io considero che un intellettuale non deve costruire la propria reputazione sull’istituzione che dirige, ma viceversa. Altrimenti non parliamo di impegno ma di carrierismo. Secondo me è importante che un ambasciatore dia lustro alla sua ambasciata, e non gloriarsi che, per breve tempo, dirige quell’istituzione. E ciò avviene solo se capisce che lui impersona le attese della gente del suo paese e che, tramite il suo lavoro, questo suo paese mette in moto le idee e i progetti che lo rendono visibile.

Recentemente è stato per breve tempo ministro della cultura: un ministro controverso, contestato da alcune istituzioni dello stato, anche culturali, ma amato da giovani associazioni fiduciose nelle riforme da Lei avviate.

La contestazione non è venuta, mi pare, dalle istituzioni ma dai direttori delle istituzioni. Dato che alcuni dei ministri precedenti sono stati programmaticamente concilianti e arrendevoli, molti manager delle istituzioni culturali hanno consolidato la propria posizione, acquistando un prestigio fondato non sulla competenza ma sulla funzione e hanno creato una rete di mutuale sostegno, svolgendo un’attività culturale mediocre e comoda. E ciò quando la maggior parte dei musei, per fare un solo esempio, si presentano come cinquanta anni fa. Ho avuto la sorpresa di constatare che in genere tale approccio non era messo in discussione, ma era accettato come una routine amministrativa, come se il ministro dovesse dirigere un reparto amministrativo e non il settore più creativo e immaginativo del paese. Invece di una collaborazione fra managers e ministro per cambiare la legislazione nel campo, per vivificare le istituzioni, alcuni managers si sono rifugiati nell’amministrazione, ciechi al talento, allo slancio, alla passione dei loro subordinati nei musei, teatri, filarmoniche da loro diretti. E sì, forse proprio per aver avviato alcuni progetti forti, apprezzati dai cittadini e dalle associazioni giovani di cui parla Lei, alle mie dimissioni hanno circolato varie proteste firmate da insigne personalità culturali romene che chiedevano che io rimanessi e continuassi le riforme.

Dato che parla di riforme: secondo Lei, ci sono – genericamente parlando – qui e ora, difetti basilari nel rapporto fra Stato e cultura? E se sì, come considera Lei che possano essere superati?  

In qualche modo nella nostra cultura persiste, da prima del comunismo, l’idea che dobbiamo essere guidati. Noi non ci siamo ancora assunti la responsabilità della nostra condizione. E arrivato, credo, il momento di capire che il presente dipende da noi stessi. A livello governativo si possono fare grandi cose e il Governo Dacian Cioloş ha dimostrato un’autentica volontà di riforma e ha ottenuto risultati veri in breve tempo. Nella mia breve esperienza al Ministero della Cultura ho constatato che in tutti i campi gestiti dal Ministero ci sono delle persone straordinarie, sincere e desiderose di lavorare. Molte di loro sono stufe delle bugie e della corruzione e desiderano trasparenza e apertura europea. La condizione necessaria è ideare progetti coerenti e metterli in opera. Io sono molto ottimista in questo senso, purché ci sia anche un sostegno politico e governativo. Considero ugualmente che, in questo momento, la cultura viva possa dare consistenza alla riforma dello stato, possa offrire una visione, possa proporre domande che generino nuove direzioni per lo sviluppo della società. In fine, ritengo che è importante che qui gli artisti si sentano a casa, cioè essere riconosciuti e stimolati nella loro creatività, ciò che aiuterebbe noi tutti stare meglio in Romania.

Apprezzabile questo ottimismo da parte di un ministro dimesso! Ma con che pensieri ha cominciato il suo lavoro di ministro, che poi avrebbe smesso dopo appena sei mesi?

Quando ho accettato questo incarico, ero molto impressionato dalla tragedia del club Colectiv, dalle proteste in strada sulla questione Roşia Montană, dall’atmosfera polverosa di alcune istituzioni culturali. Ritenevo necessaria, oltre ogni rischio, una riforma istituzionale top-down, e contavo sul sostegno delle persone che in quelle istituzioni avevano idee nuove e sul settore culturale indipendente, che ha un enorme potenziale creativo e fattivo. Ed ero ben consapevole dell’estrema scarsità del budget alla Cultura che, man mano, parlamento e partiti, concordi, avevano ridotto fino al minimo storico di 0,08% del PIL, ma anche del fatto che tale scarsità era una comoda scusa per molti managers delle istituzioni pubbliche, che preferiscono lamentarsi invece di prendere iniziative coraggiose, con fondi europei o in progetti alternativi, per superare la mentalità «questi sono i soldi stanziati». Ero a conoscenza, per sentito dire, anche di certe trafile per cui la corruzione era penetrata nelle istituzioni culturali, regionali o persino ministeriali, e immaginavo che la mia missione sarebbe stata difficile.

Parla di corruzione e di una riforma top-down. In che cosa dovrebbe essa consistere e che cosa è riuscito a realizzarne nel suo breve mandato?

Secondo me, i progetti importanti sono l’unica chance di visibilità per un ministro della cultura, dato che i mezzi finanziari, come già detto, sono scarsissimi. Perciò ho cominciato con le necessità assolute del settore culturale, ossia con un nuovo Statuto dell’artista e con l’integrazione del settore culturale indipendente nei meccanismi di finanziamento pubblico. I miei progetti maggiori intendevano la riforma delle istituzioni culturali a partire da cambiamenti legislativi riguardanti la tutela dei monumenti storici, il management delle istituzioni di cultura pubbliche e una nuova Legge dei Teatri.
Fra le cose che sono riuscito a realizzare citerei l’avvio di un importante dibattito riguardante la cultura indipendente o alternativa, il codice di leggi della tutela del patrimonio culturale, la riforma dei musei con una nuova strategia del management del Museo Nazionale di Arte della Romania, oppure la campagna per l’acquisto del capolavoro di Constantin Brâncuşi, La Saggezza della Terra. I dibattiti e le consultazioni da me avviati hanno creato, dico io, un benefico sentimento di attesa e, contemporaneamente, una congiunzione mai vista fra i movimenti civici e i creatori d’arte. Inoltre avevo proposto anche un progetto, a lungo atteso, di un nuovo auditorio per concerti integrato con uno spazio-arti in Bucarest, in base a un concorso internazionale di architettura, per cui avevo già individuato lo spazio e i canali di finanziamento; ma questo progetto si è ingolfato per ragioni oscure e anche per il vecchio pregiudizio che teme le riunioni pubbliche (un concerto?) in prossimità di sedi centrali (il sito era vicino al palazzo del governo).

Se volessimo tirare le somme, quali sarebbero i Suoi principali meriti ed errori nei sei mesi alla direzione del Ministero della Cultura romeno?

Credo che nei sei mesi di mandato, sono riuscito a proporre con coraggio una visione e che sono stato uno dei ministri più riformisti del Gioverno Cioloş e credo pure che alcune cose da me avviate andranno avanti, semplicemente perché le ho scatenate. In quanto agli errori, credo che l’errore principale sia stato quello di aver messo troppa carne al fuoco, come dicono gli italiani. E la resistenza al cambiamento è sempre grande ed è sorta da più parti, soffocando alla fine questa primavera della Cultura. Ma come per ogni primavera, aspettiamo che ritorni anche questa. Una volta liberate, le energie non si arrestano più.

    


Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(settembre 2016, anno VI)