Ceronetti e Cioran. Amichevoli messaggeri dell’inesorabile

Una confessione, per cominciare. Redigere un articolo in modo oggettivo intorno a questi due giganti del pensiero non allineato può risultare difficoltoso per chi, come lo scrivente, veda in entrambi due fari nel mare in tempesta, due salde boe cui aggrapparsi, un approdo sicuro. La recente scomparsa di Guido Ceronetti ha colpito duro e ci ha privato dell’ultima lanterna lasciandoci orfani, in brancolante smarrimento, consci che pensatori e, sopra ogni cosa, lenitori di tale levatura ben difficilmente solcheranno il nostro orizzonte prima che anche la nostra fioca luce precipiti nel buio.
Cioran e Ceronetti coltivarono un’amicizia che trova probabilmente la sua genesi nell’intensità con cui ambedue approcciarono alcune comuni tematiche-chiave del loro modo di guardare alla realtà, quasi un medesimo tono, una stessa vaga musica cui accordarsi. Aspetti quali l’articolazione tra illusione e delusione (nel senso etimologico riferito al latino ludere) mediata dalla lucidità, motore anche della loro tracimante e tuttavia caritatevole misantropia. E poi la visione della storia, aborrita sia dal romeno sia dal piemontese in particolare nelle sue insostanziali sfaccettature falsamente progressiste che i due non mancarono di smascherare con virulento sarcasmo.
Esistono, per altro, pagine dell’uno sull’altro. Uno dei capitoli degli Esercizi di ammirazione, intitolato L’inferno del corpo, del «filosofo-artista» transilvano (categoria in cui proprio Ceronetti inseriva Cioran) è dedicato al torinese che ha ricambiato con qualche articolo tra cui il commovente Cioran addio stilato in occasione della morte del maître à penser romeno. Le pagine cioraniane su Ceronetti finite nel succitato volume erano originariamente contenute in una lettera scritte al proprio editore in data 7 marzo 1983; in essa Cioran parla de Il silenzio del corpo, uno dei testi di riferimento del «filosofo ignoto», come Ceronetti amava definirsi. Sul finire dell’epistola si legge: «dà l’impressione di un uomo ferito, allo stesso modo, sarei tentato di aggiungere, di tutti coloro cui fu negato il dono dell’illusione. Non tema di incontrarlo: fra tutte le persone, le meno insopportabili sono quelle che odiano gli uomini. Non bisogna mai fuggire un misantropo!». Ecco emergere il tema dell’illusione sbarrata da un eccesso di lucidità e quello della peculiare forma caritatevole di misantropia. Gli fa eco Ceronetti nel già segnalato articolo Cioran Addio pubblicato da «La Stampa» nel 1995: «succede anche questo: che i migliori amici della società umana si reclutano spesso proprio in questi smilzi rinneganti rinnegatori. Chi denuncia che la peste c’è, salva; chi dice che si tratta di un raffreddore, assassina». Ci sono altri passaggi dello stesso articolo di grande interesse, come il seguente da cui fa capolino l’idea che non agli ottimisti ma ai lucidi convenga rivolgersi qualora si abbia bisogno di conforto e cura: «non sono certo le parole e le spalle degli ottimisti che possono fornire un aiuto quando il mal di vivere prende alla gola». Inequivocabile anche il seguente passo che Cioran avrebbe senz’altro sottoscritto: «credere nell’uomo è veramente l’idolatria più maledetta, il peccato dei peccati, l’errore degli errori». D’altronde Ceronetti aveva già spinto sul tasto della misantropia cioraniana in un articolo pubblicato sempre per «La Stampa» il 16 dicembre 1979 emblematicamente intitolato Cioran, misantropo appassionato.

Sin da questi brevi ritratti che si sono reciprocamente destinati, dunque, è possibile mettere a fuoco alcuni dei temi centrali delle rispettive opere.
Certamente è stato soprattutto l’italiano, di sedici anni più giovane, a scrivere sul romeno; memorabile la nota introduttiva a Squartamento il cui titolo, ancora una volta, non lascia adito a dubbi ed è capace di condensare in una formula icastica un intero mondo: Cioran, lo squartatore misericordioso. Una decina di pagine da cui emerge una descrizione intensa, tagliente, meravigliosamente nitida dell’uomo dei Carpazi. Agli occhi di Ceronetti Cioran è infatti «un metafisico. Ma non distante, non eterico, non enigmatico: un amico. Un antidoto contro le stregonerie, contro le intossicazioni del secolo. Leggerlo è avvertire la presenza di una mano tesa, afferrare una corda gettata senza timidezza, avere alla propria portata una medicina non sospetta». Cioran è uno psicoterapeuta, etimologicamente uno che guarisce, che si prende cura dell’anima. Un sostegno. Va rimarcato: un amico.
E poi il brano che dà conto della scelta del titolo del pezzo che state leggendo: «Un altro punto capitale del testo di Cioran è che l’idea dell’inesorabile ci consoli in quanto barlume fuggiasco del pensiero metafisico». La lucidità è allora, in Cioran ma certamente anche in Ceronetti, una luce gettata sull’inesorabile e sull’irrespirabile.
Un lavoro di analisi comparata dei testi dell’uno e dell’altro dei nostri autori di portata maggiore di quella di un articolo sarebbe auspicabile. Senza dubbio i parallelismi tra Cioran e Ceronetti sono notevoli e potrebbero portare alla redazione di uno studio di grande interesse. Per ora, però, limitiamoci ad aggiungere altra carne al fuoco, magari non badando in modo eccessivo a imporre una coerenza sistematica che certo avrebbe infastidito non poco i due e che anzi si porrebbe in aperta antinomia con i modi e le convinzioni di entrambi.
Restiamo nei dintorni del rapporto illusione-delusione e della posizione di scacco, d’intrinseca impossibilità che contraddistingue la condizione umana. Così Cioran proprio in Squartamento: «Noi non abbiamo scelta se non fra verità irrespirabili e imbrogli salutari». Si delinea l’inesorabile, unica cura possibile sprofondare nell’illusione, schermo unico contro gli orrori del reale. Occorre nascondere, nascondersi, mentire. È il dilemma della scena chiave del celebre Matrix scritto e diretto dalle sorelle Lana e Lilly Wachowski. Il protagonista, Neo, viene messo di fronte a una scelta, se optare per la pillola blu persistendo nell’illusione o se, come poi farà, decidere di ingerire la pillola rossa che gli schiuderà le porte del vero mondo nella sua cruda, orribile realtà. Cioran e Ceronetti sono la pillola rossa e il risveglio all’esistente non è certo foriero di scenari idilliaci. Ceronetti, in Tra pensieri, cede la parola a Karl Jaspers che, ne Il tragico, sostiene che «se la concezione tragica dell’universo libera e redime l’uomo lo fa solo a patto di celargli i più terrificanti abissi della realtà». Nei «terrificanti abissi della realtà» evocati dello psichiatra e filosofo tedesco non restano che le parole ad aprire minimi spazi di manovra, angusti pertugi, ristrettissimi intervalli dai quali porre in atto strategie di resistenza come magistralmente afferma Cioran ne Il sommario di decomposizione: «alla ricerca affannosa di una nomenclatura per l’Irrimediabile cerchiamo sollievo nell’invenzione verbale, in chiarezze sospese sopra i nostri disastri. Le parole sono caritatevoli: la loro fragile realtà ci inganna e ci consola».
La presa di posizione di Ceronetti sulla natura e sul destino umani è lapidaria, una diagnosi spietata, di un coraggio potente, un’overdose da pillola rossa. Così il piemontese ne Il silenzio del corpo: «una conoscenza priva di un’idea imponente del Male, del Male come universo e principio, che non tenga conto del Male che l’uomo è e fu, e che è costretto a espiare, è una conoscenza in vista del Male, in favore del Male, suggerito, probabilmente, dal Male». Il problema del male è pervasivo nell’opera di entrambi, il dualismo feroce, senza quartiere di Ceronetti e le tentazioni gnostiche di Cioran s’inseguono, si rinforzano, si amplificano vicendevolmente tratteggiando una maligna inflazione cosmica che è sinossi dell’irrimediabile. Nei preziosi Cahiers, salvati dall’oblio da Simone Boué, la compagna di una vita di Cioran, il pensatore privato, come talvolta etichettava se stesso, ci informa che «ogni essere emerge da non si sa dove, lancia il suo piccolo grido e scompare senza lasciare traccia». E non c’è dubbio alcuno sull’appropriatezza della disamina ceronettiana nella già citata nota introduttiva per Squartamento quando dichiara che «la muraglia appare senza finestre, addirittura senza crepe (…) lo scavo del male procede a volte con furia e fissità maniacali».

In tema di avversione per il fenomeno umano i due formano ancora una volta una specie di anello di accelerazione, in cui ogni impulso mira a raggiungere il parossismo lucido. Se Ceronetti, in La carta è stanca, scrive che «l’eccesso di popolazione umana divoratrice di mondi è un terribile contagio; tutti questi respiranti sono nemici del respiro» (un respiro che è pneuma, ātman brutalizzato dal brulicare ilico umano… del resto, mettendo in campo il suo strenuo ambientalismo, ci fulmina con il suo «Noi, i Geofagi») e, ne Il silenzio del corpo rincara sostenendo che «la Terra desolata, senza uomini, soltanto l’amore dell’uomo per se stesso la immagina in preda alla desolazione. In realtà, la Terra è desolata di non essere desolata. Purtroppo di una Terra realmente desolata, non conosceremo mai la profonda allegria», Cioran, ne Il funesto demiurgo, dilata con penosa causticità lo stesso pensiero asserendo che «come una cancrena la carne si estende sempre più sulla superficie del globo. Non sa imporsi dei limiti, continua a imperversare nonostante i disinganni, prende per conquiste le proprie disfatte, niente ha imparato mai».
Non può destare sorpresa, a questo punto, il disprezzo di ambedue per la procreazione alimentata da una radicale, feroce e impietosa lucidità.
Cioran denuncia che «procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire» mentre si fa accorato l’appello inascoltato di Ceronetti «Oh madri fermatevi, non aumentate le sciagure umane!» che poi decreta «utero o valve cosmiche, l’essere vivente è espulso da una prigione – senza però ottenere la libertà». La terapia per trovare ossigeno? Uno spazio risicato ma sufficiente a respirare? L’espressione. La decompressione per mezzo della scrittura, il depotenziamento del dolore per il tramite della parola, questa entità effimera, priva di sostanza, colpita da fugacità.
Accanto alla «parola inzuppata di silenzio», per dirla con Edmond Jabès, si palesa un’altra paradossale possibilità che potremmo chiamare terapia della capitolazione. Laddove Ceronetti giunge a mirabile sintesi con il suo «vince chi si arrende», Cioran replica con il seguente, amaro passo: «Che cosa aspetti ad arrenderti? Ogni malattia ci invia un’intimazione camuffata da interrogativo. Fingiamo di non sentire, pur pensando che lo scherzo è durato già troppo, e che la prossima volta bisognerà avere finalmente il coraggio di capitolare».
Un passaggio sulla violenta requisitoria contro storia e progresso è d’obbligo. Il tempo storico, nella migliore delle ipotesi, è statico, non avanza, non ha sviluppo, ogni utopia è raggelata e fuori dall’orizzonte, estranea, nemmeno idealmente prefigurabile. Così Ceronetti in un documento conservato nel Fondo Ceronetti presso la Biblioteca Cantonale di Lugano poi pubblicato in La fragilità del pensare: «le modificazioni incessanti dell’ignoranza sono chiamate, fra noi, progresso della conoscenza, evoluzione del pensiero, conquiste scientifiche» e si chiede «se la storia non fosse che la lettura interminabile di un oscuro verbale processuale, la cronaca sanguinosa di un’espiazione?». Non meno spietato il j’accuse di Cioran in cui la storia si configura addirittura come un progredire verso il peggio, un’inesorabile corsa via via più rovinosa incontro alla catastrofe nutrita dall’irrefrenabile e perniciosa passione dell’uomo per l’azione, una vera e propria superstizione esiziale per l’atto, così come esplicitato in un’intervista rilasciata a Sylvie Jaudeau inclusa in Un apolide metafisico: «l’uomo era condannato in partenza. Dimentica nell’azione la pienezza primordiale che lo preservava e dal tempo e dalla morte. È stato lui a votarsi alla rovina. La storia sorta dal tempo e dal movimento è condannata all’autodistruzione. Non può venire niente di buono da ciò che all’origine fu effetto di un’anomalia», e aggiunge, a esemplificare l’azione disvelatrice della lucidità quando applicata, quasi fosse il più potente agente corrosivo, alle illusioni della storia e del progresso verso chimeriche magnifiche sorti, che «la storia, a voler essere esatti, non si ripete, ma, poiché le illusioni di cui l’uomo è capace sono limitate di numero, esse ritornano sempre sotto un diverso travestimento, dando così a una porcheria ultradecrepita un’aria di novità e una vernice tragica».

È il momento per una ricognizione su un tema particolarmente caro all’autore de L’inconveniente di essere nati, e anzi un argomento col quale spesso il romeno, in modo certamente affrettato, viene identificato, quello del suicidio. Ceronetti sembra aprire uno spiraglio per un miracolo, la sua muraglia mostra qualche fallace fessurazione, confessa di «aspettare Qualcuno… Qualcuno che sia un inviato dall’Alto, un veltro, un redentore la cui luce brilli nelle tenebre… finché si aspetta un evento impossibile, veleni e pistole restano nell’armadio». Cioran, dal canto suo, ci rassicura circa l’estrema utilità del pensiero suicidiario, infatti «si teme l’avvenire solo se non si è certi di potersi uccidere quando si vuole». L’idea di suicidio, su questo punto Cioran torna sovente e in maniera assai chiara, è tra le poche ad aiutare l’essere umano a vivere, paradossalmente la possibilità di «togliere il disturbo», di «svignarsela» è in grado di regalare una forma peculiare di serenità. Pensarsi nella bara o concentrare la propria attenzione sullo scheletro che siamo tende a inficiare il potenziale ansiogeno delle nostre più o meno quotidiane tribolazioni.
Accanto al pensiero del suicidio c’è un altro elemento che ci assicura una scusa se non un motivo per vivere, il riso: «Sbarazzarsi della vita è privarsi del piacere di riderne», avverte Cioran. Il ridere qui sorprendentemente agisce, meraviglia dell’indifferenza verso il principio di non contraddizione, in chiave anti-suicidiaria. Del resto il romeno non ha mai mancato di sottolineare l’esigenza che il suicidio resti un compagno virtuale della nostra vita, scoraggiando, talvolta in prima persona, individui decisi a trasformarlo in atto.
Come abbiamo brevemente avuto modo di saggiare le contiguità, le anastomosi, le affinità tra questi colossi sono ragguardevoli, analogie che mettono in secondo piano le differenze tra il filosofo di Raşinari e il piemontese. In quest’ultimo il credo dualista risulta senza dubbio più marcato, inoltre Ceronetti non ha subito «l’esilio linguistico» di cui è stato invece protagonista Cioran nel suo abbandonare la lingua madre a favore del francese. Quello che, in conclusione, preme ancora una volta enfatizzare è il legame distintivo che entrambi sono capaci di creare con i loro lettori. Un rapporto che valica ampiamente i confini che abitualmente s’instaurano con un oggetto di studio per sfociare in una ineffabile forma di amicizia in cui trovare vero sollievo, lontani anni-luce dalla sistematicità, talvolta persino pedante, di tanta filosofia. Perché «tutto ciò che non è diretto è nullo».



Alessandro Seravalle
(ottobre 2018, anno VIII)