«io sono un mistico e non credo in nulla». Convegno a Napoli su Emil Cioran

Il 15 e 16 novembre 2017 alcuni tra i più importanti studiosi del pensiero di Emil Cioran si sono dati appuntamento presso la splendida Aula Magna della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (sezione San Tommaso d’Aquino) per discutere da differenti angolazioni, sotto la direzione scientifica di Antonio Di Gennaro e del Prof. Pasquale Giustiniani, sul tema «Dio e il Nulla. La religiosità atea di Emil Cioran». Al centro dell'attenzione, i convulsi rapporti di Cioran con il «divino», affrontati secondo uno spettro molto ampio di punti di vista (esegetici, verrebbe da dire). In attesa dell’auspicabile pubblicazione degli Atti, il presente articolo rappresenta una sorta di diario del convegno.

La prima giornata dei lavori si apre con un breve ma sentito ricordo di Mons. Ignazio Schinella, decano della Facoltà prematuramente scomparso soltanto pochi giorni prima e sostituito, nel fare gli onori di casa, dal Preside Gaetano Castello. Prendono poi la parola, per i saluti istituzionali di rito, il filosofo rumeno Liviu-Petru Zăpirțan, ambasciatore di Romania presso la Santa Sede, il Console generale di Francia e Direttore dell’Institut Français di Napoli Jean-Paul Seytre e l’Assessore alla cultura e allo spettacolo del Comune di Napoli Nino Daniele.

La prima sessione è introdotta e presieduta da Pasquale Giustiniani, Professore di Filosofia Teoretica, della religione e bioetica della facoltà ospitante, che lascia presto spazio alla prima comunicazione curata da Aldo Masullo, Professore ordinario di filosofia morale alla Federico II di Napoli, intitolata Cioran: l’ultima solitudine (con una modifica in corsa del titolo che era in un primo tempo previsto essere La solitudine dell’unico). Masullo, utilizzando una citazione di Cioran («massacrate tutte le parole, un'unica superstite: solitudine»), lascia intendere come in Cioran la solitudine non possa essere ridotta a qualcosa di pratico ed emotivo ma vada invece letta come un elemento costitutivo, consustanziale all’uomo. Essa sarebbe, secondo Masullo, «un misterioso continente dell’animo umano» contraddistinto dalla «vissuta certezza della sua insuperabilità». L’ex-sistente, lo stante fuori, risulta così sospeso nel Nulla. Masullo propone un parallelo tra Cioran e Sartre, autore che, eufemisticamente, il romeno non amava troppo mostrando come al sartriano «l’inferno sono gli altri» faccia da contraltare la posizione cioraniana secondo cui il paradiso è l’assenza degli altri. Due immagini che si fronteggiano, l’una in qualche modo come il negativo dell’altra. Il filosofo avellinese sfiora poi Levinas quando parla di relazione senza relazione riguardo al rapporto Dio-Cioran. Dio sarebbe una specie d’impossibile ipostasi della solitudine cioraniana, il «Grande muto» come contenitore generato dal bisogno di dialogo («un dialogismo interiore in Dio» secondo Aurelien Demars). Una qualche forma di salvezza sembra dunque legata «all’ultima solitudine», un salvifico «mantenersi separati da sé (da me a me)». Secondo Masullo «Cioran intuisce che nella solitudine sta il cuore del problema della salvezza dell’uomo», l’ultima solitudine non va dunque compromessa, ossia va mantenuta nel soggetto la relazione tra sé e il suo alter essendo l’elemento dialogico immanente all’umano così come messo in luce da Platone quando afferma che «il pensiero è il dialogo dell’anima con se stessa».

A seguire era previsto l‘intervento, dal titolo Cioran et le besoin de Dieu, di Nicolas Cavaillès, curatore delle Œuvres di Cioran per la «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard. Il ricercatore di Lione avrebbe probabilmente proseguito su una linea attigua a quella di Masullo considerando che nell’abstract della sua relazione si parla di Dio come di un «interlocuteur nècessaire mais silencieux ou absence parlante». Purtroppo però impegni inderogabili hanno precluso allo studioso francese la possibilità di presenziare all’evento.

Giovanni Rotiroti, ricercatore di lingua e letteratura romena presso l’Università Orientale di Napoli e direttore, insieme al Professor Ciprian Valcan, del gruppo di ricerca interuniversitario «Progetto Cioran», ha pertanto anticipato la sua comunicazione intitolata Urât ontologic: Cioran e la Noia in Dio. La noia, avverte Rotiroti, costituisce la tonalità emotiva fondamentale del pensatore di Raşinari, sorta di radiazione di fondo che «inizia dopo Dio». Ogni tentazione teleologica accomodante viene annichilita dal cioraniano «coltivare la mancanza» in una specie di rondò in cui la vanitas vanitatum torna ad oltranza. La noia cioraniana secondo Rotiroti nasce dall’incontro tra il vuoto dell’uomo e l’umana percezione del vuoto non scorrere del tempo. Essa costituisce una sorta di punto di congiunzione tra βιος e λóγος. Si tratta di un incastro, un inghippo, un’avaria. D’altronde non è forse vero che per Cioran «essere, è essere incastrati»? Su questo terreno di coltura si innestano le digressioni sull’acedia, il demone meridiano è un’eterna domenica (e non siamo lontani dal Benjamin Fondane de Il lunedì esistenziale e la domenica della storia, pubblicato in Italia per i tipi della Morcelliana nel 2014), una stasi stagnante. La noia ontologica è tuttavia «vuoto nutritivo», in qualche modo fecondo, portatore di una luce nera in grado di esacerbare la lucidità e di condurre a una trasformazione del soggetto che ne sia preda.

Dall’Università Cattolica di Milano arriva invece Mattia Luigi Pozzi la cui interessante comunicazione è tesa a mettere in luce le ascendenze del pensiero cioraniano di marca gnostica (con un occhio di riguardo rivolto al marcionismo) o neognostica con particolare riferimento ai bogomili. Dalla setta cristiana sviluppatasi nei Balcani intorno al IX secolo Cioran assume l’idea secondo cui il mondo sarebbe opera di un «funesto demiurgo». I bogu-mil («cari a Dio») ritengono infatti condannabile tutto ciò che non è spirituale riprendendo sotto questo aspetto la posizione di Marcione quando afferma che «Dio è imperfetto come la sua opera». Pozzi individua quattro categorie in grado di rimandarci la relazione di Cioran con la religione: il sacro (così come inteso da Rudolf Otto quando sostiene che «il sacro è eccedenza» rispetto al razionale, è mysterium tremendum), la mistica senza Dio (Fritz Mauthner) come «tentazione» cioraniana di confronto con il divino, l’umorismo quale «modalità operativa di sopravvivenza» e infine la pietà come «sentimento fondamentale dell’atteggiamento cioraniano».

Prende poi la parola Horia Corneliu Cicortaş della Fondazione Bruno Kessler di Trento che propone all’ampio uditorio un confronto tra Cioran e Mircea Eliade (si segnala en passant che la corrispondenza tra i due esponenti della «giovane generazione» romena è in corso di pubblicazione). Lo sfondo che porta quest’ultimo ad avvicinarsi alla Garda de Fier è il suo carattere cristiano, cosa che non ha interesse alcuno per il pensatore di Raşinari corroso invece da uno scetticismo radicale. Cicortaş pone sotto la lente di ingrandimento la seguente frase: «io sono un mistico e non credo in nulla», la congiunzione non è, come ci si poteva attendere, avversativa in quanto mistica e fede sono elementi radicalmente diversi. La prima ha in qualche peculiare modo a che fare con la percezione mentre la seconda emerge da una specie di esigenza di credere di un soggetto. Cioran può dunque dichiararsi mistico ma l’orizzonte fideistico gli è per sempre e da sempre negato, sbarrato a priori dalla sua indole scettica, dal suo «sangue di piombo».

Chiude la prima giornata di lavori l’intervento di Francesca Marino della Fondazione Luigi Einaudi di Roma dal titolo L’antiteodicea di Emil Cioran: il male in Dio. Questa comunicazione fa il paio con il precedente contributo di Mattia Luigi Pozzi andando ancora una volta a indagare la parentela spirituale di Cioran con gli gnostici. Cioran, figlio di un pope ortodosso, ha senza dubbio introiettato una qualche idea di teodicea cristiana tesa a «salvare Dio» dal problema della presenza del male nel mondo, ma egli la capovolge immettendo il male in Dio stesso. Dio mostra così il suo vero, mefistofelico volto, egli è «l’istigatore di eventi» che ha messo in moto la Storia e il suo carico di diabolico orrore attraverso la Creazione («il primo atto di sabotaggio», secondo uno dei suoi più fulminanti aforismi). Ecco allora palesarsi una vera e propria «antiteodicea», sciorinata con il solito, sublime e rapsodico stile dal pensatore romeno.

Con un rimescolamento nell’ordine degli interventi previsti la seconda giornata si apre con Cioran, un approccio nell’ottica della storia della letteratura di Silvio Mastrocola. Tutto l’intervento dello studioso della facoltà ospitante è indirizzato a mostrare come la letteratura possa costituire «un’ancora di salvezza» in grado di fornire un punto d’appoggio e, al contempo, di fuga dalla deriva verso il peggio del mondo contemporaneo.

Il successivo contributo porta la firma di Giuseppe Ferraro, Professore alla Federico II di Napoli, membro del Centro Italiano di Fenomenologia e, soprattutto, fautore dell’uscita della filosofia dalle torri d’avorio dell’accademia con il suo progetto «Filosofia fuori le mura». Il sito internet www.filosofiafuorilemura.it contiene ampia documentazione dell’attività del gruppo e di Ferraro in prima persona come, per esempio, il lavoro con i bambini delle scuole di periferia o nelle carceri con i detenuti, un’opera altamente meritoria che va sottolineata con forza. Se Sant’Agostino, esordisce Ferraro, propone un «prendi e leggi» che apre alla conversione, Cioran si attesta invece su un «prendi e scrivi», rifiutando in tal modo ogni forma di conversione consolatoria. Secondo Ferraro «Cioran non nega Dio, lo rinnega», egli “prega imprecando” ma, ci avverte il filosofo napoletano, «c’è tanto più Dio in chi lo rinnega che in chi lo conferma». Si tratta tuttavia di un Dio paradossalmente assente, sorta di reificazione della solitudine e del soliloquio dal momento che, afferma ancora Ferraro, «quando si parla a se stessic’è sempre un Dio che s’inventa». Di grande interesse ermeneutico un’altra asserzione di Ferraro: «Cioran non decostruisce ma decompone», qualcosa che ha a che fare con l’organico piuttosto che con la grammatica, con il sangue piuttosto che con la strategia. Del resto Cioran stesso non ha mai nascosto l’indissolubile legame che lega la sua scrittura alla propria fisiologia (o patologia sarebbe forse meglio dire). Scrivere dunque da un lato si configura come una manovra auto-terapeutica di resistenza (con le parole di Ferraro, «la scrittura per Cioran è un sopravvivere»), dall’altro è «un suicidarsi», quasi un travaso di vita a favore della pagina. E tuttavia non è forse vero che «si suicida chi più vuol vivere?», chiosa Ferraro. La «vita sterminata» cui fa riferimento il titolo dell’intervento è espressione che va letta su due registri diversi: «sterminato» è «senza confini, fuori dai confini. Senza termini. Senza più parole che aprano vie di voci sapute». Ma «sterminato» indica anche distruzione («dove non ci sono termini e confini non c’è luogo e parola, se non come distrutto, annullato, ateo»). Se, come ci insegna Platone, la filosofia è un prendersi cura della morte, Cioran non la vuole medicare ed esce dalla filosofia. E poiché la morte è il male e «il male si fa mentre il bene si dà» ecco svelata la genesi della «santità del non fare», quasi un’onda portante negli scritti del romeno.

Il successivo contributo è quello di Antonio Di Gennaro, co-direttore scientifico del convegno e uomo in grado di coagulare intorno a sé una serie sempre più numerosa di studiosi dell’opera cioraniana (della quale lo scrivente si onora di far parte). Di Di Gennaro si segnala la fondamentale e lodevole attività di curatela di diversi inediti del Privatdenker transilvano e, in particolare, il costante e infaticabile lavoro di scavo e di ricerca sul suo mondo epistolare. Nel suo Tra invocazione e bestemmia: così prega Emil Cioran, Di Gennaro focalizza la sua attenzione sul rapporto altamente conflittuale di Cioran con Dio. Ancora una volta il divino viene privato dei suoi attributi classici di bontà e onnipotenza. Il «funesto demiurgo» di Cioran si trova a essere, nella migliore delle ipotesi, incompetente, arruffone o incapace, nella peggiore tarato, maledetto o, appunto, funesto. Che genere di preghiera indirizzare a un Dio di tali caratteristiche? E cos’è la preghiera stessa se non «l’espressione massima della solitudine dell’uomo» per dirla con lo studioso napoletano? La preghiera di Cioran cammina, danza pericolosamente ai margini della blasfemia, talvolta penetrandone il regno per poi «rimpatriare», come direbbe Jacques Derrida, è una preghiera oscillante tra mutismo ed espressione rabbiosa, una preghiera paradossale le cui radici affondano nel terreno dello scetticismo più estremo e del dubbio iperbolico, animata da una sorta di luce oscura, di slancio negativo, di denuncia lirica ed emotiva, di poetica e sublime messa in stato di accusa del divino, talvolta di nostalgica e struggente potenza, come in questo celebre passo, emblematicamente intitolato «L’arroganza della preghiera», tratto dal Sommario di decomposizione: «Signore, datemi la facoltà di non pregare mai, risparmiatemi l’insania di qualsiasi adorazione, allontanate da me quella tentazione d’amore che mi consegnerebbe per sempre a voi. Possa stendersi il vuoto fra il mio cuore e il cielo. Non auspico affatto che i miei deserti siano popolati dalla vostra presenza, le mie notti tiranneggiate dalla vostra luce, le mie Siberie fuse sotto il vostro sole. Più solo di voi, voglio che le mie mani siano pure, al contrario delle vostre che si lordarono per sempre impastando la terra e immischiandosi nelle cose del mondo. Alla vostra insulsa onnipotenza non chiedo altro che il rispetto della mia solitudine e dei miei tormenti. Non so che farmene delle vostre parole; e temo la follia che me le farebbe udire. Dispensatemi il miracoloso raccoglimento che precedette il primo istante, la pace che non poteste tollerare e che vi spinse ad aprire una breccia nel nulla per allestirvi questa fiera dei tempi, e per condannarmi così all’universo, all’umiliazione e alla vergogna di essere».

Il seguente intervento di Massimo Carloni, anch’egli in prima linea nell’opera di recupero di materiali ancora nascosti di Cioran, di cui sovente cura anche la traduzione dal francese, porta un titolo paradigmatico: Né con Dio, né senza Dio. Cioran, un mistico che non crede a nulla (e torna immediatamente alla mente l’aforisma «Essere o non essere, Né l’uno né l’altro»). Lo studioso marchigiano individua tre diverse prospettive da cui guardare al rapporto Cioran – religione. La prima, che Carloni chiama «Voyeurismo claustrale», è caratterizzata dall’infatuazione giovanile di Cioran per la mistica sponsale, è nota infatti la vera e propria ossessione del rumeno per la figura di Santa Teresa d’Ávila. Nella seconda («Contro San Paolo») Cioran contrappone la santità cristiana alla saggezza pagana, prendendo recisamente le difese e le parti di quest’ultima. Infine la fase terza, che Carloni denomina «Al di là di Dio», contraddistinta dal «superamento della nozione di Dio, al fine di approdare all’“oceano senza fondo della Deità”», mostrando in questa operazione una vicinanza al pensiero del mistico domenicano del XIV secolo Meister Eckhart (che nella predica Beati pauperes in spiritu, per altro, esorta a pregare Dio affinché liberi i devoti da Dio stesso, qualcosa di teoreticamente prossimo alla «preghiera negativa» citata per esteso poc’anzi).

È ora il turno del Prof. Pasquale Giustiniani, co-direttore scientifico con Di Gennaro e, in un certo qual modo, «padrone di casa». Il docente esordisce definendo Cioran «un po’ teologo rinnegato», e in effetti la tematica teologica pervade la trama di gran parte dell’opera del filosofo transilvano. Giustiniani pone immediatamente in luce l’essere «esterno a qualsiasi categorizzazione» di Cioran e ne sottolinea la «lotta disperata con sé e con Dio». Un conflitto interiore che va «al di là di Nietzsche», in quei luoghi di confine tra scetticismo radicale («lo scettico è uno che scopre di essere a questo mondo solo per vivere a questo mondo», afferma Giustiniani) e poesia. È in quest’area d’ibridazione, quasi dichimica reazione che «forse potrebbe avvenire qualche rivelazione definitiva».

Da Valladolid proviene invece Pablo Javier Pérez López, giovane studioso esperto di Fernando Pessoa, autore che presenta non pochi punti di contatto con Cioran. Il suo intervento, tuttavia, non segue questa interessante linea di ricerca ma traccia un parallelismo tra Cioran e la filosofia poetica di María Zambrano con particolare riferimento alle tematiche della religiosità e dell’esperienza mistica. La comunicazione del castiglianoviene introdotta da un documento video di notevole interesse curato dalla televisione spagnola nel quale Cioran stesso parla della filosofa iberica (il video in questione è disponibile al seguente indirizzo). Il nodo decisivo della presentazione di Pérez López consiste nell’evidenziazione del superamento da parte di entrambidi ogni filosofia di stampo accademico e sistematico in direzione di una sorta di «pensamento poético-trágico». Il genere letterario emergente da una tale operazione di distacco dell’accademismo, allontana Cioran e Zambrano dai paludamenti tecnicistici di tanta, troppa filosofia portandoli in prossimità «de la confesíon y la búsqueda de sentido». In entrambi gli autori, avverte Pérez López, si assiste al dipanarsi poetico, asistematico, persino rapsodico «de un pensamento encarnado sobre la presencia de los agrado».

Chiude la serie delle comunicazioni Paolo Vanini. Il ricercatore, già promotore di un incontro tra studiosi dell’opera di Cioran tenutosi tra il 16 e il 17 aprile 2015 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, propone anch’egli uno stimolante parallelo. Questa volta si attraversa il tempo guardando a Qohelet. Lo stesso Cioran, nota Vanini, nel Précis de décomposition parla di sé come di un «Ecclesiaste da marciapiede» fornendo così ampia autorizzazione a questa operazione di avvicinamento. Qui Vanini risulta determinante: «Se Qohelet aveva dichiarato di aver visto tutto quel che si poteva vedere “sub sole” e che “fumo è tutto, soffio che ha fame”», Cioran reclama a sua volta di aver negato «tutto quello che si può negare, a cominciare dal sole medesimo». Vanini convoca a questo punto sulla scena Lev Šestov e Benjamin Fondane a mostrare come il tema della vanità di tutto proposta da Qohelet si configuri come una specie di sostanza nascosta nelle carni dei tre, quasi un terreno di coltura da cui affiora, ben inteso con stili diversi e peculiari, la «lotta contro le evidenze» che ne caratterizza le Weltanschauung. D’altronde, in un’intervista rilasciata nel 1973 a Christian Bussy per la televisione belga e pubblicata in Italia nel 2014 sotto la curatela di Antonio Di Gennaro e con la traduzione di Massimo Carloni (fruibile al seguente link), fu proprio Emil Cioran a definire il proprio approccio al mondo e all’esistere un «vivere contro l’evidenza» (non a caso l’espressione scelta dal curatore come titolo del libro edito da La Scuola di Pitagora).

Concludo con una nota riguardante la notevole affluenza di pubblico al Convegno che ha visto anche il coinvolgimento di alcune classi quinte di un liceo partenopeo e la presenza dei media. La televisione ha realizzato diverse interviste ad alcuni dei relatori oltre che al poeta e critico letterario pugliese Nicola Vacca, autore del magnifico Lettere a Cioran uscito da qualche mese per i tipi della Galaad edizioni (con una succosa introduzione di Mattia Luigi Pozzi). Il servizio in questione è disponibile seguendo questo link.

Una così rimarchevole partecipazione è il termometro di una sorta di esplosione dell’interesse intorno alla figura e all’opera di questo straordinario maestro (epiteto per la verità aborrito da Cioran), di questo umano pharmakon sempre pronto a elargire il suo fiele come fosse una pietosa mano tesa all’umanità dolente di questo inizio di terzo millennio.



Alessandro Seravalle
(gennaio 2018, anno VIII)