Tutta l’arguzia e la saggezza degli adagi di Anton Pann

Pseudonimo di Antonie Pantaleon Petrov[eanu], nato nel 1796 (?) a Sliven (Bulgaria, ex Rumelia) e morto nel 1854 a Bucarest, Anton Pann, poeta, compositore, traduttore dallo slavone, dal greco e dal turco, fu anche stampatore in proprio (a partire dal 1843) e professore di musica religiosa presso vari monasteri (1823-1830), poi al seminario di Bucarest, frequentando nel frattempo la bohème artistica bucarestina, specialmente la cerchia dello scrittore realista e musicologo Nicolae Filimon (1819-1865).
In qualità d’insegnante e di editore araldo dell’era moderna, la sua impresa maggiore fu di romenizzare i libri di culto, il repertorio liturgico ortodosso, attingendo lo stesso dai tesori della saggezza popolare romena e balcanica-orientale, del folclore rurale e urbano, che nutrirono i suoi scritti tanto sacri quanto profani. 
Benché epicureo, sfuggendo agli scossoni brutali della società (che dall’infanzia non avevano risparmiato la sua famiglia), sostenne attivamente la rivoluzione del 1848, perfino componendo la melodia dell’inno rivoluzionario Deșteaptă-te, Române! (sui versi del poeta transilvano Andrei Mureșanu), che diventerà dopo il dicembre del 1989 l’inno nazionale di Romania.
Scritti di Anton Pann: Versuri musicești (canti sacri del popolo, 1830); Poezii deosebite sau Cântece de lume (canzoni profane, 1831); Îndreptătorul beţivilor (versi satirici, 1832); Fabule și istorioare (raccolta in versi, 1841); Culegere de proverburi sau Povestea vorbii (libro in versi e in prosa, 1847); Înțeleptul Archir cu nepotul său Anadam (la prima versione romena di questo libro popolare mediorientale, 1850); Spitalul Amorului sau Cântătorul dorului (canzonette, 1850-1852); O șezătoare la țară sau Povestea lui Moş Albu (aneddoti e storiette in versi, 1851-1852); Năzdrăvăniile lui Nastratin Hogea (frammenti riscritti in versi romeni del libro popolare turco, 1853).
Se Povestea vorbii rimane il capolavoro di colui che Mihai Eminescu riverì come un «figlioccio di Burlone, ingegnoso tal proverbio», c’è che Anton Pann non si accontentò di produrre (vedi la vera falsa modestia del titolo primo) una «raccolta di adagi» per categorie (Dei mali vizi, Della goffaggine, Dell’ubriachezza, Dell’istruzione, Del servo e del padrone, Del litigio e della discordia…), frutto di una lunga fatica ostinata di folclorista autodidatta. Cioè illustrò ciascun capitolo, mettendoci tutta la sua fantasia, virtuosità, brillante ironia e gustosa eloquenza, con una (o più) storiette edificanti (in alessandrini, per favore!), che (malgrado la loro patina d’epoca) non ci paiono affatto invecchiate, dimostrando che questo precursore della modernità vinse da maestro la sua scommessa nel far entrare la lingua del popolo dalla grande porta della poesia (dopo quella della liturgia).


Raccolta di adagi oppure Come dice il proverbio

Del servo e del padrone

Un contadino venuto a Bucarest per affari,
Che nel vico mercantile a vagar si trovò del pari,
Dai garzoni sulla soglia dei negozi vigilando,
A gara per farli correr all’esca i passanti chiamando,
Sollecitar a vicenda se stesso tosto s’udì:
– Che vuol comprar il Signore? – Che cerca’l Signor per di qui?
Di farsi tirar nel frattempo per la giacca, per le mani,
Gli sembrava, poverino, da una muta di cani.
L’uno: – Signore, gradisca! L’altro: – La prego, Signor!
Un altro: – Da me’l Signore troverà ben meglio ancor.
Alla fin in un negozio a caso costui entrò,
Poiché quel «Signor» cortese troppo di più l’obbligò.
Quando volle mercatare, quel «Signore» ripetuto
Ogni volta, senza tregua, da maneggio ben astuto,
L’obbligò fino a accecarlo davver, sicché pur di corsa,
Quel pollo capì che la bazza gli aveva munto la borsa.
Scappato il paesano da quel brutto pasticciaccio,
Inebriato nonostante dal «Signore», poveraccio,
Tornando a casa si disse: – Perbacco! che meraviglia
Saper parlar alla gente e poi chi piglia, piglia!
Eccomi qua, con un detto, un detto solo convinto,
A vuotar ben volentieri la mia bors’ or ora spinto.
Non appena giunto a casa ai miei figli insegnerò
Il bel parlar che’l destino a mie spese m’imparò,
Poiché quest’è il migliore modo d’ammansir la gente,
Per richiedere qualcosa dal mezzadro specialmente.
Tornato poi fatto ai bimbi (dicevo) la sua lezione,
Dal mezzadro propriamente mandò un suo giovannone
Ché ben voglia di molito un moggio colmo prestargli,
Ammonendo: – Rammenta pur del modo di parlargli.
Giunto lì quel giovanotto, levandosi il berretto,
Inchinandosi, comincia a recitar il suo libretto:
– Mio padre, Sua Signoria, a pregar Vostra Signoria
Di prestargli qui mi manda me stesso, Mia Signoria,
Di farina, sia di gran’, sia di granturc’, una misura,
La qual vi sarà poi resa senza fallo con usura.
Udendo tale richiesta, il mezzadro divertito
Finse di fare sul serio rispondendo al suddito:
– Un mar di guai, figliolo: tuo padre, Sua Signoria,
Me stesso, Mia Signoria, dici, e tu, Tua Signoria?
Chi ormai la bocca del sacco aprirà? Chi lo riempirà?
Chi quello coso piuttosto sodo si caricherà?
Ecco dunque il ragazzo tornar mogio senza’l moggio,
Se tutti grandi si voller, e nessun piccolo brogio.





A cura di Anca-Domnica Ilea

(febbraio 2019, anno IX)