La pietanziera amica. Antonia Guarnieri in ricordo del critico d'arte Mircea Țoca

Lo conosceva da due anni, che erano trascorsi indenni nella regolarità della frequentazione: a pranzo, la domenica, a casa del padre, dove lei col marito e lui da solo erano invitati, e dove insieme rispolveravano un po’ di romeno e di romeni trascorsi. Lei lo aveva osservato a lungo, come sempre faceva con tutti, ma non ne aveva cavato gran che e per questo, se ne era sempre andata via presto, lasciandolo nelle grinfie della sorella dal sorriso accattivante, ma dal cuore gelido. Non così lei, desiderosa di scioglierlo quel gelo, che pure lei si portava dentro, ma incapace di farlo per la difficoltà di aprirsi agli altri e di comunicare. A un certo punto, però, invitati da lui che si trovava a Pisa, in Normale, per il perfezionamento in Storia dell’Arte con la Barocchi, erano venuti a trovarlo degli amici romeni, allegri e squattrinati che, per affrontare la spesa del breve soggiorno in Italia, vendevano icone su vetro e altri piccoli oggetti artigianali del loro Paese, o, due di loro che erano pittori, acquarelli fatti sui lungarni, o ritratti che si offrivano di fare a amici e conoscenti. E lei e il marito comprarono due piccole icone su vetro, e accettarono di farsi fare il ritratto dagli amici pittori Paul Sima e Vasile Crișan. Allora la loro frequentazione cambiò modo, uscì dall’anonimato che si trinceva dietro la formalità delle regole dell’educazione e diventò più amichevole e disinvolta, nel tepore della simpatia e di un timido approccio empatico. Si scambiarono inviti a pranzo e a cena, e quelli organizzati nella piccola stanza del Mircea erano particolarmente allegri e particolarmente buoni, col salame e la «slanina» [1] di Sibiu, la «salata de vinete» [2] e altre specialità del Paese dove lei era nata, la Romania, e dove loro vivevano. Ma appena nata l’amicizia, la situazione precipitò: Mircea finì il suo lavoro in Normale e si perfezionò, e finì anche il piccolo stipendio che percepiva mensilmente. Dovette pensare a rientrare a Cluj, e non gli fu facile dopo due anni di permanenza a Pisa. Chiese una proroga e gli fu concessa, ma dei sei mesi ottenuti soltanto due gli sarebbero stati pagati, per gli altri avrebbe dovuto arrangiarsi. Ma sembrava proprio che a Pisa Mircea avesse messo radici profonde, e che i richiami dei genitori e delle sorelle morissero prima di raggiungerlo. Trascorsi i due mesi, ancora non riusciva a partire, diventava sempre più arruffato e scomposto, da lindo e ordinato che era stato fino allora, e l’inquietudine gli precisava gli oggetti dei quali non avrebbe più potuto fare a meno tornando in Romania: un nuovo efficiente orologio, una nuova valigia che non fosse di cartone, un vocabolario della nuova lingua che aveva imparato: l’italiano.
Lei, che aveva le antenne, captò, ed era di quelle che gli amici non li abbandonano mai. Parlò col marito e insieme decisero che avrebbero provveduto. Lui si intendeva di orologi, e soddisfece il desiderio dell’amico con un bellissimo cronometro; lei di oggetti personali utili e comprò una valigia che volle eterna, cioè di pelle, non dell’orribile skai. Voleva che l’amico potesse pensare a altri soggiorni pisani, togliere l’idea del definitivo dal suo sofferto ritorno a Cluj, della galera che protegge, ma taglia le ali a quelli che hanno propensione al volo, non riuscendo però ad assimilarli.
Quando Franco gli offrì il cronometro, lui si commosse, quando lei gli offrì la valigia sorrise felice e pensò a una festa: «La butteremo in Arno quella vecchia… e finirà nell’oceano… oramai sono cambiato… ho passato i confini della cortina di ferro… l’ho fatto una volta… lo farò ancora… tornerò presto».
E abbracciò gli amici. Nella commozione i corpi vibrarono, nei limiti del concesso, ma si erano scoperti. Mircea era sempre più angosciato e più sconvolto per l’incapacità di programmare il suo rientro, e gli amici spesso lo invitavano a cena e cercavano di distrarlo dai cupi pensieri, ma non era facile.
Fu a questo punto che lei, intuite le difficoltà economiche dell’amico, comprò una pietanziera e ogni mattina la riempiva e, prima di prendere il treno per Pontedera dove insegnava, prendeva la bicicletta e gliela portava. Poi, guardandola dove l’aveva posata, in terra davanti alla porta di ingresso di lui, sentiva che il cuore le batteva forte e si trovava a sperare una uguale reazione di lui quando l’avrebbe vista. Tornata a casa e riposta la bicicletta, si avviava in fretta verso la stazione perché la normale vita la riassorbiva, ma capiva che si era ravvivata un po’.
E una mattina che si era svegliato presto, lui udì i silenziosi passi, immaginò il gesto diventato abitudine, e aprì quella porta. Sorpresa, ma in fondo felice, lei gli sorrise e, mentre lui sussurrava: «Solo tu… solo tu puoi fare una cosa del genere…», i due si abbracciarono. Poi lei più in fretta per il tempo perduto scappò al dovere, e lui allo sbalordimento commosso nella sua piccola camera silenziosa. E allora, riflettendo sulle difficoltà che aveva sempre avuto con le donne che aveva saputo affrontare pochissime volte e soltanto dopo essersi ubriacato, lei gli sembrò un angelo buono, che lo avrebbe accolto e placato col mite sorriso che comprende e perdona. E un giorno, che erano insieme per un breve tempo, «Adesso o mai più», pensò, e le confidò i guai che aveva sempre avuto e che non riusciva a sciogliere normalizzandosi. E lei, convinta che qualcosa ci fosse, azzardò: «Ma con mia sorella, non va tutto bene? Mi sembra che siate molto amici…». «Sì – strascicò lui – ma non c’è mai stato niente… niente di significativo… è fredda, scontrosa… molto diversa da te… non sembrate neanche sorelle…». E sorrise, a piena bocca, come spesso fanno gli uomini piccoli per simulare l’altezza e la corporatura che non hanno.
A queste parole lei non seppe nascondere lo stupore: «Avevo pensato a una storia, fra voi, per questo ce ne andavamo presto, per lasciarvi in pace da soli. D’aver sbagliato diagnosi mi dispiace… avremmo potuto diventare amici molto prima… abbiamo perduto molto tempo». «Nina, non ne perdiamo più… – disse lui – lascia che mi avvicini a te… ho sempre avuto paura delle donne, per avvicinarle ho dovuto ubriacarmi, e poi sono sempre scappato… con te non ne avrei… permettimi di dirti che ti desidero… ti desidero tanto…». «Mircea… ma io non posso… sei un caro amico, ti voglio bene e ti proteggerò sempre… ma non posso. E poi tu non hai più bisogno di me… non hai più paura… si vede… si capisce guardandoti… sei cambiato… stai tranquillo». Un silenzio di intesa li avvolse, e l’uno e l’altro capirono che erano cresciuti. Poi lei che doveva tornare a casa: «Domani sera torno da te – disse – prenderemo la vecchia valigia di cartone, e ci metteremo dentro tutte le nostre ansietà, e quando sarà piena di ogni nostro dolore, la chiuderemo, e andremo sul ponte della Vittoria, e da lì la getteremo in Arno… ci libereremo di tutto». Così fecero, e il mare si mangiò tutti i loro trascorsi dolori, e loro riuscirono ad affrontare la vita con maggiore serenità da quel giorno. Quando poi, pochi giorni dopo, lui era agli ultimi preparativi, lei e il marito lo andarono a prendere con la macchina per accompagnarlo alla stazione e faticarono a infilare nella valigia il Dizionario che gli offrirono in dono, lui si commosse e, sollevando poi quel peso, capì che esso era l’àncora che lo legava al Bel Paese e agli amici che ora lasciava, ma che si riprometteva di rivedere non appena possibile.
E adesso che sono passati tanti anni e Mircea Țoca non c’è più, distrutto giovane da un tumore di quelli che non perdonano, lei lo ricorda con dolcezza e con gratitudine per essersi lasciato aiutare senza pretendere da lei quello che lei non gli poteva dare, perché si era educata alla legge del padre, e di questa legge, ora che era cresciuta, era anche orgogliosa e forte.





Antonia Guarnieri
(n. 11, novembre 2019, anno IX)



NOTE

1. lardo
2. piatto romeno contenente melanzane