«Applausi nel cassetto» di Ana Blandiana, finalista del Premio Strega Europeo 2021

La scrittrice romena Ana Blandiana è finalista dell’edizione 2021 del Premio Strega Europeo con il suo unico romanzo, Applausi nel cassetto, edito da Elliot nella splendida traduzione di Luisa Valmarin. Vi rinnoviamo l'invito alla lettura di questo notevote libro, di cui abbiamo segnalato l'uscita lo scorso maggio.
Un evento editoriale che è importante per due aspetti: da un lato, torna a occupare gli scaffali delle librerie italiane un gigante delle lettere romene, Ana Blandiana, «un vero e proprio classico moderno della letteratura romena contemporanea», come l’ha definita Dan O. Cepraga [1]; dall’altro, questo nuovo approdo della poetessa e scrittrice romena nel nostro spazio editoriale si ammanta di eccezionalità poiché il romanzo, e qui il plauso alla traduttrice e alla casa editrice per lo sforzo profuso è strameritato, è tradotto per la prima nella sua versione integrale. Infatti, questo solitario grande affresco narrativo di Ana Blandiana era già stato pubblicato in tedesco nel 1993, un anno dopo quindi dalla sua uscita in Romania, col titolo Die Applausmaschine (Steidl Verlag, Gottinga, trad. di E. Wichner, 308 pp.), ma in un’edizione accorciata (solo 11 capitoli dei 23 complessivi), poi non più ristampata e ora fuori commercio. Come ultimo dato, il romanzo è uscito anche in traduzione bulgara a cura di Rumjana Stančeva (Čekmedjeto s aplodismenti, DAR, Sofia, 1999), e un estratto dall’ultimo capitolo del romanzo (nella terza edizione) è disponibile in traduzione francese online a cura di Dana Shishmanian [2].

Senza addentrarci qui estesamente nel magma della scrittura e negli strati narrativi di questo romanzo di una vita – compito questo riservato a chi, ci si augura in gran numero, recensirà il romanzo –, scritto nei momenti di più dura e malefica repressione e censura a cui era sottoposta l’autrice dal regime comunista, è la stessa Ana Blandiana a rivelarci nel suo volume di memorie, Fals tratat de manipulare (Humanitas, Bucarest, 2013), la fonte ispiratrice, di cui era stata testimone oculare, del titolo così suggestivo del romanzo. Si tratta degli ossessionanti, scroscianti, martellanti applausi preregistrati e ‘sparati’ da potenti amplificatori durante i discorsi oceanici del dittatore Ceaușescu. Nel capitolo 11 del romanzo, l’autrice narra di questi applausi e della loro peculiarità, usati come strumenti per il lavaggio del cervello:

«Sempre lui mi ha fatto vedere, una notte quando era di guardia, nello studio della direttrice i cassetti pieni di applausi, l’armadio con i nastri magnetici e le cassette su cui essi erano registrati artisticamente, per sfumature, e classificati, etichettati, misurati come lunghezza e intensità di modo che la loro utilizzazione a tempo e luogo opportuno risultasse un’operazione semplice e priva di qualsivoglia rischio. “Moderati”, “In crescendo”, “Entusiastici”, “Con acclamazioni”, “Con evviva”, “Stanchi”, “Ritmati”, “Prolungati”, “Discontinui” e fini sfumature di ogni sorta erano annotate – a mo’ di titolo o addirittura di definizione – sui cassetti sistemati con cura secondo una misteriosa gerarchia. Evidentemente, erano le bande sonore che avevano costituito il persuasivo sottofondo dei nostri esercizi. Però, come specificava pieno di modestia il dottore, non erano stati realizzati nel complesso, ma erano opera di professionisti, di veri maestri riconosciuti come tali a cui si ricorreva ogni volta che c’era bisogno di una nuova sfumatura o di un ulteriore grado d’intensità. I nastri magnetici e le cassette contenuti in quell’armadio, spiegava ancora il dottor Bentan, erano soltanto copie, non della migliore qualità, solo per uso didattico, fatte secondo i campioni della radiotelevisione.» (pp. 213-214)

Ebbene, i ‘professionisti’ cui fa cenno il dottor Mircea Bentan, dietro cui si nasconde il «diabolico personaggio» che rese la vita, reale, di Ana Blandiana un inferno, erano le centinaia di soldati di leva fatti radunare nella sala da concerti della Sala Radio di Bucarest (non molto distante dall’abitazione della poetessa e di suo marito, lo scrittore, Romulus Rusan), e istruiti a battere le mani e a scandire slogan per fornire la materia prima, in forma sonora, dell’adulazione e del culto della personalità di Nicolae Ceaușescu; questo il brano da Fals tratat de manipulare:

«Quelle centinaia di soldati venivano portati lì una volta o due all’anno per rinnovare le scorte di applausi e di ovazioni preregistrati e usati come sottofondo sonoro nel corso delle trasmissioni di manifestazioni e di adunate. La Sala Radio, dotata dell’apparecchiatura più sofisticata per effettuare registrazioni, era il luogo in cui i soldati lì trasportati facevano prove di applausi, venivano istruiti e allenati in modo esperto affinché un’azione meccanica si trasformasse, sotto la bacchetta di un vero e proprio direttore, quasi in un’opera d’arte. Il risultato veniva così registrato: applausi entusiastici, applausi con ovazioni, applausi scanditi, applausi frenetici. Le registrazioni venivano classificate, riversate in cassette che potevano essere scelte facilmente e usate quando ce n’era bisogno. Per quanto fosse immaginifica, la storia era fino a questo punto rigorosamente reale. È da quel momento in poi che esistono Gli applausi nel cassetto (traduzione nostra, Fals tratat…, pp. 290-291).   

Scritto in un lungo arco di tempo (l’ultimo capitolo fu completato dopo la caduta del regime), coincidente, come accennato sopra, con il periodo di più pesante repressione e controllo della vita privata e intellettuale dell’autrice da parte della dittatura (anni ’80 del secolo scorso), il romanzo Gli applausi nel cassetto fa parte di quella letteratura definita ‘de sertar’, cioè tenuta in un cassetto, una consuetudine comune a molti degli intellettuali non irreggimentati, durante tutto il periodo della dittatura in Romania, composta da opere che nascevano quasi esclusivamente come progetti personali, apertamente critiche nei confronti del regime, di resistenza psicologica e di sfogo spirituale contro i soprusi dell’asfissiante controllo dello Stato concentrazionario, e raramente immaginate come libri da pubblicare: si faticava non poco a immaginare un futuro di sé e della propria opera in quelle condizioni.

Mauro Barindi




Per gentile concessione dell’editrice Elliot (gruppo Lit edizioni), pubblichiamo un estratto dal capitolo 4 di Applausi nel cassetto in cui assistiamo alla grottesca conversazione dagli accenti comici tra un agente della Securitate e la contadina Paraschiva, vicina di casa, in campagna, di Ana Blandiana («Anișoara») e di suo marito Romulus Rusan («Romică»).


Da «Applausi nel cassetto»


«E quante ore sono stati?».
«Boh, saranno state cinque. Sono venuti verso le undici e non erano ancora passate da molto le quattro quando si so no preparati per andarsene, che dicevano di voler prendere ancora dei lamponi per strada, hanno anche chiesto a quanto si vendono ancora. E la signora Anişoara diceva che erano anche più cari dell’anno scorso. Che loro ai contadini non ci pensano, ma davvero manco se m’ammazzassero, non darei tanti soldi per ’sti chicchi qui che crescono senza zapparli, senza seminarli… Ma i signori se ne fregano tanto in città hanno soldi, non sono come me che conto ogni soldarello». «Ma tu sai di che parlano loro?».
«E come non lo so, che quando viene qualcuno da loro si siedono alla tavola sotto il melo cotogno che sta proprio vicino alla siepe, così io, se voglio, anche da casa posso sentire tutto, perché Lae, che Dio lo perdoni, ha fatto una finestra anche sul retro, per vedere cosa succedeva pure nel cortile della matrigna, che a lui l’ha cacciato suo padre da quando era piccolo, che il vecchio s’era messo con Marita, che la conoscevano tutti, e si sono messi d’accordo per far fuori sua moglie, per poterla prendere lei in casa e a quella hanno dato da bere polvere di vetro e il figlio l’hanno cacciato che l’hanno cresciuto i forestieri. E solo quando stava per crepare, l’ha chiamato sul letto di morte e gli ha dato posto nel cortile per farsi anche lui una casa, che c’eravamo sposati e non sapevamo dove stare, che io venivo dalla montagna e Lae non ha voluto venire al paese mio, che lì sono tutti poveri e invece qui tiravano fuori dal lago pesci grossi come uomini, e il vecchio ci sapeva fare ed era svelto, da solo con le mani sue aveva fatto tutto quello che se vede qui, che quella strega di vecchia prese un sacco di soldi quando se vendette la casa, ma ora la punisce il Padreterno, che i nipoti non la lasciano neanche aprire bocca, solo che viene qui e piange nella vigna che così sono le disgrazie, non sai mai quando t’arrivano e aveva avuto quanto basta per un villaggio intero…».
«E puoi sentire parola per parola che dicono i vicini quando hanno ospiti?».
«Eh, per l’amor di Dio, mica sono sorda come Lina, che a Lina la chiami dalla porta per un’ora, ma lei, un accidente. Io, come vi dissi, sento anche da casa cosa dicono quando hanno ospiti».
«E capita che ce ne hanno spesso?».
«Mah, che ve posso dire, ci sono giorni che vengono anche tre o quattro macchine o insieme o una per volta e allora solo che sento la signora Anişoara lamentarsi alla sera che lei non ce la fa più, che piuttosto che così se ne va in città, che venne qui per scrivere, non a fare conservazione, o come si dice, che io sono vecchia e le arrangio così a orecchio, sarebbe a dire quando stanno a chiacchierare in parecchi e quasi senza dire niente. Ma capita altre volte che passa una settimana e non passa neanche una macchinetta per strada, solo quei mostri col rimorchio che portano la sabbia dal cantiere ed entrano pure qui a chiedere se qualcuno non la vuole, che la vendono per niente, cento lei, come si dice tutta la bascula, che diavolo sarà, che per loro cento non sono nulla, mica come per me, che in tutto l’inverno presi duecentotré lei che non ci fai niente, neanche per la tassa alla chiesa ti bastano, che ora il prete gira di casa in casa a raccogliere quello che è di Dio, che anche il Padreterno è rimasto al verde, non se la cava più senza il nostro aiuto».
«Ma questi, i tuoi vicini, loro come se la cavano? Hanno quello che gli serve? Sono ricchi?». «Eh, ricchi… Se erano ricchi, non stavano qui giorno e notte con il naso nei libri che a qualunque ora mi sveglio di notte – che i vecchi sono così, non hanno sonno, sto a guardare il soffitto e penso pure io ai fatti miei – da loro c’è sempre luce, so’ come le tacchine, manco so quando dormono pure loro, come tutti quanti, che ancora sono giovani, potrebbero andare pure loro qua e là, a divertirsi, a spassarsela anche loro. Ma no, il signor Romică quando ti chiama per offrirti un bicchiere, che non è tirchio e manco ha la puzza sotto il naso come altri, lui non può bere che ha da scrivere. Che sarà pure ’sto scrivere, che anche se qualcuno con la frusta lo obbligava a scrivere non lo maltrattava più di come si maltratta da solo. E quando nun sta con la piro in mano (che lui la penna che gli serve per scrivere così la chiama, piro, che lo senti sempre gridare: “Non hai visto la mia piro? Non so dove ho messo la mia piro”), quando nun sta con la piro e le carte, prende in mano la zappa e non lo levi dalle aiole.
Che Lae, che riposi in pace, una volta gli ha anche chiesto, dalla siepe, vedendo come si sforzava a potare e legare dei pomodori bisonti…».
«Dei che…?».
«Dei bisonti, pomodori di oggi, che ora li chiamano bisonti, secondo la qualità, e quelli grandi sono pomodori Aurora che almeno Lina, sorda com’è, non sa parlare più in altro modo e la senti solo “Feci una minestra di bisonti”. Ma vedi che dimenticai cosa raccontavo…». «Che dalla siepe gli ha chiesto una volta…».
«Sì, che a Lae, che riposi in pace, non gli piaceva troppo zappare e quando lo strillavo che vedi il signor Romică con tutto che è signore, come sta piegato là fra i filari, se incavolava che lui ha lo stipendio, fa il pendolare se vuole se può portare la verdura con la sporta come il pane. Una volta gli ha pure chiesto al signor Romică: “Ma poco vi devono pagare ’sti libri che scrivi se non guadagni abbastanza neanche per comperarti un chilo di pomodori e t’ammazzi di fatica qui sul campo come un poveraccio di contadino?”. E il signor Romică l’ha solo guardato e non ha saputo che dirgli o forse non gli avrà voluto di’ nulla, si sarà offeso, chi lo sa, che è una persona così, che te posso di’, come una signorina, pare che non è il pezzo d’uomo che è, non offende nessuno e si porta proprio bene con tutti quanti, ma quando non gli va qualcosa, subito lo vedi che s’attrista e se isola. Si vede che Lae era brillo come sempre e non gli sarà piaciuto al sor Romică come gli ha parlato, che lui, all’inizio quando è venuto qui, ha voluto pure insegnarci a mettere un sacco di verdure che dai nostri vecchi non le sapevamo, ma c’ha pure portato anche da mangiare bello e pronto, una specie di pappa verde, la chiamava spinaci, ma non ho voluto nemmeno assaggiarli e lui cercava di convincermi che sono buoni, che hanno tanto ferro, ma come posso mangiare il ferro, per l’amor di Dio, e non ho voluto, diceva che per i vecchi e i bambini fa proprio bene. E allora si arrabbiava un po’ il signor Romică, ma la signora Anişoara rideva e diceva di lasciarci in pace, di darglieli a lei, che a lei gli piacciono, che la signora Anişoara è più così, puoi parla’ con lei come parlano le donne che pure io gli ho chiesto se non è faticoso lavorare la terra con la vanga,
e lei rise e disse che è faticoso, ma davanti a quanto è faticoso scrivere questo è roba da uno scherzo. Ma allora perché pure tu non ti trovi un posto meno faticoso, le chiesi io, che so che conosci parecchia gente, ma lei rise di nuovo e disse che non cerca un altro lavoro che questo gli piace. Te lo pagheranno bene, gli dissi io la mia, che altrimenti pure tu non tribolavi così per niente, ma lei che no, non per i soldi tribola, ma solo e solo perché così il Padreterno l’ha fatta che non può vivere senza scrivere. Ora, io certo non ho creduto tutto quello che dice lei, ma qualcosa sempre deve esse’ vero, qualcosa che non capisco io, che troppo tutto parlano di loro che pare che sarebbero chissà chi, ma un po’ di anni fa l’ho vista anche al televisore parecchie volte, che una volta venne da me anche Baba Rita e quando spuntò fuori la signora Anişoara nella scatola come la conoscevamo e cominciò a parlare proprio come parla lei, che sembrava che eravamo pure noi lì, quella stupida di Rita mi chiese pure: “Ma che la signora Anişoara ci vede come la vediamo noi a lei?”. E io non sapevo che dije, così la prima volta che vidi la signora Anişoara gli dissi: “Ahó, signora Anişoara, noi t’abbiamo sempre visto al televisore, ma pure tu c’hai visto a noi? Fammelo sapere pure a me, che pulisco casa e me metto un vestito quando lo accendo”. Non te posso dire come la feci ridere, ma per capire, di tutto quello che mi raccontò capii solo che lei non era là nella scatola, ma solo la sua ombra, come sarà pure ’sta cosa. Sì, ma che non mi dimentico quello che dicevi, ricchi non credo che sono troppo ricchi, che non erano loro matti a faticare così se avevano tutto. E poi io ne ho visto pure altre, per esempio quando venne Mitică, quell’ubriacone che la moglie ha divorziato e gli ha preso tutta la casa per lei e le figlie e a lui gli ha lasciato solo una stalla con un letto e un tavolo, che tanto lui non vede che non è mai sveglio. Ma così sbronzo com’è, va a pescare per fare un po’ di soldi, che non gli basta la pensione, con tutto che ha una pensione buona, ottocento lei, ma a lui non gliene basterebbero manco ottomila, giusto se spiantano i prugni e tutto quello che serve a fare grappa sulla faccia della terra, allora smette pure lui di bere».
«E questo che c’entra con la signora Anişoara?». «Eh, c’entra che una volta è venuto Mitica˘ a vendergli del pesce, che era sbronzo cotto e invece di chiedergli quaranta lei
al chilo, come chiedono tutti gli zingari, ha chiesto sessanta. Che tanto gli serviva per una bottiglia di grappa e la signora Anişoara non l’ha preso più che non aveva tanti soldi, che l’ho sentita io come glieli ha chiesti al signor Romică e lui ha detto che non ce l’aveva manco lui. E ho pure visto io come prendevano due litri di latte per volta quando Mita lo vendeva a dieci lei, invece ora a quindici prendono solo un litro. Non sono chissà che ricchi, ve lo dico io, ma nemmeno ci guadagnano che potrebbero vendere pure loro un po’ di ciliegie e prugne e fare qualche soldo, ma loro solo che chiamano tutti i vicini a raccoglierle. Almeno il figlio di Ghiju se le prende anche se non lo chiamano, che non c’ha neanche un susino in cortile, ma la grappa la fa ogni anno, solo rubacchiando che gli ho pure detto di farla finita che non sta bene fregare così la gente, ma lui ride e basta, dice che perché non lo denuncio che sa che l’ho denunciato, e pure tante volte, che m’accoro quando lo vedo come ruba – ma per fare che? – che la signora Anişoara solo che alza le spalle e manco vuole sentir nominare il capo delle guardie, che dice: “Nessuno ruba perché sta troppo bene”. Certo che no, dico io, non ruba perché sta bene, ruba perché è ladro che così è stato anche il vecchio Ghiju che almeno a quello ci ha pensato tutto il villaggio, aveva messo trappole nel grano per prendere le galline e pescava le oche da dietro la siepe con i chicchi attaccati a un gancio. E questo giovane è come il vecchio ed è pure amico del boscaiolo, che il boscaiolo tiene la sua vacca nel suo cortile e lo lascia rubare anche dal bosco che non sa più dove ammonticchiare la legna e io ho raccolto una fascina di rami secchi e m’ha detto il brigadiere che se mi becca ancora mi fa una multa che non mi basta la penzione di un anno. Ma a lui, lo lascia anche cacciare, che gira di notte come i gufi, si va ad appostare, l’ho visto io una mattina all’alba che veniva con un capriolo sulle spalle che a malapena lo portava. Che se sapevo scrivere, dritto al giornale scrivevo, che al capo delle guardie non serve a nulla, che sono compari ed è pure figlioccio del Presidente, con tutti è ammanicato, ogni volta che vuoi beccarlo, sguscia via. Solo col giornale lo puoi ancora sistemare. Ma la signora Anişoara non vuole, dice che non gli piace impicciarsi di queste cose».
«Ma tu non sai scrivere? Non hai imparato a scuola?».
«Be’, le lettere dell’alfabeto le conosco poco, che ho fatto solo una classe, dall’autunno alla primavera, ma mi piacevano un sacco, sai di chi ero compagna di banco? Della signora Ileana, la farmacista, lei era la più brava della classe e dopo lei, venivo io. Alla signora Ileana, l’hanno messa in penzione per far venire una giovane, moglie di ufficiale, che è vicino alla città, viene con il treno delle nove e se ne va con quello di mezzogiorno, non gliene importa niente, se la cerchi, non la trovi. Che la signora Ileana anche a mezzanotte, se avevi bisogno, ti apriva e ti dava, nemmeno il dottore ti serviva più, che pure su’ madre è stata farmacista qui da noi e la farmacia, l’ha presa il farmacista vecchio, suo nonno, quando noi eravamo ragazzini. Era la sola casa a un piano di tutti i paesi qui intorno. Ma da quando hanno messo per forza in penzione la signora Ileana, poverella nemmeno viene più in paese, che si dispiace, sta di più in città dai figli, ma quando viene, si raggruppa tutto il paese, che le vogliono bene tutti, che non c’è famiglia che lei non ha aiutato qualcuno». «E, peccato, credevo che sai leggere, che ti avrei chiesto qualcosa…».
«Me dispiace, bello di mamma, ma so solo i numeri, che questi li ho imparati dai soldi, che quando ero più giovane andavo con i fiori in città e con quello che avevo in giardino e con i funghi, quando pioveva, che una volta c’è stata un’estate piovosa – dovrebbe essere stato cinque anni fa – così ho fatto duemila con i funghi, pure io ancora avevo forza, mi incollavo due secchi per volta e come li vendevo, indietro, e andavo con altri, che i signori s’abbuffano di funghi, ci vanno proprio matti, dicono che so’ più buoni della carne, ma io non me li metto in bocca manco se m’ammazzi. Duemila ho fatto quella volta, manco avevo mai visto tanti soldi, non ci potevo credere, metà l’ho messa da parte per fare l’elemosina quando sarà che muoio, in memoria mia, che anche il Padreterno mi ha fatto la carità che mi deve aver vista così disgraziata e deve aver detto: “Dai che mando una pioggia con i funghi, che li raccoglie questa vecchia, che ci guadagna un po’ anche lei”».
«Io potrei aiutarti a guadagnare qualcosa se avessi bisogno… se anche tu volessi aiutarmi…».
«Come non voglio, signore, ma non credo che tu hai bisogno del mio aiuto…».
«Be’, per avere ce l’avrei, ma non so se tu sei capace e se vuoi».
«Come non voglio, voglio qualunque cosa, solo dimmelo e non farmi più friggere così…».
«Saresti capace, se ti do un quaderno e una biro, di scrivere le targhe delle macchine che vengono qui dalla signora Anişoara e dal signor Romică? Potresti scriverle, per saperle anch’io?».
«Ma a che ti serve saperle?».
«Vedi, che il tuo compito non è di chiedere, ma di fare come ti dico, se vuoi avere ancora tutta la pensione che hai…».
«Per l’amor di Dio, ma non è qualcosa che gli faccio male, vedo che sei una persona istruita, non credo che saresti capace…».
«Certo che no, solo che è un gran segreto, non lo deve sapere nessuno, muta come una tomba. Posso parlare anche col brigadiere per mandarti della legna…».
«Ho visto che sei una persona di buon cuore e col timor di Dio e che con te non perdo tempo».
«E chi aiutiamo noi se non una donna sveglia come te?».
«Così, così, bello di mamma, proprio così… che sono arrivata pure io ad avere una piro come il signor Romică che tutta la vita ho scritto solo con la zappa. Ma ora, lui con la zappa, io con la carta, girò la ruota».
«Sora Paraschiva, devi sapere che io non scherzo e non devi scherzare nemmeno tu, perché con me non c’è da scherzare. Se per caso dici alla signora Anişoara o al signor Romică del nostro accordo…».
«Madre mia, ma che sono scema? Che gliene importa a loro del nostro accordo, che hanno tempo per noi? Tutto il giorno con il naso nei libri…».

Estratto da Applausi nel cassetto di Ana Blandiana, Elliot edizioni
© 2021 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione
Traduzione a cura di Luisa Valmarin
(libro pubblicato grazie al supporto finanziario dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest)

(n. 10, ottobre 2021, anno XI)




NOTE

[1] Dan Octavian Cepraga, Prefazione, p. 11, in: Ana Blandiana, La mia patria A4, nuove poesie, nota bibliografica e traduzione a c. di Mauro Barindi, Aracne editrice, Ariccia (RM), 2015.
[2] Questa informazione, come altri dati bibliografici generali, è tratta dal sito personale della scrittrice, www.anablandiana.ro