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Una pagina dolorosa della storia romena
Nel febbraio 1963, la Casa Editrice Mursia pubblicò il romanzo autobiografico di un sottotenente medico, Giulio Bedeschi, che aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale nel Corpo degli Alpini. Il libro, intitolato Centomila gavette di ghiaccio, riportava la drammatica odissea vissuta dal tenente Italo Serri (alter ego di Bedeschi) e dalla Divisione «Tridentina» sul fronte greco-albanese e successivamente su quello russo che correva lungo il fiume Don. Com’è noto, la Campagna di Russia si risolse per le truppe dell’Asse (e dunque anche per italiani e romeni) in un immane disastro: centinaia di migliaia di morti, e quasi altrettanti prigionieri, molti dei quali perirono nei campi di internamento e nei lager dell’Unione Sovietica.
Dopo la pubblicazione e il successo di Centomila gavette di ghiaccio, Bedeschi iniziò a ricevere centinaia di testimonianze di ex soldati della Seconda Guerra Mondiale; fra queste, spiccano i tre volumi, intitolati Prigionia, c’ero anch’io, in cui sono raccolti i racconti dei detenuti nei campi di prigionia disseminati in Germania, Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna, India, Australia e Stati Uniti d’America.
Una delle testimonianze più sconvolgenti e commoventi riguarda i soldati romeni caduti prigionieri dei sovietici nell’inverno 1942 e tradotti in condizioni disumane verso i lager della Siberia. Il racconto (presente nel 1° tomo di Prigionia, c’ero anch’io) è stato reso da Giuseppe Ioli (1913-1997), tenente della Divisione degli Alpini «Sforzesca» e Medaglia d’Oro al Valor Militare. Catturato il 20 agosto 1942 e internato nel campo di prigionia di Oranki, nella regione di Gorki (ora Nižnij Novgorod), Ioli subì e assistette ogni giorno alle brutali umiliazioni, alle torture, alla morte per fame e per inedia dei prigionieri dei sovietici; ma ciò di cui fu testimone nel dicembre 1942 supera ogni orrore.
In quel mese, nella zona di Stalingrado, le truppe russe avevano accerchiato l’Armata romena. Fatti prigionieri, i soldati romeni furono caricati su dei vagoni, con quasi niente da mangiare e da bere. Ed ecco le testuali parole di Giuseppe Ioli: “Una notte, improvvisamente, ci dissero che dovevamo lasciare liberi tutti i nostri blocchi perché doveva arrivare un certo contingente di soldati rumeni. Era la notte del 19 dicembre 1942. Quando noi abbiamo sgomberato i nostri posti (indumenti non ne avevamo e il fardello di ogni prigioniero si riduceva a qualcosa da tenere in mano, dal momento che ci avevano portato via tutto) siamo finiti accatastati uno sopra l’altro nei vari blocchi periferici del grande convento di Oranki. (…) Il 19 dicembre (i rumeni) arrivarono ad Oranki, ma destinati ad andare oltre gli Urali, verso la Siberia. Si vede che i russi si erano mossi a pietà perché quelli erano rumeni; si dovette, per non farla morire in viaggio, scaricare tutta quella gente, ben 3.500 persone e portarla nel campo di Oranki che era un campo organizzato ed attrezzato, ma già intasato da 800 ufficiali di varie nazionalità. Disgrazia volle che in quel 19 dicembre ci fosse il sole! Un’alta percentuale di quei disgraziati, come furono aperti i vagoni, rimase accecata per effetto del riverbero del sole sulla neve. Siccome poi per arrivare dalla stazione al campo vi erano 7 chilometri circa, quei 3.500 prigionieri, con i metodi molto caritatevoli e molto persuasivi dei russi (tipo scarica di pallottole nella schiena per chi si fermava) furono convogliati verso Oranki. Un certo numero di prigionieri, verso l’una di notte, arrivò al campo. Insieme, sembravano un branco di lupi; tentarono di assaltare la cucina e solo con botte e spintoni si riuscì a fermare quella massa imbestialita. Venne dato loro un pezzo di pane, ma presto si capì che non erano così abbrutiti per la mancanza di pane, quanto per l’impossibilità di avere una gavetta di acqua calda, di acqua bollente. Altra tortura del cervello. Cosa si poteva andare a dire o a chiedere ad un uomo in quelle condizioni? Ma la tragedia non fu solo quella.
Verso le prime ore dell’alba cominciarono ad arrivare le prime slitte russe che erano andate a raccogliere tutti quei prigionieri che, per cecità o stanchezza, non erano riusciti a raggiungere a piedi il campo. Arrivarono forse 27 o 28 slitte come cariche di tronchi. Erano tutti corpi di prigionieri ghiacciati. Quando fui chiamato anch’io per portare aiuto a quella gente, il campo era già tutto disseminato di cadaveri. Sembrava un bosco dove una sega meccanica avesse falciato disordinatamente alberi. Si trovavano corpi dappertutto.
La prima opera di soccorso fu di scaricare corpi dalle slitte e portarli: quelli che risultavano morti, nella “morga”, quelli ancora vivi, in baracche adibite ad ospedale. In quella circostanza morirono anche alcuni soccorritori, poiché tutti eravamo così deboli che non potevamo, certo, maneggiare corpi umani in grande numero. Quando io arrivai, nella “morga” (che era poi una camera, anzi una stalla che avevano adibito a camera mortuaria per raccogliere tutti quei corpi) si erano già formati tre piani di cadaveri; un piano a 60 cm. dal suolo, un altro piano più alto, poi un’altra specie di prominenza che veniva raggiunta per buttare i cadaveri indietro, perché indietro si era formato del posto.
Ricordo che, mentre con altri buttavo giù un cadavere, sentii un gemito, un pianto. Per la forza che avevamo noi, andare a recuperare quell’uomo che risultava ancora vivo era un’impresa disperata, anzi, era come una maledizione. Però la coscienza, l’educazione che avevamo prevalse. Perciò, con fatica enorme, tirammo su quel corpo – si vede che nel maneggiarlo aveva preso un po’ di vita – e lo portammo in ospedale. L’ospedale era pieno di prigionieri che stavano morendo. Perché quelli che non erano morti sulle slitte, al caldo riprendevano una certa animazione, ma erano soggiacenti a broncopolmoniti, a paralisi tali per cui, senza riprendere conoscenza, morivano poi. E così, man mano che se ne portavano dentro, man mano se ne riportavano fuori nella “morga”. La mattina del 21 dicembre, i morti erano 500!”.
Ecco, dopo le morti e le distruzioni apportate dalle guerre, arriva il loro cascame, l’ulteriore barbarie della vendetta sui prigionieri e sugli ostaggi, come constatiamo anche oggi nei conflitti in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza. La guerra, come ha ricordato più volte Papa Francesco, e ora Papa Leone XIV, è una sconfitta, una follia, una barbarie, è la disumanizzazione dell’uomo.
Io obbligherei ogni Capo di Stato della Terra a leggere un’opera del grande Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, testo che rappresenta tuttora la più profonda e implacabile denuncia degli orrori della guerra. Il grande scrittore e giornalista boemo adopera ogni tipo di genere letterario per trasportare il lettore negli anni della Prima Guerra Mondiale, quelli in cui «personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». Le critiche di Kraus non erano dirette solo ai regnanti europei, alla casta militare e alle compiacenti burocrazie statali; egli lanciò accuse terribili e motivate contro quei giornalisti e letterati che con i loro scritti si erano schierati a favore del conflitto.
Purtroppo, la penna che si fa spada per incitare al clima bellicista ha sempre funzionato bene. Non solo la parola scritta: è la parola in sé che può ingannare, avvelenare, uccidere. Vladimir Putin ha iniziato la guerra in Ucraina parlando di «operazione speciale», un’operazione talmente «speciale» che sinora è costata all’esercito russo mezzo milione di morti e feriti, a quello ucraino altrettanti, e decine di migliaia di vittime nella popolazione civile. L’altro criminale di guerra, Benjamin Netanyahu, sbloccando in minima parte gli aiuti umanitari alla popolazione palestinese, ha affermato che affamare Gaza non è conveniente per Israele «sia dal punto di vista pratico che da quello politico». Non una parola per le centinaia di migliaia di esseri umani ridotti alla fame, per le decine di migliaia di bambini uccisi e per la possibilità della futura esistenza di uno Stato dove i palestinesi possano finalmente sentirsi a casa e in pace.
Penso alle povere vittime civili ucraine, palestinesi e israeliane, penso ai soldati periti in questa e in tutte le guerre, e soprattutto a quelli che sono andati in faccia alla morte nel pieno della giovinezza, e mi sovviene la strofa finale di un sonetto (Dormiveglia) dello stesso Kraus:
Là aspetta a lungo il figlio mio non nato,
qui si presenta la prescelta sposa,
ed io già sono quello che un dì son stato.
Armando Santarelli
(n. 9, settembre 2025, anno XV)
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