Mioriţa alla prova della reinvenzione narrativa. Una proposta

Una trasposizione in prosa di una delle più note leggende popolari romene: Mioriţa. Ce la propone Armando Santarelli, presentando così il senso del suo lavoro: «Ho amato questa ballata – espressione della pietas popolare romena, oltre che rivelazione di un certo sostrato antropologico del popolo romeno – al punto da voler conoscere le interpretazioni che ne hanno dato molti autorevoli studiosi e letterati romeni, fra i quali Eminescu, Blaga, Eliade, Botta e Cioran (il più critico di tutti verso la Mioriţa). Ma non mi sono limitato a questo: mi è presa, spontaneamente, una gran voglia di traslare la ballata in prosa, insomma di farne un racconto che, rispettando la sostanza e il senso della leggenda popolare, sia fruibile a un numero di lettori più vasto di quelli che normalmente si accostano alla letteratura romena. Non ho effettuato la parafrasi della ballata, ma una sua elaborazione in senso narrativo, con l’intento di far emergere alcuni temi sottesi alla poesia. Per esempio, mi sono soffermato sulla reazione del pastore moldavo alla predizione dell’agnellina; e mi è parso inevitabile sottolineare come tutti – anche un semplice pastore – diventino un po’ “filosofi” dinanzi alla morte, entrando in una dimensione di consapevolezza, di profondità critica e di autocoscienza che solo certe situazioni-limite possono indurre. Credo che una veste formale diversa, ma rispettosa del nucleo fondante della ballata, e della sua ermeneutica più accreditata, possa costituire un motivo di interesse in più, specialmente per gli italiani che ignorano la bellezza e il valore di documenti letterari dell’importanza di Mioriţa, una delle più stupefacenti e commoventi espressioni della pietas popolare romena».


Era coricato sull’erba soffice e rigogliosa di inizio primavera. I profumi freschi e pungenti che annunciano l’irresistibile impulso del ritorno alla vita degli elementi, gli impedivano di dormire, e persino di assopirsi. Tuttavia, non scorse la sagoma che si ergeva immobile a pochi passi da lui se non quando udì un raschio ripetuto.
Il pastore si sollevò in un balzo, e fece istintivamente due passi indietro.
«Chi sei? Che vuoi?», disse col sospetto e il timore negli occhi.
L’uomo che gli stava innanzi sorrise bonariamente: «Non preoccuparti. Non sono un bandito, né un ladro, né uno venuto a tassare le tue pecore. Sono uno studioso delle piante».
Il pastore lo squadrò in tutta la persona: era un uomo di media altezza, dalla pelle abbronzata, con un’espressione fiera e gentile al tempo stesso, vestito come un cacciatore, ma con uno zaino al posto del fucile. Pareva uno straniero, ma gli aveva parlato nella sua lingua.
«Perché sei qui? Non sei né un venditore ambulante né uno zingaro, lo vedo. Non passa mai nessun forestiero per queste valli».
«Ci credo. A meno che non ami viaggiare. E io ho questa passione. Mi chiamo Antonio, e vengo dall’Italia. Un tempo, i miei antenati hanno combattuto contro i tuoi. Ma poi le nostre genti e i nostri sangui si sono fusi, e per questo la tua lingua e la mia hanno tante parole uguali».
«Non ho studiato, ma so qualcosa della storia della mia terra. Tutti sanno che i nostri primi conquistatori sono stati i romani. Come sei arrivato qui?»
«Ho seguito i vostri grandi fiumi, il Danubio, il Tibisco, il Mureş. Poi ho attraversato i Carpazi. Ho visto le vostre terre come le videro i miei antenati. Senza gli eserciti, per fortuna».
«Dove sei diretto?»
«Dove finisce la vostra terra, dove è morto un grande poeta di Roma, si chiamava Ovidio. Toccherò il Mar Nero, poi tornerò indietro».
«Perché ti sei fermato qui?»
«Ho visto il gregge, e immaginato che ci fosse un pastore. Io cerco di parlare con tutti quelli che incontro, solo così puoi capire i luoghi che visiti».
«E che cosa puoi sapere da Mihai, da un pastore?»
«Tutto quello che lo riguarda. Certi mi hanno detto che gli piaceva la vita che facevano, certi che avrebbero voluto fare un altro mestiere. Ma uno ha sputato per terra. E tu?»
«La vita che faccio mi piace. Mi piace la libertà, e qui sono libero. Mi piace la natura, e qui me la godo. Mi piace il mio gregge, e questa terra, che conosco palmo a palmo, che è sempre uguale e sempre diversa».
«Sì, è bellissimo, qui. Lo sai, un poeta della tua regione ha scritto una poesia sull’erba su cui eri sdraiato».
«Sull’erba?»
“Sì, mi ha colpito perché io le erbe le studio. L’ho letta qualche giorno fa nel palat di un nobile di qui che mi ha ospitato».
«Sull’erba… che puoi scrivere sull’erba?»
«Vuoi saperlo? Aspetta, l’ho copiata sul diario, ascolta: ‘Ora è soffice, odora del verde spuntato all’alba del mondo / poi crescerà, e accoglierà i fiori che oscilleranno con lei al soffio del vento / e le fragranti corolle faranno capolino pudiche e curiose / cercando i compagni vestiti degli stessi colori. / Dopo prenderà l’oro del sole e profumerà di incenso / e tutte le valli, come chiese, risuoneranno dei canti devoti dei falciatori / e il fieno diventerà l’ostia dei nostri armenti. / E poi tornerà a inumidirsi e poi a bagnarsi / esalerà l’aroma del legno marcito, gli afrori del sottobosco, il sentore amaro dei crochi e dei ciclamini / e pian piano inizierà a sussurrare alle creature amiche che è l’ora del silenzio, che solo il vento potrà violare. / E infine chiamerà la veste più candida che il mondo conosca / e noi non vedremo più né terra né cielo / e taceremo mentre il tempo langue e tutto riposa / e pregheremo il Signore, e le nostre lacrime scenderanno sul dorso vellutato delle nostre greggi’».
«Sono un ignorante, ma… è proprio bella. Dunque, si possono scrivere certe cose pure sull’erba! Mi piacerebbe saper leggere e scrivere, sì. Però qui non serve, e io sono felice così».
«Hai detto bene. Ci sono studiosi infelici e persone che vivono felici pur non avendo studiato».
«Però è bello sapere tante cose del mondo, e parlare con persone come te. Qui io incontro solo Iancu e Gheorghe».
«Chi sono?»
«Pastori, come me. Iancu è transilvano, Gheorghe è della Vrancea. Io parlo solo con loro, e coi miei animali».
«Con i tuoi animali?»
«Sì. E parlano pure loro. Hanno i loro versi, no? E poi, non si parla solo con la voce. Come si muovono i miei animali, io capisco subito ciò che vogliono. Certe volte sono come noi, come gli uomini. Senti, conosco una storia… Hai sentito parlare di Kukuzelis? No? Allora ascolta: questa storia ce l’ha raccontata un monaco del Monte Athos che è venuto nel mio villaggio per chiedere elemosine per il suo monastero. Kukuzelis era un… come si dice… un cantore della corte di Costantinopoli. Era bravo, il più bravo di tutti, e l’imperatore voleva fargli sposare sua figlia. Ma quello era un uomo di Dio, e voleva farsi monaco. Così fuggì da Costantinopoli e si ritirò in un monastero del Monte Athos. Lo misero a fare il guardiano di pecore, come me. Ogni tanto gli prendeva la voglia di cantare, ma cantava di nascosto, perché aveva paura di essere riconosciuto. Solo le pecore conoscevano la sua voce; e quando iniziava a cantare si mettevano in cerchio intorno a lui, per ascoltarlo! È una bella storia, vero? Senti, tutti gli animali ascoltano il loro padrone, se li sa trattare. E ti insegnano, pure… Gli uomini qualche volta parlano a vanvera, la natura no. Se il gregge cerca l’ombra prima dell’ora solita, sta arrivando il caldo del sud. Se il cavallo o i cani si agitano e si guardano in giro, c’è un lupo lì vicino. E parlano anche le cose. Più chiaro di tutti parla il vento, anche se ha tante voci. Certe volte parla piano, certe volte fischia o urla. A volte scende dalla montagna, altre volte sale dalla gola, e porta sempre un messaggio, che solo noi possiamo capire».
«Sei un pastore saggio, Mihai».
Il ragazzo arrossì. La diffidenza e la paura erano scomparse dal suo volto. Provava una strana emozione dinanzi a quello straniero che diceva di avere il suo stesso sangue e parlava la sua lingua.
«Perché non ti fermi? Permettimi di offrirti qualcosa».
«Grazie Mihai, ma ho tanta strada da fare. Non offenderti, ti prego».
«Senti, questo formaggio l’ho fatto io. Accetta almeno questo. Perché non ripassi qui, al ritorno? Mi piacerebbe rivederti».
«Ti ringrazio, piacerebbe anche a me. Sì, se tornerò indietro per questa strada mi fermerò. E avremo più tempo per stare insieme».
Parlottarono ancora un po’, poi suggellarono la promessa di rivedersi con una vigorosa stretta di mano. Prima che il viaggiatore si allontanasse, il pastore prese il flauto di legno di faggio e iniziò a suonare una doina; lo straniero fermò i suoi passi, si voltò e ascoltò la musica immobile come una statua. Dopo un lungo sorriso, levò il braccio e lo agitò, poi scomparve fra le onde verde-oro dei campi di grano.
Il pastore emise un fischio, Bălai e Negruț iniziarono ad abbaiare, e il gregge si mosse piano verso l’ovile.
Forse, pensò il pastore, in onore del viandante aveva meglio di altre volte, perché dal basso vide arrivare Iancu e Gheorghe.
Ma Iancu lo saluta con un’aria stranamente infastidita: «Chi era quello, e che voleva?»
«È un viaggiatore. Vuole attraversare a piedi tutta la nostra terra, va verso est, verso il mare».
«Sei sempre fortunato», dice Iancu, «con te si è fermato a parlare, a noi ci ha visto, e ha appena accennato un saluto».
«Aveva fretta. Gli ho detto se voleva fermarsi, ma ha accettato solo un pezzo di formaggio».
Gheorghe sogghigna: «Forse non sei stato molto ospitale, i viandanti accettano sempre le offerte di chi incontrano. E poi, come vi siete capiti?»
«È italiano, e conosce un po’ di romeno. Siamo un po’ romani anche noi, no? Ci siamo capiti bene».
«No», precisa Gheorghe, «io non mi sento romano, io sono un daco, uno della Tracia com’era prima che arrivassero i romani. Ma dimmi, non ti ha fatto i complimenti per il tuo gregge?»
«No, mi detto che la sua terra è piena di greggi. Ma viene dalla città, di animali non sa niente. Ma perché, poi, avrebbe dovuto farmi i complimenti per le mie pecore?»
«Perché sono più grasse e hanno il manto più bello delle nostre. Credi che non vediamo la differenza? Stai sempre sui pascoli migliori, e le tue femmine fanno più agnelli delle nostre. Ed è così da troppo tempo…»
Mihai li guarda stupito, e con il dolore nel cuore. Perché hanno parlato così? È vero – pensa – che quest’anno ho avuto più agnelli, che il mio gregge è più numeroso, che la mia lana è apprezzata più della loro. Ma io sto attento a dove pascolo, ho cura di ognuna delle mie pecore, non ho viziato i miei cani, ho costruito l’ovile col legno migliore, e mentre loro si godono il sole, io lavoro per tenerlo pulito.
«Iancu, Gheorghe, dai, venite, un bicchiere di țuică ci rimetterà dell’umore giusto».   
«Sì, beviamo», dice Gheorghe conciliante. «Non preoccuparti Mihai, dimentica quello che abbiamo detto».
«Già dimenticato. Non c’è ragione di discutere o di litigare. Valli, montagne, sorgenti, l’erba che cresce ovunque. Non manca niente né a noi né alle nostre greggi».
Si fa tardi a mangiare, bere, ridere e cantare, e sono tutti un po’ alticci quando Gheorghe e Vasile lasciano il rifugio. Mihai li accompagna alla porta, li saluta con un abbraccio e li segue a lungo con lo sguardo, perché la luna, velata di bianco come una nuvola sfuggita al giorno, stende sulla terra un lucore discreto, soffice, pacificante. La natura tace, tutto riposa, il vento è rapito da una notte carezzevole come l’abito di seta più prezioso; solo una voce rompe il silenzio divino, e se non fosse quella di una delle sue pecorelle, Mihai la maledirebbe come una presenza diabolica.
Vorrebbe ignorarla, si sente stanco, ha sonno, ma la pecora bela, pare proprio che chiami il suo nome ‘Mihai, Mihai’, e pare che pianga, pare un lamento di morte, come quando gli agnelli non trovano la madre, come quando li attaccano i lupi.
Ora tace, si acqueta; che cosa può aver violato la sua pace? Non c’è nessuno in giro, la porta dell’ovile è serrata, i cani fanno buona guardia, c’è solo da ringraziare il Signore per una vita che Mihai non cambierebbe con nessun’altra, neppure con quella di chi viaggia e gode delle bellezze del mondo.
«Mihai, Mihai, ascolta…»
«Oh, di nuovo Miorița».
Stavolta il pastore si preoccupa. Da tre giorni l’agnellina continua a mandare quel lamento triste, che diventa sempre più simile a una voce umana.
Non posso sbagliarmi – pensa Mihai – mi chiama. Non so se è un miracolo, o la magia di uno stregoi, ma ascolterò la mia agnellina.
Miorița è in piedi, ferma sulle gambe come le pecore di bambagia del presepe.
«Che cosa vuoi dirmi, agnellina mia? Parla pure, il tuo padrone ti ascolta».
«Mihai, da giorni Iancu e Gheorghe tramano contro di te. La tua bontà ti rende cieco alle loro manovre e sordo alle loro parole. Ma io lo so: vogliono ucciderti, e vogliono farlo domani. Non hanno occhi che per le tue pecore dalla lana morbida e bianca, i tuoi cani arditi e fedeli, l’ovile e gli stazzi solidi e puliti. E sono occhi avidi e invidiosi».
«Miorița, tu sei l’agnellina più bella che io abbia mai avuto. Ho saputo che eri una creatura speciale da quando sei nata. Tu venivi a strusciare il tuo manto di ovatta sulle mie gambe, poi mettevi il tuo muso contro quello di Bălai e di Negruț, e giocavi con loro, senza paura. Tu guardavi negli occhi Montone, l’ariete più grande, e lui rimaneva immobile a fissarti, come se fosse innamorato di te. Ma sono io ad amarti di più, tu sei la mia gioia, il mio orgoglio, la mia creatura più bella. E ora mi dici parole di morte…»  
«Mihai, ho visto nei loro sguardi il desiderio di avere i tuoi beni, e conosco le loro intenzioni. Vogliono ucciderti».
Il cuore del pastore si fermò per qualche istante. Andò a sedere vicino a Miorița, l’accarezzò a lungo, mentre raccoglieva i suoi pensieri.
Dunque, quella era la sua ultima notte? L’indomani sarebbe stato solo un corpo inerte ricoperto dalla polvere con cui un giorno si sarebbe confuso? Sì, se non fosse fuggito, o se non fosse stato lui a uccidere. Fuggire… no, non avrebbe potuto vivere lontano dalla sua terra, dalle persone che amava, dal suo gregge, dai suoi cani. Uccidere… provò orrore per il solo fatto di averlo pensato. Non aveva ricevuto la vita perché la togliesse ad altri, non avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni nel rimorso di aver ucciso degli uomini. Ma perché doveva essere lui a morire? Quale peccato aveva commesso contro gli Dei? D’istinto, alzò lo sguardo al cielo, e una dolente felicità lo pervase. Vide il suo destino – inesorabile e breve come l’intervallo fra il lampo e il tuono – tralucere di una misteriosa illuminazione. Sentì che la vita, così leggera sino ad allora, acquistava un altro peso, che gli gravava sul cuore. Solo sul cuore, perché era come se non avesse più corpo, e qualcosa di immateriale, che non aveva mai conosciuto, guidasse i suoi pensieri. Sparirono i ricordi del passato, le incombenze del presente, i sogni per il futuro. Non avrebbe sposato nessuna donna, non avrebbe mai congiunto le sue labbra a quelle di Ioana, rosse come le bacche di rosa canina, non avrebbe giaciuto con lei in un caldo letto nuziale. Una gioia ultraterrena gli rivelò che la sua sposa non era di questo mondo; era una sposa celeste, e gli avrebbe dato la pace che nessuna donna mortale, neppure la più pura e virtuosa, avrebbe potuto donargli.
Come se avesse indovinato quei pensieri, Miorița si scuote, manda un belato, pare chiedere scusa per aver fatto al suo padrone quelle rivelazioni; ma lei gli è fedele, non può nascondergli ciò che sa. Lui la stringe a sé; è l’ultima creatura a cui sentirà battere il cuore e pulsare il sangue nei vasi, e l’ultima cui potrà parlare. «Miorița», le sussurra, «io morirò, ma non essere triste; sarò altrove, in un luogo ancor più bello di questo, felice con la mia sposa. Ma insieme al ricordo, una parte di me rimarrà qui. E allora chiedi ai pastori che mi seppelliscano nella radura accanto all’ovile, perché possa ancora ascoltare il belato delle mie pecorelle, e i guaiti di Bălai e Negruț. E poi chiedi loro che sulla mia tomba mettano il flauto di faggio, quello di osso e quello di sambuco, affinché il vento vi soffi le note più melodiose, e le pecore versino lacrime di sangue. Ma non dire a nessuno, a nessuno, che giaccio sotto una coltre di terra. Dì a tutti che ho preso in sposa una regina, e che quando abbiamo unito le nostre mani una stella è caduta dal Cielo. Dì loro che il sole e la luna tenevano le nostre corone, che sacerdoti furono queste montagne, cantori gli uccelli, ed aceri e abeti i testimoni. E se vedrai lacrimare una madre che cerca il suo bel pastorello, dille che ha incontrato la figlia di un re, e che vive felice in un paese lontano. Ma non dirle che quando l’ho sposata è caduta una stella; il cielo dona sempre una stella quando un giovane sposa l’eternità».
«Lei non lo saprà. Ma io conosco la verità, mio pastore fedele. Sono gli agnelli a morire per mano degli uomini, invece io ti sopravvivrò, e ne soffro, padrone mio».
«Succede anche agli uomini di essere uccisi da altri uomini. Non piangere per me, io non soffrirò che per un istante. I pastori sanno usare il coltello, sanno come affondarlo nelle carni. Un breve dolore, e sarò già nelle braccia della mia sposa. Vieni, sta sorgendo l’alba del mio ultimo giorno terreno. Lo vedi? Il cielo è terso, immenso, eppure così vicino, pare curvarsi verso di noi, come se volesse abbracciarmi. Non piangere, in ognuno di noi c’è un pezzetto di male e un pezzetto del bene eterno; e solo se accetterò il mio destino, solo se eviterò il male la mia sposa potrà amarmi. Sarò l’ultima particella del Cosmo e il Cosmo intero, e fin quando tu e la mia povera madre non mi raggiungerete veglierò su di voi. E veglierò sull’anima di chi mi ha ucciso, perché si pentano del male commesso. Così la mia felicità sarà completa; e tutti, un giorno, la condivideremo per sempre».

Da quasi un anno, ormai, il villaggio si interroga invano sulla scomparsa di Mihai. Era uno dei ragazzi più amati, ma nessuno lo ha pianto, perché sperano tutti di vederlo tornare. C’è chi dice che sia fuggito perché era stufo di fare la vita del pastore; altri dicono che sia fuggito con una contadina del villaggio vicino; la madre è sempre triste, ma continua a dire che è felice per lui, perché è andato in sposa a una principessa.
«Era proprio una giornata come questa, quando incontrai quel pastorello», dice un viandante al pastore transilvano e a quello vranceano.
«Parlammo un po’, mi piacque molto. Mi aveva offerto ospitalità, ma avevo fretta. Ora che avrei tempo, non lo trovo, mi dicono che è sparito.»
«Sì», annuì il pastore vranceano, «proprio da un giorno all’altro. E senza dire una parola, senza lasciare una traccia. Mah… era un tipo solitario, ma era bravo, e la vita del pastore gli piaceva».
«Sì, è strano. Mi ricordo il suo bel gregge, e l’ordine e la pace di questo posto. Una persona si giudica per quello che fa. Se è fuggito, e fa un altro mestiere, sono sicuro che farà bene anche quello».
Il pastore transilvano sorrise storcendo la bocca: «Si dice persino che una regina sia passata di qui, e lo abbia preso come sposo. La madre ne è convinta, meglio per lei».
«Perché escluderlo? Tutto è possibile. Sono rimasto poco con lui, ma ricordo che era un ragazzo bellissimo. Sapeva parlare, e sapeva ascoltare. E mi era parso così buono d’animo… Aveva un perenne sorriso sulla faccia, qualcosa di raro e di misterioso. E un’altra cosa ricordo: il suo gregge era un po’ distante da lui quando ci vedemmo, ma un’agnellina gli stava vicino, come fosse un cane».
Il viandante vide un lampo negli occhi dei due. Uno indicò una spianata erbosa, dove giaceva seduta una pecora: «È quella», disse. «È Miorița, lui la chiamava così. Adesso è una pecora adulta, ma è rimasta com’era da agnella, sta quasi sempre per conto suo. Vedi? A lei piace stare da sola su quello spiazzo. Chissà perché…»
«Forse», osservò il viandante, «perché lì ci stava spesso col suo padrone. Lui mi disse che anche gli animali parlano e sanno amare. Aveva ragione, certe volte penso che siano meglio di noi uomini».
Scese un profondo silenzio. Lo straniero guardò i pastori; uno aveva il volto infiammato, l’altro fissava il vuoto con le palpebre umide. In quel momento Miorița belò, e al viandante parve che la sua voce non fosse cresciuta con l’età, gli parve che fosse la stessa che aveva udito quando era un’agnellina, e che chiamasse quel nome: ‘Mihai, Mihai, Mihai’.
Miorița – pensò lo straniero – Mihai tornerà. Forse non sarà più il tuo pastore, ma tornerà.
Diede un’ultima occhiata a quella valle meravigliosa che profumava di fieno, di trifoglio e di erba medica, e fissò ad uno ad uno gli elementi vitali che la rendevano ancora più prospera e bella: le pecore di Mihai, riunite in un gregge candido e placido come una nuvola estiva; l’ovile, ampio e saldo come una quercia secolare; il piccolo, grazioso rifugio del pastore; i suoi cani, così forti e fieri da poter lottare coi lupi; e quella pecora che pareva dipinta, e il cui belato non sembrava venire da un animale, ma dall’ugola di un fanciullo.
Non c’era più Mihai; ma per quale incantesimo era come se ci fosse ancora? Di quel pastorello, l’intera valle sembrava aver conservato l’anima. Nulla era mutato: era come se tutte le creature e le cose respirassero e avessero occhi, e volessero vivere per rendere omaggio a chi di esse non si era sentito padrone, ma custode, sapendo che un giorno avrebbe dovuto riconsegnarle nell’armonia con cui le aveva ricevute.
Sì – pensò con sollievo il viandante – perché escludere che una donna di nobile rango passata di lì avesse potuto innamorarsi di un giovane bello e dal cuore puro?
Il sole era tramontato; i pastori salutarono lo straniero con un cenno, e sparirono nella gola. Per un attimo, tutto precipitò nel silenzio; poi la brezza della sera insinuò il suo mormorio fra le chiome degli abeti; sussurrava, poi il tono saliva, poi tornava ad abbassarsi e poi a farsi vibrante e solenne, come in un canto sacro. Improvvisamente, il vento cessò; il viandante abbracciò con lo sguardo tutta la valle e sentì il bisogno di inginocchiarsi, perché era come se nell’aria si diffondesse una preghiera, la lode che dalla Madre terra una giovane voce maschile innalzava verso il purissimo cielo.

Armando Santarelli
(ottobre 2016)