Anteprima. Filip Florian, «I giorni del re»

Nato a Bucarest nel 1968, Filip Florian nutre sin da giovane una grande passione per la scrittura e la letteratura che è costretto a celare dentro di sé per venire incontro ai rigidi schemi della società romena degli anni della dittatura. Si iscrive così alla Facoltà di Geologia, ma quella passione lo spinge ad abbandonarla poco tempo dopo, con l’idea, mai concretizzatasi, di continuare i suoi studi presso la Facoltà di Lettere. Fra il 1990 e il 1999 il giovane giornalista Florian lavora in qualità di redattore della rivista «Cuvîntul» e come corrispondente di Radio Europa Liberă e Deutsche Welle.


I due romanzi che lanciano l'autore


Esordisce come scrittore di racconti, che vengono pubblicati in varie riviste del paese, ma il vero e proprio debutto al grande pubblico lo fa nel 2005 con il romanzo Degete mici (Ed. Polirom, pubblicato in Italia nel 2010 da Fazi Editore con il titolo Dita mignole), un giallo che gira intorno alla scoperta di una fossa comune in un remoto paesino montano della Romania e che allude, con sarcasmo, alla grande vergogna degli archivi segreti sui crimini della dittatura di Ceaușescu. Il romanzo riscuote sin da subito un enorme successo e viene tradotto in vari paesi: Ungheria (Ed. Magveto), Polonia (Ed. Czarne), Germania (Ed. Suhrkamp), USA (Ed. Houghton Mifflin Harcourt), Slovenia (Ed. Didakta), Slovacchia (Ed. Kalligram), Bulgaria (Celia), Spagna (Acantilado), Italia (Fazi), Egitto (Animar).
Nel 2006 esce I ragazzi di viale Băiuţ (Băiuţeii), un romanzo scritto a quattro mani con il fratello Matei, in cui i due scrittori narrano com’era la vita dei bambini nel quartiere in cui trascorsero la loro infanzia e adolescenza in piena dittatura. Tuttavia, la Romania di Ceauşescu è solo uno sfondo, si sente la sua aria pesante, ma non riesce a soffocare la nostalgia per la propria infanzia, per quel periodo di innocenza, di giochi, di amici di quartiere, di partite di calcio... Il ricordo ovattato del periodo mitico dell’infanzia riesce così, per certi versi, a far dimenticare le ristrettezze di quegli anni. Băiuţeii è stato tradotto in Inghilterra (University of Plymouth Press), Polonia (Czarne), Bulgaria (Panorama+).
Con questi due romanzi Florian si afferma come scrittore raffinato e originale, amante di un umorismo che potremmo definire «fantastico-assurdo». Sempre caratterizzato dall’inconfondibile stile manierato e da un pizzico di ironia, infatti, nei suoi romanzi Florian ci catapulta in realtà ogni volta differenti, con personaggi e situazioni verosimili ma contaminate ora da una romantica visione onirica, ora da un pizzico di fantasia o di magia.
Ed è così che dagli anni della dittatura, Filip Florian ci trasporta con Zilele regelui (I giorni de re, Ed. Polirom, 2008), nella Romania del XIX secolo, crocevia di popoli e di culture. I giorni del re è stato pubblicato in Bulgaria (Panorma+), Usa (Houghton Mifflin Harcourt), Ungheria (Magveto). Florian ha partecipato anche a progetti collettivi, collaborando come autore di racconti nei seguenti volumi antologici: Cartea cu bunici (Il libro dei nonni, Ed. Humanitas, 2007), Poveşti erotice româneşti (Racconti erotici romeni, Ed. Trei, 2007) , Alandrasta – o poveste, trei fraţi şi douăzeci şi opt de fotografii (Alandrasta: una storia, tre fratelli e ventototto foto, Ed. Liternet, 2007, coautori Matei Florian e il fotografo  Mircea Struţeanu). L’ultimo suo romanzo Toate Bufnițele (Tutti i gufi, Polirom, 2012) è stato presentato alla Fiera del Libro di Bucarest, Gaudeamus 2012.


«I giorni del re»

I giorni del re racconta la storia del dentista berlinese Joseph Strauss, quella del suo gatto, Siegfried, e quella del futuro re dei Principati Uniti di Romania. Queste storie sono parallele e interdipendenti, ed è dal loro intersecarsi che scaturisce l’azione del romanzo.
La narrazione inizia con un breve capitolo sull’addio di Strauss a Berlino. In queste poche pagine ci viene anche presentato un ritratto a tutto tondo del protagonista: Strauss è un dentista scapolo, amante della birra, e assiduo cliente del bordello «Undici Tette». Ed è in questo bordello, sprofondato fra le cosce della prostituta Rosa, che il dentista sceglie di accomiatarsi per sempre dalla sua vecchia e tranquilla vita.
Il perché di questo addio lo scopriamo nel Prologo in ritardo (così intitolato poiché collocato dopo il primo capitolo), dove è principalmente narrata la storia del capitano dei dragoni Karl Eitel Friedrich Zephyrinus Ludwig de Hohenzollern-Sigmaringen, principe prussiano che viene eletto, suo malgrado, futuro erede al trono dei Principati Uniti di Romania. A causa di un malaugurato ascesso dentale il capitano dei dragoni ricorre alle cure del nostro dentista e in questa prosaica circostanza propone a Strauss di seguirlo fino a un’ignota località chiamata ‘Bukarest’. Strauss non fa molto caso al suo cliente, pensandolo probabilmente in preda al delirio per il dolore, ma qualche giorno dopo è costretto a ricredersi. Scorge una notizia sull’organizzazione di un plebiscito che propone la candidatura del principe Karl de Hohenzollern al trono dei Principati, poi un messo del reggimento dei dragoni gli recapita la lettera di invito ufficiale del futuro sovrano a seguirlo nella nuova patria.
E così, nel giugno del 1866, Joseph Strauss parte alla volta di quella città mai sentita prima, accompagnato dal suo fedele gatto Siegfried. In quell’anno, a causa dell’imminente conflitto nel centro Europa, non sono poche le disavventure che il dentista si ritrova a vivere, ma che gli permetteranno anche di imbattersi in gente di vari paesi e culture. Grazie alla sua indole mansueta e con l’appoggio morale del suo fedele gatto Siegfried (un confidente speciale e una sorta di angelo custode) riesce a superare incolume il duro e lungo viaggio per mezza Europa, giungendo finalmente a Bucarest, il 25 giugno, appena sette settimane dopo l’arrivo del suo sovrano.
Al suo arrivo a Bucarest (arrivo che poco ha in comune con l’entrata gloriosa e pomposa del principe nel suo nuovo regno), Strauss s’imbatte in una realtà cruda e miserabile, come il mahala  maleodorante che è costretto ad attraversare. Dopo il frastorno iniziale, tuttavia, Joseph scopre una città diversamente affascinante, dai ritmi, dagli intrighi e dalle usanze orientali. In poco tempo riesce comunque ad adattarsi a questo nuovo mondo. Stringe amicizia con il barbiere Otto Huer e, grazie al denaro donatogli dal principe, apre uno studio dentistico nel novello quartiere di Lipscani (nome che deriva dal toponimo Liepzig, vista la densità di popolazione tedesca del quartiere commerciale). La sua vita sembra ritornare ai ritmi berlinesi, alternandosi fra il lavoro nello studio, le prostitute, la birra e lo schnapps, i libri, le discussioni interminabili con i suoi nuovi amici, conoscenti e, ovviamente, con Siegfried.
Ma questa ritrovata tranquillità è solo una breve parentesi. Il suo rapporto privilegiato con il principe lo portano ad assumersi responsabilità e prendere decisioni che si ripercuoteranno ineluttabilmente nella sua vita. È così che Herr Strauss, ad esempio, comprendendo le perplessità del giovane sovrano in un paese a lui così estraneo, arriva ad alleviare le ansietà del principe con una potente droga, estratta da un fungo velenoso. Successivamente, dopo aver appreso che il principe evita inspiegabilmente le relazioni di alcova, decide di venirgli in aiuto e lo porta da Linca, una puttana cieca, provvedendo così a che l’identità del principe non venga scoperta.
Poco tempo dopo il destino di Joseph subisce una nuova scossa: s’innamora della serba Elena Ducovici, bambinaia presso un barone (che è altresì uno dei pretendenti al trono di Serbia, rifugiatosi a nord del Danubio), e la prende in sposa. Quasi successivamente anche il principe si sposa con Elisabeth Pauline de Wied, e rompe bruscamente il legame con il dentista berlinese, nel tentativo, forse, di cancellare ogni macchia del suo passato.
Da questo punto in poi, la vita del principe e quella di Joseph Strauss scorrono parallele. Entrambi hanno un figlio, un bambino, Joseph, e una bambina, il principe, che morirà all’età di quattro anni. Quasi contemporaneamente alla nascita di quei due pargoli anche Linca mette al mondo un altro maschietto.
Qualche tempo più tardi, Herr Strauss scopre con stupore che il figlio della puttana cieca, Petre, somiglia in modo impressionante all’uomo che siede sul trono. Il segreto è opprimente, ossessivo, e il dentista sceglie di prendersi cura di questo bambino all’insaputa della propria moglie e degli amici. Tenta più volte di arrivare al principe per metterlo al corrente della faccenda, ma non ci riesce. Quando alla fine si rivedono, sul fronte, alla vigilia di una battaglia della grande guerra contro i turchi, Herr Strauss preferisce tacere. Da questo punto in poi gli eventi precipitano: in una Bucarest che, nel bene e nel male, ha adottato qualcosa dell’aspetto di città occidentale e che è appena uscita da sotto il caftano del sultano, il matrimonio di Joseph ed Elena si sfascia come dopo una tempesta devastatrice. La serba abbandona il dentista, convinta che Petre sia suo figlio illegittimo e che Linca sia sua amante. Herr Strauss cade preda dell’alcol e ha un tentativo fallito di suicidio.
In mezzo a questo vortice di eventi, spicca la voce saggia di un cronista peculiare, alter ego della voce narrante: il gatto Siegfried. Con i suoi salmi, in lingua gattesca, incisi sulle spalliere delle sedie, Siegrfried narra la sua versione dei fatti. Lo spazio in cui si sviluppa la storia di Siegfried è uno spazio magico, che vive all’interno dello spazio reale a cui appartengono il principe e il dentista, ma domina a sua volta il tutto. Siegfried può così essere giudice super partes, osservatore privilegiato, ma il suo spazio non interferisce con quello reale. Solo alla fine, quando tutto sembra capitolare nella vita del dentista – il 10 maggio 1881, in occasione della cerimonia in cui Carol I verrà incoronato re di Romania – il gatto Siegfried decide di intervenire nella vita del suo padrone, rompendo la barriera dello spazio magico e facendo incursione in quello reale. Con un gesto estremo e tragico, infatti, Siegfried riesce a ripristinare un certo ordine, garantendo così anche un amaro finale felice.

I tre piani del romanzo

Nonostante il titolo, I giorni del re si può indubbiamente definire il romanzo dei giorni di Joseph Strauss e del suo gatto Siegfried e Florian lo ribadisce sin dall’inizio antiponendo il capitolo dell’Addio di Strauss a Berlino al Prologo incentrato quasi interamente sulla vita del principe erede al trono. Questo non significa che la storia del futuro re Carol I sia meno importante, si tratta piuttosto di una certa disposizione dei piani narrativi all’interno del romanzo. I giorni del re si svolge, infatti, su tre piani. Il primo, che fa da canovaccio e da sfondo, è la storia del capitano dei dragoni, futuro sovrano dei Principati di Romania. Il secondo è quello della vita del dentista berlinese Strauss, e il terzo è quello di Siegfried, il savio e sornione gatto del dentista. Tutti e tre i piani si riflettono rispettivamente l’uno nell’altro, ora sembrano fondersi fra di loro, ora si scindono in tre realtà narrative indipendenti. E in questo gioco di specchi, le vicende del dentista e del suo gatto sono quelle che assumono maggiore rilievo.
I tre piani si traducono quindi in tre spazi: due reali e uno magico. Questa distribuzione degli spazi giustifica così l’esistenza di Siegfried e delle sue cronache all’interno del romanzo. Il gatto, animale che lo scrittore Filip Florian adora, è l’abitante dello spazio magico ed è colui che crea una connessione della realtà con l’elemento fantastico, pur mantenendosi la sua storia come un nucleo a sé stante all’interno degli altri due piani narrativi quasi fino allo fine. L’importanza di questo spazio magico ai fini dell’azione del romanzo si rivelerà appieno proprio quando Siegfried irromperà volutamente e attivamente nella vita degli umani, squarciando il confine dello spazio magico e invadendo quello reale.
Al di là di tutto ciò, ne I giorni del re, grazie alle avventure di questo dentista che, quasi per caso, si ritrova a essere il dentista del futuro re di Romania, Florian ripercorre la storia di un angolo dell’Impero Austro-Ungarico, dei Balcani, e della nascita di un paese, rivelando com’era la Romania dell’epoca e soprattutto com’era la sua capitale. Guardando attraverso l’occhio «straniante» del dentista Strauss, lo scrittore riporta in vita la Bucarest degli inizi del XIX secolo, e in particolare il quartiere commerciale di Lipscani, con i suoi edifici, i suoi sobborghi, i suoi commerci, i suoi abitanti (un misto di popoli, di fatto). Fedele al suo stile elegante, Florian si riconferma così uno scrittore attento ai dettagli e avido ricercatore della storia. La storia con la S maiuscula, però, qui fa solo da sfondo e la finzione narrativa domina il palcoscenico, regalando personaggi e scene memorabili.  .



Testi scelti da «I giorni del re»

Addio


La serata del commiato, a Berlino, si concluse come doveva concludersi: il corpo mingherlino del dentista disteso di traverso sul letto, la sua testa sprofondata in quell’unica tetta gigantesca e umida, la cui compagna era stata mozzata con la spada, molto tempo addietro, da un ussaro ubriaco. Dapprima si svuotò sei boccali di birra, offrì da bere a chiunque entrasse nella birreria,  brindò e si abbracciò con conoscenti e sconosciuti, che baraonda!, vinse la sua ultima partita di whist accompagnato dall’ovazione dei suoi sostenitori, soprattutto perché i compari di gioco lo avevano aiutato a vincere, barando, non alla luce del sole, bensì alla luce delle candele poste sui tavoli e sulle mensole. Abbandonò la birreria Der Große Bär all’imbrunire, facendo credere che sarebbe tornato subito dalla latrina e che avrebbe ordinato un altro giro per tutti; lasciò, in ogni caso, il suo cappotto sulla spalliera della sedia, un soprabito scamosciato e con le maniche un tantino corte, che non gli entrava più nel bagaglio per Bucarest, ma che gli facilitò la sua uscita di scena. Nel bordello, più tardi, fu accolto con urla e lacrime, come fanno le puttane quando prendono a cuore una vicenda. Se è pur vero che il locale non chiuse le porte in suo onore, tuttavia le ragazze seppero accomiatarsi, a turno, sottraendo minuti ad altri clienti e regalando a lui fette di tempo dolci e sazianti come fette di torta. Fu una notte in omaggio, un regalo, Fräulein Helga stappò persino dello champagne e, con la sua autorità di maîtresse, lo baciò sulla fronte stringendolo per la patta dei pantaloni, pregandolo di dimenticarsi dei loro denti, e di ricordare piuttosto le loro tette. Nella camera di Rosa, mentre questa si ungeva la pelle con un’infusione di gelsomino (con la mano destra) e si lisciava ogni tanto il sedere (con la sinistra), le ragazze entrarono una alla volta e lasciarono che lui si congedasse da loro senza premura. Mordicchiò il lobo grassoccio, con l’orecchino di vetro color sangue, simile a un rubino, di un orecchio celato da ciocche castane; cinse con le labbra delle ginocchia bombate, affatto spigolose; percorse con la punta della sua lingua una schiena sottile e lattiginosa, sopra cui aveva prima cosparso della cannella; morse delle soffici natiche e alitò, soavemente, su un ventre roseo, fino a quando non incontrò l’ombelico e volle ingoiarlo. Le sue dita, alla stregua di dieci minuscoli serpenti, sfiorarono le gambe e le cosce, si annidarono fra le pieghe dei fianchi e sotto le ascelle, si attorcigliarono in mezzo ai riccioli colorati di viola (sotto l’osso pubico, dove i piccoli serpenti scivolarono su tane umidicce, le annusarono, ma non s’intrufolarono nei loro meandri), sferzarono i capezzoli con le code, vi si acciambellarono intorno e si congedarono da loro. Prima di poggiare il suo naso sull’undicesimo capezzolo, il più grande e superbo che avesse mai visto, Joseph Strauss urinò in abbondanza nel vaso da notte grande quanto un paiolo che si trovava dietro la tenda. Poi, con tutto se stesso, sprofondò fra le cosce di Rosa, cercando di liberarsi lì del suo passato.

Prologo in ritardo


Erano trascorsi nove anni da quando le menti illuminate, in redingote, riunitesi su ordine delle potenze garanti, analizzarono la situazione sotto tutti gli aspetti, ci meditarono su, accantonarono temporaneamente gli intrighi e le inimicizie, soppesarono ogni parola affinché fosse chiaro il loro volere e collocarono in cima al loro programma politico due brevi frasi: «desideriamo l’Unità, ma altrettanto ardentemente desideriamo anche un principe straniero» (in Moldavia) e «si rende necessario che il principe regnante venga scelto all’interno di una delle famiglie reali d’Europa; e questa necessità è imperiosa, assoluta» (in Valacchia). Di quegli antichi manoscritti, ingialliti dentro cassetti, stipetti e bauli, se ne rammentarono pian pianino moltissime persone, non all’improvviso, non per mero esercizio di memoria, ma per timore che naufragasse il vascello in cui tutti loro si trovavano. E i capi dell’operazione di salvataggio – appena alzatisi dal letto, già ritempratisi e con le menti lucide – cambiarono repentinamente la loro strategia, poiché l’imbarcazione aveva sofferto nuovi danni durante l’ultima tormenta, provocata dal diniego del conte di Fiandra. Dopo essersi scottati le labbra e la tranquillità con una zuppa di cavoletti di Bruxelles, quei quattro – il generale Nicolae Golescu, ministro degli interni e degli affari esterni sotto Bibescu Vodă, membro, nel 1848, del comitato rivoluzionario, del governo provvisorio e della prima Luogotenenza principesca; Lascăr Catargiu, con il suo fiuto da lupo, affinato fino ad allora in qualità di prefetto in varie provincie e nel seno della sua famiglia; il colonnello Nicolae Haralamb, latifondista, figlio di un grande siniscalco di Craiova; e Ion Ghica, non tanto lo scrittore, quanto il bizzarro quarantottino filo turco, a lungo bei di Samos – erano pronti a soffiare persino sullo yogurt. Quindi, non si precipitarono a proferirne il nome, ma tesero lunghi fili, invisibili, in direzione delle corti occidentali. Avevano deciso di abbandonare la politica delle intuizioni, delle speranze e del fatto compiuto, con una politica fatta di sondaggi e di discrezione. Vagando lungo strade impervie, attraverso un continente pieno di foreste, paludi, montagne innevate, briganti e drappelli di soldati, molti fili si arenarono tuttavia nel nulla, mentre altri, pochi, imboccarono una strada battuta, alla volta di Parigi. Qui era iniziata, d’altronde, la conferenza delle potenze garanti, dove la Sublime Porta, insospettita dal vento alquanto libertino che soffiava nei Principati, voleva fare uso dei provvedimenti del firmano del novembre del 1861, con il quale si riconosceva l’unità solo nel periodo di reggenza di Alexandru Ioan Cuza, limitato a sette anni. Furono giorni in cui, a dire il vero, gli animi dei signori di Bucarest tremarono come foglie, e i plenipotenziari di Francia, Inghilterra, Turchia, Prussia, Russia, Austria e Sardegna usarono toni e inflessioni della voce poco consueti, che somigliavano al tintinnio delle armi. Sempre alla fine di quel febbraio, quando nella Senna galleggiavano ghiaccio e molta immondizia, due dei fili dipanati dal governo romeno, gli emissari Ion C. Brătianu e Ion Bălăceanu, dimostrarono la loro abilità nell’insinuarsi nei salotti, nel nuotare come pesci nelle acque dell’alta società, nell’infiltrarsi negli uffici, nelle biblioteche e nei boudoir difficilmente accessibili. Riuscirono ad ammaliare e ad adulare, lisciarono orgogli, sfiorarono corde sensibili, intuirono desideri e si preoccuparono di venire a essi incontro. E il loro sforzo di attirarsi le simpatie non fu vano. Specie fra le file delle donne, dove vengono sempre covate le decisioni che contano. E fu così che l’influenza di Hortense Cornu, sorella di latte dell’imperatore, mise in moto un’abile catena delle debolezze, che trascinò nel gioco per prima la baronessa de Franque. Commossa dalla sorte di quel paesetto lontano, appena nato e già sul punto di sfaldarsi, con il trono vacante e con i pagani che scalpitavano alla frontiera meridionale, la baronessa ne parlò con passione, come se si trattasse di un triste romanzo, in cui un fanciullo orfano e malnutrito, forse tisico, viene gettato in strada da alcuni infami uscieri. Ad ogni modo, un siffatto racconto non poteva non destare la solidarietà, la compassione e la dedizione della sua amica intima, Mathilda Drouyn de Lhuys, nientedimeno che la moglie del ministro degli affari esteri, al contempo presidente della conferenza che stava per andare in ebollizione. Fu poi una formalità, attraverso meccanismi della vita coniugale a lungo rodati, far sì che il messaggio venisse trasmesso oltre. Alla fine, informato e preparato da una creatura cara, insieme alla quale, quando era un pargolo, aveva succhiato dallo stesso seno, e persuaso dal capo della sua diplomazia, Napoleone III si oppose categoricamente a un intervento ottomano a nord del Danubio e prestò orecchio con benevolenza alle proposte per la corona romena. Fra i nomi avanzati, quattro, optò per il solo che supponeva una parentela sia con la casa imperiale francese sia con la casa reale prussiana. Karl Eitel Friedrich Zephyrinus Ludwig de Hohenzollern-Sigmaringen si apprestava a compiere 27 anni e, in qualità di luogotenente del reggimento dei dragoni di Berlino, attendeva da quasi un decennio la promozione al grado di capitano. A causa del gelo patito in un poligono di tiro, gli si era gonfiata la mascella sinistra, in corrispondenza di un molare cariato. Pativa dolori atroci, cosicché, abbastanza stordito e ancor prima di consigliarsi con suo padre e con il ministerpräsident von Bismarck, si ritrovò a chiedere al dentista che gli aveva inciso la gengiva con il bisturi se lo avrebbe eventualmente seguito fino a ‘Bukarest’, per sempre. Joseph Strauss non aveva mai sentito nominare quella città e immaginò che dovesse trovarsi a migliaia di chilometri di distanza, da qualche parte nelle colonie. Comunque, la questione gli sembrò ridicola e insignificante, soprattutto perché nella sala d’aspetto si dimenavano sulle sedie due uomini e una donna, e il giovane ufficiale, a causa di tutto quel pus che gli si era accumulato nella mascella, vedeva probabilmente cose assurde. Più tardi, dopo pranzo, il dottore venne tuttavia a sapere per caso che il paziente con l’ascesso quanto una noce e con la sua domanda vaneggiante era il secondogenito del principe Carl Anton, governatore militare della Renania e consigliere del re Wilhelm, fino a non molto tempo primo ministro. Rimase di stucco. Poi, per settimane intere, lasciò che la sua esistenza di scapolo scorresse tranquilla, un’esistenza divisa fra il gabinetto dentistico in affitto, la camera che occupava insieme al gatto Siegfried in una luminosa pensione, la birreria Der Große Bär e il bordello Undici tette. Fu soltanto il 14 aprile, quando i narcisi erano in fiore, e il suo gatto si era ferito il muso e una zampa nelle lotte feline di quartiere, che lesse in una gazzetta, con stupore, una piccola notizia sull’organizzazione di un plebiscito: «Oggi, la luogotenenza e il ministero hanno proposto, per mezzo di manifesti affissi lungo le strade, la candidatura al trono di Romania del principe Karl di Hohenzollern. L’evento sembra colmare di letizia il popolo tutto». Quella sera, quando il gioviale Karl di Prussia si sarebbe rivolto nell’atrio dell’opera berlinese all’altro Karl (divenuto, infine, capitano) con il saluto «Oh, turco», il dentista non ebbe voglia né dei boccali, delle chiacchierate e delle partite di whist della birreria, né di quelle undici tette, due a testa per cinque vivaci donnine e una sola, enorme, sul petto di Rosa. Mentre si riempiva a più riprese il bicchierino di schnapps, fumava la pipa e scrutava dalla finestra spalancata le stelle e le grondaie delle case dei vicini, Herr Strauss rimpianse di non aver preso sul serio il giovane ufficiale. Si addormentò sognando belle donne e molta gente in impaziente attesa alla sua porta per placare il dolore di mole. Dopo alcuni giorni, un corriere del reggimento dei dragoni gli recapitò una busta giallognola, con l’intestazione e il sigillo della Casa di Hohenzollern-Sigmaringen. Pioveva a dirotto, ma la busta venne fuori asciutta da sotto la mantella militare.

A cura di Maria Luisa Lombardo
(n. 1, gennaio 2013, anno III)