Florina Ilis con «Vietile paralele». Mihai Eminescu, una finzione «documentaria»

Nel nostro Focus dedicato al tema della scrittura negli autori romeni figura Florina Ilis (n. 1968), che è senza dubbio la scrittrice più dotata della sua generazione e una delle grandi penne della letteratura romena contemporanea.
Florina Ilis si è laureata in Lettere presso l’Università «Babeş-Bolyai» di Cluj, ateneo dove ha conseguito in seguito il dottorato. Debutta nel 2000 con il volume Haiku şi caligrame («Haiku e calligrammi»), un’inedita combinazione tra poesia e calligrafia in collaborazione con la prof. Rodica Frenţiu, a fianco della quale fa parte attualmente del corpo docente della Sezione di giapponese dell’ateneo transilvano. Nel 2001 pubblica il romanzo Coborârea de pe cruce («La deposizione»), mentre nel 2002 è la volta di Chemarea lui Matei («La vocazione di Matteo»). Segue nel 2005 Cruciada copiilor («La crociata dei bambini», 2008), che conclude questa ideale trilogia. Quest’ultimo romanzo, uno dei libri romeni che più riconoscimenti letterari in assoluto ha ottenuto in questi anni, è stato insignito del Primo premio per la Prosa dell’Unione degli Scrittori di Romania, del Premio «Libro dell’anno 2005», della rivista «România Literară» e dalla Fondazione «Anonimul», del Premio della rivista «Cuvântul» per la prosa e del Premio «Radio România Cultural». È stato tradotto in ebraico, francese (Miglior libro straniero 2010 per la rivista «Courrier International»), spagnolo, italiano (pubblicato dalla Isbn Edizioni nel 2010), serbo, ungherese e inglese. Nel 2006 pubblica un nuovo romanzo, il romanzo «giapponese», Cinci nori coloraţi pe cerul de răsărit («Cinque nuvole colorate nel cielo d’oriente», proposto in traduzione italiana da Atmosphere Libri, 2011) e un testo per il teatro, Lecţia de aritmetică («Lezione di aritmetica», ed. Echinox), mentre del 2005 è la pubblicazione dello studio Fenomenul science fiction în cultura postmodernă. Ficţiunea cyberpunk («Il fenomeno science fiction nella cultura post-moderna. La fiction cyberpunk»), edito presso le Edizioni Argonaut.Nel 2007 è stata insignita del Premio per la prosa «Ion Creangă» dell’Accademia di Romania.
I suoi ultimi due romanzi, entrambi già tradotti in francese dalle Éditions des Syrtes, sono stati Vieţile paralele («Le vite parallele», Cartea Românească, 2012), uno stupefacente viaggio sospeso tra finzione e realtà storica attorno agli ultimi anni di vita del poeta romeno Mihai Eminescu, e Cartea numerilor («Il libro dei numeri», Polirom 2018), ampio affresco storico e saga famigliare ambientati in un villaggio dell’Europa centrale, in cui la narratrice abbraccia un secolo della turbolenta storia della Transilvania, sballottata tra l’Impero austro-ungarico, l’Ungheria e poi la Romania, tragicamente scossa dall’instaurazione del regime comunista.



Da Vite parallele («Vieţile paralele»)

Cap. 2, Secondo alcune tarde testimonianze


il 28 giugno fu una giornata particolarmente ricca di eventi*. Cosicché, prima di essere condotto alla casa di cura, Eminescu, armato di rivoltella, sarebbe entrato nel caffè Capșa terrorizzando con il suo comportamento violento sia gli avventori, sia la proprietaria del locale. Costei, irrigidita dietro il bancone, avrebbe ascoltato docilmente le invettive politiche del poeta (per farla breve: era paralizzata dallo spavento). Non un capello si scompose del suo elaborato chignon. Mentre perorava sulla nazione, su cospirazioni e su altre disgrazie nazionali, Eminescu avrebbe agitato in aria una rivoltella [la medesima mostrata a Creangă a Iași, alcuni giorni prima], minacciando che avrebbe ucciso il re.
La mano armata del poeta che fendeva l’aria ebbe, com’era prevedibile, un effetto ipnotico sui pochi avventori mattutini del caffè, ammutolendoli. Nessuno fra i presenti osò affrontare la minacciosa furia di Eminescu. Ventura, imbastendo velocemente una strategia, fu l’unico a schierarsi con le convinzioni anti-dinastiche del poeta (lo stava provocando?). Gli assicurò che condivideva le sue opinioni a proposito dei liberali e della monarchia (in fondo anch’egli era un convinto conservatore), solo che, al momento, si sentiva in obbligo di fargli osservare (al poeta) che il re non si trovava a Palazzo, di là della strada, bensì, con ogni probabilità, a Cotroceni. A quest’osservazione di buon senso, il poeta acconsentì a prendere una carrozza per recarsi alla residenza reale di Cotroceni. Ma il re non si trovava neppure a Cotroceni, come lo informò l’ufficiale di guardia il quale, messo in guardia dagli eloquenti gesti di Ventura, fece quel poté per affrontare la situazione senza far insospettire l’attentatore. Il quale attentatore, in effetti, non sospettò di nulla. Eminescu si rassegnò.
Prostrato dalla stanchezza e dalla calura, dopo che la carrozza (sulla quale salì assieme a Ventura) si rimise in moto, il redattore de «Il Tempo» cercò vanamente di rilassarsi un poco, appoggiando la testa accaldata sullo schienale del rigido sedile. Perché mai voleva sparare al re? Non lo sapeva più. In definitiva, aveva fatto anche alcune cose buone e pregevoli per il Paese (che cosa?) Per esempio, in segno d’ammirazione e in onore dei soldati romeni che avevano sacrificato le proprie vite nella guerra contro i Turchi, si fece confezionare (in occasione della grande incoronazione del 10 maggio del 1881) una corona con l’acciaio ricavato da uno dei cannoni sottratti in quel di Plevna. Non è cosa pregevole? Certo! E la Regina portò una corona simile (d’oro), ma un po’ più piccola. Ma, a parte le cose belle, ha fatto anche alcune cose pregevoli, no?! Assolutamente sì. Il poeta non si ricordava più che cosa. Non aveva forse dedicato qualche suo articolo su questo argomento? In caso contrario, lo avrebbe fatto senz’altro. Domani stesso.
Faceva un caldo infernale, degno dell’Ade, non c’è che dire! Nell’afa esterna soffocante, i sentimenti anti-dinastici di Eminescu scemarono pian piano, per spegnersi da soli, come un falò che brucia fino all’ultima fiamma. Non sa più che farsene dell’ingombrante pistola. Doveva nasconderla da qualche parte perché non la notassero i passanti e si spaventassero vedendo un tizio che agitava a quel modo (inutilmente) una rivoltella. Quando attraversarono Corso Mogoșoaia, la gettò di slancio con la mano destra nelle acque del Dâmboviţa [così si spiega probabilmente come mai nell’inventario stilato dal commissario di polizia nei bagni Mitrașevski non sia stata menzionata alcuna arma]. Lo specchio d’acqua si agitò per alcuni istanti, poi, inghiottendo l’inatteso boccone, riacquistò lentamente il suo placido aspetto, vagamente increspato. Quando raggiunse il fondo, il grilletto scattò, facendo deflagrare istantaneamente la pallottola. Almeno così credette il poeta che udì in modo distinto lo scoppio (subacqueo). Il rumore prodotto dalla rivoltella risuonò così forte al suo udito che, involontariamente, si riparò, chinando il capo. Ma Ventura non sentì nulla e spiegò al poeta che era molto più preoccupato dalle signore che passavano lungo il viale che dai colpi di arma da fuoco (tentava di sviare la sua attenzione dalla politica alle donne, no?). Ma che gliene importava al poeta della politica e delle donne? Certe debosciate (tanto la politica come le donne). Si vendevano (a chiunque) per denaro. Egli prestava attenzione solo a ciò che stava accadendo, in modo confuso e insolito, nel suo cervello infervorato (raggiunto dalla pallottola mortale). Cosicché, dopo che si erano spenti gli ultimi echi dello sparo, come a un segnale stregato, masse intere di minuscoli insetti si mossero in un barbaro esodo, senza una direzione, pullulando in modo doloroso sotto la pelle del cranio. Le vene delle tempie si gonfiarono, minacciando di lacerare il sottile rivestimento cutaneo. Cominciò a tremare come in preda a brividi maligni. Vedendolo in quello stato di sovreccitazione nervosa, il suo compagno di viaggio gli propose di condurlo a casa di Slavici. Ma Eminescu si rifiutò. Passando proprio in quel momento davanti agli stabilimenti Mitrașevschi, sulla banchina del Dâmboviţa, il poeta decise di fermarsi ai bagni pubblici (ai quali era abbonato). Era convinto che un bagno caldo l’avrebbe aiutato a rimettersi in sesto. A Ventura parve una buona idea e, in tono melenso, si congedò dal poeta (sarebbe corso ad avvertire gli altri).
L’inserviente dei bagni, conoscendo molto bene il signore de «Il Tempo», gli riservò la camera numero sette. Non c’era neppure bisogno che lei lo accompagnasse poiché l’abituale cliente degli stabilimenti conosceva già la strada. Il poeta si ritirò nella stanza da bagno e aprì l’acqua, pregustando con gioia gli effetti del bagno turco. Si svestì in fretta ed entrò nella vasca ricolma d’acqua calda avvolta nel vapore, lasciandosi sommergere fino al collo. L’acqua che traboccava senza sosta, fluendo tutt’intorno al bagno lambendo il secchio di legno, destava nella sua mente solo un’eco infinita, confusa. Non pensava più alla politica. Più di ogni altra cosa lo preoccupava (assillava) lo scioglimento dell’enigmatica equazione universale, la cui soluzione egli intravedeva come una vaga promessa nella luminosità del vapore che mulinava nell’aria caldissima e umida. Per il calore e la tensione, il mondo stesso pareva essersi diluito in un immenso calderone, senza più contorni e dimensioni. Sprofondava lentamente nel sogno, un sogno che aveva avuto (desiderato) tante volte (la pace eterna).
Poi, nel tentativo di svuotare la mente da qualsiasi dubbio, si smarrì contemplando la danza di vapore che si formava elevandosi placida e quieta sopra l’acqua. Continuando ad ammirarla (la danza ipnotica), si sentì così alleggerito tanto da abbandonare, sgravato ormai dall’involucro fisico, la vasca e si sollevò (come una nuvola di vapore) verso i cancelli del giardino delle delizie, rappresentato in maniera stilizzata dal mosaico sul soffitto della stanza. Ma, al pari di un uccello disorientato, che, spiccando il volo da un ramo, non sa quale direzione prendere, il suo io imponderabile ebbe un’esitazione di fronte al cancello appena socchiuso del giardino. Alte mura merlettate circondavano il giardino incantato, ricolmo di fiori, di uccelli e di animali favolosi. Una brezza leggera gli alitò fresca e ristoratrice sul viso, lusingandolo a entrare. Ammantata in veli di fine seta, una donna gli fece segno, chiamandolo.  Leda! L’avrebbe seguita volentieri se non glielo avesse impedito una coltre impenetrabile che celava l’unico ingresso al giardino. Sapeva, però, che se fosse riuscito a passare oltre quella coltre di tenebra, da qualche parte, di là di essa, lo attendeva la luce. La pace eterna! Poi il buio lentamente si fece meno fitto e il poeta intravide, come in mezzo alla nebbia, un esile raggio di luce lattiginosa. Era Leda! Scintillante come una candela accesa nella notte, gli rivolgeva benevolenti cenni. Si armò di coraggio e sospinse leggermente il cancello del giardino. Mosse alcuni passi poiché la scorse vicino, davanti a sé, mentre era intenta a giocherellare con una mela luminosa (che assomigliava a un uovo di struzzo). Avanzò verso di lei, senza volerlo, scivolando lentamente (un piccolo cigno arruffato), come se un sistema di rotelle mobili si fosse messo in marcia giusto sotto i suoi piedi, trasportandolo sopra la terra (l’acqua). Alzò il capo (poi le ali) e, prendendo lo slancio, partì all’inseguimento della donna-cigno. Un’oscurità viscosa (simile a un impasto freddo, non lievitato) lo risucchiò da ogni angolo, assorbendolo.
D’un tratto, una voce sottile e giovane si mise a fare calcoli, sciorinando meccanicamente, come a scuola, la tabella delle moltiplicazioni. Tre per sette ventisette. Quattro per sette trentuno. Sbagliato! Ganz ungenügend!, esclamò il poeta, interrompendo il suo folle inseguimento. Si concentrò sulle moltiplicazioni e, dimenticandosi di Leda, tentò di capire da quale direzione provenisse la voce dello scolaro in difficoltà con la matematica. Lo individuò subito. Lo scolaro, un ragazzo dalla pelle olivastra, piccolo, tarchiato, con i capelli neri pettinati all’indietro, dalla fronte ampia, gli occhi non grandi ma vivi, era seduto davanti a una lavagna tutta riempita di calcoli. Apostrofato dal maestro, lo scolaro sbiancò in volto quasi avesse appena visto un fantasma. Eminescu si ritrovò a spiegare allo scolaro ripetente che la matematica significa precisione! Il cosmo è matematica. E anche la musica! Poiché aveva terrore di qualsiasi disordine nell’elaborazione e nella struttura del mondo (dell’universo), iniziò egli stesso a moltiplicare ad alta voce, sforzandosi di coprire con la propria voce (quasi gridando) quella dell’altro (insolente) che aveva ricominciato, meccanicamente, a moltiplicare per sette. Gli parve in tal modo di essere penetrato (per mezzo di quella sequela di numeri) in una sorta di magica intimità con l’anima del mondo, manifestata, in base alla scienza degli antichi (Pitagora), in armonie di ordine numerico e musicale. Non appena i numeri divennero sempre più grandi e il calcolo matematico impossibile da eseguire per una qualsiasi mente umana, si stancò, sbagliando i calcoli. Si fermò, sentendosi improvvisamente vecchissimo e malato. Anche lo scolaro si fermò, aspettando impaziente che il professore lo rispedisse al suo banco. In quel momento, Eminescu riconobbe l’uniforme degli allievi della National Hauptschule di Czernowitz. Sorrise sollevato. Insieme con lui, alloggiati presso lo stesso padrone di casa, erano seduti altri due ragazzi (i fratelli Ștefanovici) che insistevano con lui perché comprasse da loro un’antica Bibbia. Poiché, per via dell’elevato prezzo, non aveva accettato l’affare, i due, sapendo che era un fifone superstizioso, erano ricorsi a uno stratagemma. Una notte, dopo che Eminescu si era addormentato, uno dei ragazzi si coprì con una coperta facendo finta di essere lo spirito del maestro che si era impiccato proprio in quella stanza, mentre l’altro, tirando da una cordicella, faceva sbatacchiare la finestra in modo sinistro. Con una voce che pareva provenire dal fondo di una pentola, il fantasma che si aggirava per la stanza gli chiedeva di comprare la Bibbia: Eminowicz, Eminowicz. Warum kaufst du nicht Biblische Geschichte! L’altro ragazzo aveva afferrato il candelabro, tirando la coperta sotto la quale, terrorizzato, si era nascosto l’allievo Eminescu. Che terribile spavento prese! Da qualche parte, immerso nell’oscurità, il perseverante scolaro riprese le sue moltiplicazioni, sbagliandole. Tadelfrei bis auf seine Geschwätsigkeit. Eminowicz, Eminowicz! Warum?
In seguito, tutto (il giardino delle delizie, il buio, il meccanismo delle rotelle, Leda e lo scolaro) svanì nel nulla. Si addormentò, crollando in un sonno profondo. Solo nel sonno siamo attivi – per tale motivo il sogno possedeva tanta drammaticità. Altrimenti siamo passivi.
Nel sogno s’incontrò con Ioan Vestimie, un giovane del quale non si ricordava più quando fece conoscenza. Ma non aveva importanza, fin tanto che aveva un compagno al proprio fianco. Mi presento: Gaius Iulius Caesar Octavian August (profondo inchino). Tu sei un asino! Due bambole. Sulla fronte di una di esse c’era scritto: Bertrand è un asino! E sulla fronte dell’altra: Gaius non ha tutte le rotelle al loro posto. Gaius Iulius Caesar Octavian August. Ioan Vestimie tentava di dirgli qualcosa circa l’acqua traboccante che sgorgava dal rubinetto, ma il poeta gli fece un rapido cenno con la mano, invitandolo a non preoccuparsi e a entrare. Ioan Vestimie si adeguò, producendosi in un ossequioso inchino. Avendo un’innata ritrosia per tutto ciò che esula dalle buone maniere, il nuovo arrivato avanzò con qualche reticenza nella stanza di Eminescu, mischiandosi con imbarazzo fra gli altri esimi invitati del poeta. Vi era una miriade di personaggi illustri: Dan, Dionigi, il monaco Girolamo, Eutanasio, il marchese Bilbao, il faraone Tlà, Ioan, Toma Nour, l’anziano precettore, come pure alcune donne una più bella e seducente dell’altra, che il timido funzionario osservò con circospezione e casto trasporto. Lo sguardo di Ioan Vestimie si arrestò su una figura angelica, che pareva tolta dai quadri del Rinascimento italiano, un sogno che prese le dolci sembianze di un volto femminile. Sul pallore ambrato del suo viso piroettavano ogni tanto ombre violacee conferendole un’aria trasognata, mentre i capelli biondi parevano (a Ioan Vestimie) diradarsi come un sottile strato di brina trafitto dai raggi dorati del sole. Sotto l’ampia fronte, tondeggiante, sulla quale le lunghe ciglia gettavano, ogni qual volta che lei muoveva il capo con infantile orgoglio, dolci e scure ombre, su quella poetica fronte, Ioan Vestimie s’immaginava che si fossero concentrati tutti gli ideali dell’arte. Osservandone l’esile nasino e il mento tornito e dolce come nelle donne di Iacopo Palma, e la dolce bocca con il labbro inferiore appena più tumido, Ioan Vestimie riconobbe stregato nell’animo la nobile e bella fanciulla. Ma, meraviglia, sebbene l’amasse da più di sedici anni, non se ne ricordava più il nome, l’aveva dimenticato. Mentre si stava dirigendo verso la biblioteca, per prendere un dizionario di nomi propri (quasi quasi gli stava riaffiorando alla mente il nome), udì qualcuno bussare con impeto alla porta, un impeto che andava intensificandosi mano a mano che il chiasso della festa nella stanza del poeta si approssimava al suo apice. A quanto pareva il poeta aspettava altri ospiti, ma, per sua sorpresa (di Ioan Vestimie), lungi dall’invitarli a entrare, questi (Eminescu) bloccava con tutte le sue forze la porta, esortando anche a lui ad aiutarlo, affinché coloro che stavano dall’altra parte non potessero penetrare nella stanza. Gli ospiti del poeta continuavano a banchettare da soli (conversando, ridendo, mentre le donne vuotavano bicchieri riempiti di bevande color rosso rubino, piluccando dalle fastose pietanze posate sui tavoli ecc.) e nessuno fra loro rispose alla sua richiesta d’aiuto. Egli stesso, Ioan Vestimie, quasi fosse stato improvvisamente colto da un’insolita fiacchezza in tutte le articolazioni (dapprima gli s’intorpidì il braccio destro, poi la gamba sinistra), non fu in grado di muovere un solo passo, lasciando il poeta da solo a reggere la porta. Quelli che erano fuori gli stavano gridando che gli avevano portato quello che aveva chiesto (dieci uova crude). Dieci uova crude? Che diamine se ne faceva lui di dieci uova crude? si domandò Ioan Vestimie.
La resistenza di Eminescu fu debole. In men che non si dica, riuscirono ad aprire la porta irrompendo nella sala da bagno. Erano quattro o cinque persone che Ioan Vestimie non aveva mai visto prima. La presenza di costoro fra gli illustri ospiti del poeta gli parve estremamente bizzarra e, soprattutto, scandalosa. Fu in quel momento che vide il poeta montare su tutte le furie (a buona ragione) per la mancanza di garbo di coloro che avevano fatto irruzione in quel modo da lui (nel bagno), sorprendendolo in una situazione più che intima (nudo come un verme). Sul robusto corpo del poeta, luccicavano qua e là gocce d’acqua che davano l’impressione che questi fosse appena emerso da un bagno di stelle o di lustrini. Era buffo il modo in cui si muoveva e agitava le mani (Eminescu), e quella sua agitazione imprimeva alle membra del corpo l’effetto di una bambola disarticolata. Ioan Vestimie trovò anche divertente la maniera con cui il membro del poeta sbatteva contro le villose cosce, simile a un’escrescenza carnosa, comica e inutile. Ogni tanto, allorquando il poeta per un istante smetteva di agitarsi e soppesava con lo sguardo, come una fiera braccata, le possibilità di sfuggire all’accerchiamento, il suo membro pareva ridestarsi repentinamente e, per un qualche sentimento di virile dignità, ridicolo e inopportuno in quel frangente, inturgidirsi e irrigidirsi come nell’imminenza di un appassionato assalto amoroso.    
Raccogliendo le forze, il poeta tentò di spingerli (gli aggressori) fuori dalla porta, ma costoro, più forti, fecero fronte ai suoi assalti, cercando a loro volta come potevano di acchiapparlo. Eminescu sgusciò via facilmente dalle loro mani e, nudo, ringalluzzito dalla corrente d’aria che penetrava dall’esterno (dalla porta aperta) si buttò nel bagno pieno d’acqua e di vapore. Schizzava acqua da tutte le parti, cosa che a quanto pare lo divertiva, ma l’espressione alterata del viso e i baffi irti conferivano al suo aspetto la fissità di una maschera da carnevale. Alla fine, lo presero e lo vestirono con la forza. Tutti parlavano fra loro urlando, ma Ioan Vestimie non capiva nulla delle loro parole. Vedeva le loro labbra muoversi lentamente, come se si trovassero sott’acqua. Uscirono dal bagno. I due infermieri si urlavano qualcosa. Il poeta, docile (scortato da due persone), attendeva. Non riconosceva nessuno. Qualcuno gli si parò davanti.
Signor Mihai! Non mi riconosce? Signor Mihai! Eminescu lo guardò in silenzio, senza capire*. Sognava (l’eterna pace). Alte onde di calda tenebra. È questa la pace eterna? Lo spingono verso il cupè che stava aspettando fuori. Il poeta avanza lentamente, intralciato dai pantaloni troppo larghi e lunghi (non erano i suoi). Stende le mani (l’eterna pace). È questa l’eterna pace? Se è così, dove sono stato ieri e l’altro ieri, prima di recarmi da Ienaki?????????????       



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Nota concernente il pedinamento effettuato il 28 giugno del 1883, dalle ore 9.30 alle ore 7.00 della sera.
Dopo le ore 9.30, il Poeta è uscito di casa (piazza Amzei) dove abita come affittuario presso la signora Slavici (Szöke). Non prende la carrozza e continua la strada a piedi. Con ogni probabilità, si dirige in via Mercur, a casa del critico letterario Titu Maiorescu. Dato che la distanza è breve, la percorre abbastanza rapidamente. Non è stato pedinato all’interno. Poco dopo le ore 10.00 è uscito di casa e ha preso una carrozza. Ha chiesto al vetturino di portarlo in via Știrbei Vodă, n.2. Strada facendo però si è fermato al caffè Capșa. La carrozza è rimasta ferma davanti al caffè. Il Poeta si è precipitato all’interno. Qui, senza alcuna presentazione, si è piazzato davanti alla signora Capșa (la proprietaria) e ha dato inizio a una veemente invettiva. La signora Capșa non l’ha provocato, al contrario, ha elogiato con rassegnazione l’invettiva. Sembrava spaventata e ne aveva ben donde poiché, a un certo punto, il Poeta ha estratto una rivoltella, minacciando che avrebbe ucciso il Re. Ventura, che si trovava nel caffè, è intervenuto assecondandolo in tutte le follie che il Poeta declamava. Intuendo il pericolo (la rischiosa azione con la rivoltella) questi ha tentato di calmare il Poeta e di sottrargli la rivoltella. Non ci è riuscito a causa dell’agitazione e del sovreccitamento di Eminescu. Allora, facendo il gioco del Poeta, Ventura gli ha proposto di andare insieme a Cotroceni per cercare il Re e sparargli. Hanno preso una carrozza davanti al Caffè. A Cotroceni, l’ufficiale di servizio, gli ha comunicato che il Re non era a Palazzo. Sulla via del ritorno, seguendo il tragitto lungo il Dâmboviţa e, passando di fronte ai bagni Mitrașevschi, Ventura ha suggerito al Poeta di prendere un bagno caldo. Ventura ha lasciato lì il Poeta e si è precipitato ad avvisare (così come gli era stato istruito di fare) il prefetto della Polizia. Il pedinamento continua ancora (!).

*Ho attraversato la banchina passando per il cantiere (c’erano dei lavori in corso per la canalizzazione del Dâmboviţa) che sembrava più che altro uno scenario infernale (bidoni di catrame, macchine scavatrici, forni da cui saltavano scintille, polvere e fumo). Sono giunto ai bagni Mitrașevschi proprio nel momento in cui stavano portando fuori il Poeta per condurlo al cupè. Gli avevano messo la camicia di forza (dalle maniche lunghe, che gli penzolavano dalle mani, e i pantaloni larghi, trascinava i piedi come se fossero legati da catene). Non dava segno di alcuna reazione come se non si trovasse tra i due poliziotti e infermieri che vociano l’un l’altro, bensì come se fosse in partenza per un’altra destinazione. Mi sono fermato davanti a lui nel tentativo di ricordagli che stavo lì. L’ho chiamato gridando il suo nome, ma non mi ha risposto. Coloro che lo accompagnavano l’hanno spinto sul cupè. Li ha seguiti docilmente, privo di volontà. Fonte: Il Pastore.     





A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)