Benjamin Fondane. Tra Gerusalemme e Atene

Il libro Tra Gerusalemme e Atene – recentemente pubblicato dalla casa editrice Giuntina – offre per la prima volta al pubblico italiano una prospettiva d’insieme sul rapporto di Benjamin Fondane con l’ebraismo. Il volume – curato da Francesco Testa e Luca Orlandini – raccoglie gli articoli che il giovane Fondane (Fundoianu) scrisse per alcune riviste ebraiche di lingua romena, oltre a una sezione antologica tratta dalla sua opera francese. Al pari di Kafka, Celan, Šestov e molti altri scrittori ebrei del XX secolo, Fondane tentò di definire il proprio legame con la religione ebraica. Nei libri profetici e nella Cabbalà intravide un’alternativa al pensiero logico-razionale greco. Ma la tradizione ebraica, in cui la collettività prevale sull’esistenza individuale, non poté rappresentare una via percorribile per colui che tentava di liberare Dio dal giogo della Legge e della morale. Né il suo interesse per la Bibbia poteva infine risolversi in un atto di fede capace di dissipare il dramma del vivere. Contro ogni tentativo volto a pacificare il reale, Fondane ravvisò l’incolmabile distanza che separa rivelazione e ragione, vita e sapere, Gerusalemme e Atene.

Nei passaggi che seguono, tratti dall’opera Tra Gerusalemme e Atene, Fondane offre la sua personale visione della religione ebraica. L’ultimo saggio qui presentato è seguito dalla Postfazione con cui si chiude il libro.

 

A proposito del libro di Martin Buber [1]

In Buber il problema potrebbe formularsi così: lo spirito dell’Oriente e quello dell’Occidente. Nel nostro caso, ebraismo ed ellenismo. Per esaminare diverse questioni relative all’argomento abbiamo bisogno di stabilire un’unità di senso. Buber constata che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo l’Oriente si manifestava ancora agli occhi di Herder, Goethe, Novalis e Görres come un’unità ben distinta. L’Oriente è una parola. I persiani, i cinesi, gli indiani e gli ebrei sono dei popoli. Così tante lingue, costumi, religioni, istinti e differenze. Per ricondurle all’unità, occorre un concetto, un’idea generale. Sopprimendo le differenze tra la chioma, il genere o l’altezza del pioppo, dell’abete e del faggio, otterremo la nozione di albero. Allo stesso modo, eliminando le diversità che sussistono tra un cinese, un persiano, un indiano e un ebreo, avremo la nozione di Orientale.
Nel cercare l’unità, Buber ha accolto questo metodo. Conclude che «l’ebreo è rimasto un orientale [e che] il secolo, in cui noi viviamo, si designerà un giorno come un secolo della crisi asiatica» [2]. Tuttavia, l’Asia (il buddhismo, la religione persiana ed ebraica) è penetrata in Europa (il cristianesimo) solo attraverso l’ebraismo. Il termine può dunque essere generalizzato, fino a caricarsi di un altro senso. Non designerà più un tratto circoscritto a una nazione oppure a un territorio, ma una forma dello spirito.
A partire da questo deplorevole metodo – fondato sulla soppressione delle differenze –, la logica potrebbe restringere il senso di Occidentale a quello di Greco. L’unità, proprio come il concetto, non è altro che una forma di spersonalizzazione. Da un punto di vista astratto, il giglio non è il fiore aristocratico della serra; l’iris, dai curiosi petali viola, non è il pelargonium – dal nome così bello. L’idea di fiore consiste solo della radice, del tronco e del frutto: dello scheletro. L’ellenismo e l’intera civiltà attica si riducono in definitiva alla nozione di paganesimo. Presso i Romani, paganus era colui che abitava in campagna; sotto Costantino il Grande – con l’avvento  del cristianesimo nelle città e la fuga dei Romani non convertiti nelle campagne – il termine assume il significato di «idolatra», di «non-cristiano». Informazioni le otteniamo dal Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange [3], il quale impiega correttamente la nozione di idolatra, pur commettendo un errore nell’affermare che tres sunt in mundi religiones, Iudeorum, Paganorum et Christianorum. Per noi non esistono che due religioni, quella degli ebrei e quella dei greci. Se in merito alle idee il cristianesimo e l’ebraismo si differenziano in modo netto, da un punto di vista teorico sono identici.
Buber cerca di descrivere sinteticamente queste due forme di umanità, connotando l’Orientale come tipo motorio e l’Occidentale come tipo sensorio. Il primo è di natura centrifuga: uno stimolo che nasce dalla sua anima si volge all’esterno, trasformandosi in movimento. L’atto psichico fondamentale del tipo sensorio è centripeto: un’impressione esterna sopraggiunge nell’anima e si risolve in immagine. «Ambedue sono uomini che sentono e che agiscono; ma l’uno sente in movimento, l’altro agisce in immagini. […] Ambedue pensano; ma il pensiero dell’uno significa azione, il pensiero dell’altro significa forma». [4] Riportiamo ciò che Buber considera rilevante nell’avvicinare la questione che ci interessa: «Da questo punto di vista si può osservare come, fra tutti gli Orientali, l’Ebreo sia il più manifesto opposto del Greco. Il Greco vuole dominare il mondo, l’Ebreo vuole compierlo; per il Greco esso è, per l’Ebreo sarà; il Greco gli sta di fronte, l’Ebreo gli è legato; il Greco lo conosce sotto l’aspetto della misura, l’Ebreo sotto quello del senso; per il Greco l’azione è nel mondo, per l’Ebreo il mondo è nell’azione». [5]
Se volessimo cominciare a enumerare una serie di contrasti, da una parte regna – nella vita sociale greca – l’individualismo elitario, da cui dipende l’istituzione della schiavitù; dall’altra, quello che Nietzsche definisce con malevolenza l’istinto del gregge. Buber trae da tutto ciò la caratteristica fondamentale del tipo orientale: «la foresta è per lui più reale degli alberi, il mare più reale dell’onda, la società più reale dell’uomo». [6] Esistono dunque due istinti e due leggi, una per l’Orientale e un’altra per l’Occidentale. La sociologia dovrebbe essere rivista: le società non nascono tutte allo stesso modo. Nietzsche colse nel segno quando affermò che la lotta tra la Giudea e Roma era lo scontro tra democrazia e aristocrazia.

Sinaia
«Mântuirea», I, n. 171, 8 agosto 1919, p. 1.

 

Dall’etica allo spettacolo

Il seguente capitolo dovrebbe intitolarsi «L’istinto vitale e l’istinto di conoscenza». Potremmo anche denominarlo «La concezione etica e quella della rappresentazione», ovvero l’estetica. I nostri titoli – o sottotitoli – rivelano più chiaramente ciò che poteva sembrare sommario. Li ritroviamo tutti nel sistema di idee elaborato dal noto filosofo europeo Jules de Gaultier [7], autore di una nuova concezione sulla teoria della conoscenza che prese il nome di bovarismo dalla celebre eroina del romanzo di Flaubert.
Jules de Gaultier riconosce l’esistenza di un’irriducibile antinomia tra essere e conoscere, tra l’istinto vitale e l’istinto di conoscenza. Applicata alla storia, questa fondamentale antinomia viene chiarita, nel libro di Jules de Gaultier De Kant à Nietzsche, nei seguenti capitoli: L’instinct vital, Platon, le Judaïsme. E nella seconda parte: L’instinct de connaissance, Kant et l’Hindouisme. Risulterebbe difficile comprendere tali categorie di idee se prima non illustrassimo, seppur brevemente, l’idea fondamentale che il filosofo francese sviluppa e commenta in questi capitoli. L’idea del bovarismo. Il bovarismo è la facoltà, propria di un individuo o di una comunità, di concepirsi diversamente da ciò che è. È una facoltà connaturata a tutti gli individui e a tutti i gruppi.             Jules de Gaultier rimase impressionato dagli eroi di Flaubert: tutti credevano d’essere qualcun altro – ovvero si sostituivano a un’altra persona –, facendosene una rappresentazione identica alla realtà. Un esempio è Madame Bovary; un altro ancora, Homais. Questa facoltà di credere in ciò che immaginiamo di noi stessi la ritroviamo, in una versione ancora più triste, negli eroi scientifici di quel libro dimenticato dal titolo Bouvard et Pécuchet. [8] Ma è da questa illusione del sé che scaturisce l’azione. Chi crede di essere poeta, comincerà a scrivere dei versi. Chi pensa di essere predestinato all’erudizione, leggerà; chi è votato alla morte si suiciderà. L’illusione che ognuno nutre verso di sé è il fondamento della nostra attività. Anche i gruppi sono in grado di forgiarsi una auto-rappresentazione senza alcun rapporto con la realtà, rendendo tuttavia possibile l’azione. Misuriamo la forza vitale di un individuo, o di una comunità, in base all’illusione che esso ha di sé, in funzione dello sforzo o dell’attività ispirati da essa. Un individuo, come anche un gruppo, può avere due rappresentazioni di sé: la sua esistenza dipende da ciò che sceglie a livello fisiologico. La prima rappresentazione non implica né un’alterazione né un potenziamento della propria personalità. L’immagine risulta estranea. L’individuo, o la comunità, corre allora a identificarsi con l’Immagine che danza dinanzi ai propri occhi, quasi fosse una realtà pura, come l’acqua del deserto che, nella sua inconsistenza, appariva ai morti. Questi non troverà nulla e dunque non diverrà nessuno. È destinato alla morte.
La seconda rappresentazione non è altro che un potenziamento – ampliamento – della propria personalità. L’immagine di sé equivale a una semplice anticipazione. L’illusione è creatrice di attività feconda. La realtà tende ad avvicinarsi alla rappresentazione, identificandosi con essa; proprio come un esagono che, immaginandosi quadro, riuscirebbe a moltiplicare i suoi lati fino a diventare un cerchio, grazie alla forza esercitata sul perimetro.
La forza vitale di un individuo o di un gruppo verrà dunque misurata in base alla prossimità o alla distanza che separa la realtà dalla rappresentazione. Soprattutto in funzione del modo in cui l’illusione sia capace di creare un’attività utile – l’azione tout court. La più straordinaria auto-rappresentazione mai creata da un gruppo storico, da cui nacque una delle più vaste forme di attività, appartiene al popolo ebraico. La sua realtà consiste nell’essere un popolo di ebrei, ma la rappresentazione si identifica con l’idea di popolo eletto. Questa illusione – che ha suscitato le risa delle popolazioni confinanti – sarà destinata a generare la più vasta attività. Le illusioni si classificano in base ai gradi di attività che esse producono. È stata l’illusione del popolo eletto a trasformare Israele, radicandolo nella storia. Un’illusione che creò i Profeti e la Bibbia, da cui trasse origine il cristianesimo. Se Israele ha «voluto»  conquistare il mondo – e vi è riuscito – attraverso la religione cristiana, lo deve a questa illusione primordiale.
Le popolazioni si divisero in due a partire da tale illusione. Da un lato il popolo eletto; dall’altro il resto del mondo. Una soluzione che nemmeno Darwin avrebbe sognato. La selezione è una forma di aristocrazia. L’individuo e il gruppo ebraico, ridesti improvvisamente dall’illusione, dovettero mantenersi al livello dell’aristocrazia. La loro esistenza appariva un privilegio. È per questo motivo che l’esilio in Babilonia – oltre alla caduta del regno, la distruzione del Tempio, la soppressione della vita politica e l’erranza – non li scoraggiò. Nel suo stanzino umido e scuro del ghetto, curvo su righe riempite da una grafia scritta all’inverso, l’ebreo non è mai stato spinto dalla fame, né dalla prigione o dalla mancanza di libertà, a rinnegare la propria specificità. È grazie all’illusione che ciò fu possibile, poiché egli conosceva sé stesso solo come rappresentazione. Mentre la sua persona parlava di fame, tisi e dolore, la rappresentazione che aveva di sé (specchio menzognero) affermava: popolo eletto. L’ebreo era posto dinanzi a un dilemma: beneficiare di alcuni privilegi universali oppure rinunciare a qualcosa di infinitamente più importante.
La rappresentazione che ognuno ha di sé non è frutto del caso. Si tratta di un’attitudine fisiologica. Potremmo concludere affermando che il popolo d’Israele, se continua a vivere sopra le tombe della Storia, lo deve alla propria illusione di popolo eletto: tra tutte, la più intuitiva e la più feconda.

«Mântuirea», I, n. 262, 12 novembre 1919, p. 1.

Lev Šestov
Alla ricerca dell’ebraismo perduto [9]

Il settantesimo anniversario della nascita di Lev Šestov, che in Francia ci apprestiamo a celebrare grazie al comitato «Les Amis de Chestov» (presieduto da L. Lévy-Bruhl) [10], merita ben più che un’attenzione indiretta da parte del mondo ebraico. E non solo perché Šestov è ebreo; molti altri personaggi illustri lo sono malgrado non rappresentino nulla di specificamente ebraico, e ancor meno di essenziale. Definisco «specifico» ciò che emerge da un’evoluzione storica, psicologica, biologica, di cui allo stesso tempo si è preso coscienza, costituendo la ricerca d’una via d’uscita sul piano temporale. Definisco «essenziali» i tratti di una personalità che si colloca oltre il tempo, la storia, oltre i confini di una struttura definita – geografica, storica, nazionale – sforzandosi di esprimere, o che esprime suo malgrado, l’essenza di una rivelazione che, benché confinata a un solo popolo, interessa in assoluto il benessere dell’umanità intera. Da questo punto di vista, molti ebrei di nascita – Bergson, Freud, Einstein – non lo sono affatto «essenzialmente»; lo sono meno rispetto a un Pascal, a un Kierkegaard; giacché l’uno fa appello al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe; mentre l’altro abbandona Hegel platealmente per volgersi ai «pensatori privati», a Giobbe e Abramo. Se gli ebrei intendono essere ebrei, come i tedeschi sono tedeschi e gli indigeni del Guatemala dei guatemaltechi, è arrivato il momento di affermarlo. Se la loro intenzione è stata quella di essere «il popolo eletto» a buon mercato, sarebbe ora che aprissero gli occhi.
È chiaro che la maggior parte di noi si è lasciata andare all’autocompiacimento, al narcisismo assoluto. Abbiamo fatto credere agli ebrei che la loro grandezza fosse legata alla loro morale, e loro si sono adeguati; non hanno sentito l’esigenza di protestare e sottolineare che la loro morale non aveva alcun rapporto con l’etica autonoma, meramente umana e soddisfatta di sé, tipica degli stoici; ossia ribellarsi all’eventualità di essere il supporto della morale arrogante e finita [limitata: finitudine] dei filosofi greci. Ahimè, non sarà Maimonide a rivelarci questo errore, quel Maimonide che ci chiederà di leggere la Scrittura con la nostra ragione; ma ancora una volta Pascal, colui che rifiutava il dio «dei saggi e dei filosofi». Così sembra che – e la questione meriterebbe uno studio più approfondito – la grande tradizione ebraica, nel mondo, sia stata alienata, che la morale «autonoma» degli ebrei, nella Storia, non sia stata altro che un grande peccato d’orgoglio da parte d’Israele. È questa stessa tradizione, esausta e negata, che Lev Šestov è venuto a rinnovare. È precisamente questa la ragione del vergognoso misconoscimento di Šestov da parte del pensiero ebraico contemporaneo, che ovviamente ha ben altri problemi a cui pensare. Israele è colmo di morale, e ne va fiero; ma la Bibbia, di cui tanto mena vanto e la quale rappresenta il suo miglior titolo di gloria, dopo Spinoza l’ha gettata in mare, nel mondo delle venerate superstizioni, da cui l’ebreo moderno è stato uno dei primi a liberarsene.
Così Lev Šestov non sarebbe altro che un vecchio ebreo del ghetto, chiuso alla mentalità moderna, un pilastro della sinagoga? No. È uno scrittore attuale che lotta contro Hegel e Husserl, che si confronta con la teoria della conoscenza e attinge la sua sostanza da Dostoevskij e Nietzsche; sa, come tutti quanti, che due più due fa quattro e che la Terra gira intorno al Sole. Eppure Šestov – con Pascal, Nietzsche e Dostoevskij, contro Hegel e Husserl (benché anche Husserl sia ebreo) – è assolutamente un antimoderno. [11]Porta a termine un’analisi letale contro il progresso, il nostro sapere e la nostra morale.Queste realtà per lui rappresentano qualcosa più di un simbolo: sono il motore stesso della nostra attuale infelicità. Non che il sapere, la morale e il progresso non possedessero una sostanza nel quadro puramente umano; ma tutte queste realtà trascendevano già l’umano, proiettandosi oltre, per promuovere le verità eterne, assolute,  costringendo e asservendo l’uomo. La morale, in ogni epoca, si è legata alle «evidenze» filosofiche e alle idee del progresso storico: è così che le nostre più alte conquiste scientifiche, in fondo, non sono altro che argomenti della morale. Da quando gli uomini hanno inventato la morale autonoma, tutto è ricondotto e sottomesso a lei: il Dio dell’Antico Testamento, Colui che era capace di compassione, collera o rimorso, fu trasformato in un Dio giusto, immutabile, perfetto, immobile – un Dio per filosofi pagani… Di conseguenza, non c’è da meravigliarsi se sia stato necessario ridimensionare questi concetti sublimi e ammettere francamente che, rispetto alla nostra morale, Dio non fosse né giusto né perfetto, benché da sempre immutabile e immobile! Non c’è da sorprendersi, allora, che sia stato necessario sacrificare – «assassinare», come dice Nietzsche – questo Dio troppo identico al Bene Morale! È stata l’intuizione più importante di Šestov, quella che gli fa affermare che il Dio odiato dagli uomini non era altro che il Dio del Bene morale, e non il Dio del Bene. Il Dio sacrificato da Nietzsche non è altro che il dio dei filosofi greci, e non il Dio dell’Antico Testamento. Le Opere postume di Nietzsche – pubblicate recentemente – ci forniscono questa geniale intuizione: «La negazione di Dio: dunque, noi non abbiamo fatto altro che negare il Dio della morale». È il punto di partenza dell’impietosa analisi di Šestov, che ha le sue origini all’inizio del 1900.
Così, la posizione morale dell’ebraismo, nel corso degli ultimi secoli, è stata opposta alla posizione metafisica dell’ebraismo stesso! Abbiamo pagato l’orgoglio dei nostri valori morali con la perdita della nostra tradizione religiosa. Noi siamo stati i primi – a partire da Moses Mendelssohn e Spinoza – a sradicare dall’Antico Testamento la sua verità, la sua estensione, il suo messaggio. È arrivato il momento di lasciare la morale a coloro che l’hanno inventata… e senza indugi; solo così l’ebraismo potrà ritrovare se stesso. E nel caso questo ebraismo non desiderasse ritornare alla Bibbia – al di là della ragione, della scienza e del progresso – è ora di riconoscere onestamente che ormai siamo solo una forma priva di contenuto o, nella migliore delle ipotesi, dei discendenti di Aristotele, e non dei profeti! Non sarà il peccato della conoscenza a ricondurci in paradiso, dopo che ci ha cacciato fuori da esso.
Ho dovuto, in poche parole, indicare alcune idee fondamentali del pensiero di Šestov, trascurando così la parte migliore della sua opera: la sua «lotta contro le evidenze», la sua «filosofia della tragedia», la sua «apoteosi della precarietà». Qui non ho voluto fare altro che attirare l’attenzione sul più grande sconvolgimento che, da molto tempo, abbia scosso l’ebraismo. Non c’è da sorprendersi se quell’ebraismo, non comprendendo il perché dell’aggressione di Hitler, non capisca e ignori l’esistenza del suo filosofo, il filosofo ebreo per eccellenza! La stessa cecità che spinge l’ebraismo nelle braccia della corruzione di quel modernismo che l’ha completamente neutralizzato e lo rende insensibile alle venerabilità della propria tradizione… una tradizione svuotata, lacerata e rinnegata! Ma è poi possibile tornare indietro? È possibile convertirsi a una superstizione condannata – all’unanimità – dai filosofi non ebrei? Insomma: ha ancora senso un popolo «eletto»? Agli occhi della morale, un popolo «eletto» non è la peggiore delle aberrazioni? Ma in questo caso, non siamo forse, nella Storia, la più insolente delle assurdità? Ammettiamolo: se l’ebreo, unico esempio nell’Antichità, ha testimoniato l’effettiva presenza di Dio, nel nostro mondo moderno egli potrebbe come minimo testimoniare con altrettanta angoscia l’assenza di Dio! [12] Solo nel mondo moderno, ed esempio unico nell’ebraismo, Šestov rappresenta questa angoscia!

Benjamin Fondane
«Revue Juive de Genève», IV, 37, aprile 1936


Postfazione di Francesco Testa. Itinerari di un’erranza

Se è vero che la poesia nasce da parole inconsce, distillato di un’amniotica grammatica primigenia figlia della lingua madre, la riscoperta dell’opera giovanile di Fondane ci dona il privilegio di entrare in contatto con la lirica prosa romena di colui che verrà definito, una volta in Francia, «l’estremo in grande stile». Seppur considerata un capitolo minore rispetto alla sua produzione letteraria francese, l’opera del giovane Fundoianu giocò un ruolo decisivo nella formazione della poetica dell’Autore, la cui tragica esistenza si spense nell’ottobre del 1944 in una camera a gas del campo di concentramento di Auschwitz.
Benjamin Fondane nacque a Iaşi il 14 novembre del 1898. Importante centro culturale abitato da una numerosa comunità ebraica, Iaşi era il capoluogo della Moldavia – «una provincia di un fascino desolato letteralmente insostenibile», stando alle parole dell’amico Cioran –, terra brulla in cui affondavano i cupi versi di Bacovia. Il greve paesaggio moldavo, dominato da «bianchi sentieri tra i granturchi di un giallo tisico», anima i ricordi del giovane poeta in visita al cimitero cittadino (Nel cimitero ebraico di Iaşi). La memoria del padre, morto prematuramente, esala tra le lapidi inclinate e consunte dal tempo, dove la vita appassisce e il confine tra animali, cose e persone sembra assottigliarsi. Isaac Wechsler, il padre di Fondane, era un commerciante originario di Herţa, piccolo villaggio della Bucovina dove il giovane Benjamin trascorreva le vacanze estive. L’identità plurilingue del poeta – retaggio di un mondo che conobbe il mutare di imperi e confini – si rispecchia a pieno negli pseudonimi delle sue opere: Benjamin Wechsler adottò il cognome romeno Fundoianu – ispirato al nome della tenuta Fundoia, nei pressi di Herţa –, successivamente francesizzato in Fondane.
Czernowitz. Capoluogo della Bucovina e patria della grande letteratura ebraico-tedesca; è in questa città, alla periferia dell’Impero austroungarico, che composero i loro primi versi Rose Ausländer e Paul Celan, all’alba del lento ma inesorabile sgretolamento delle strutture morali e sociali della Kakania. Ma a incidere sulla formazione del giovane Fondane non sarà tanto il tedesco della letteratura imperialregia, quanto l’immaginario yiddish degli ebrei orientali. Un mondo chagalliano che aleggiava oltre le norme rabbiniche, dove persino il paradiso sfoggiava una veste esotica, «un paradiso di miseria e preghiera, nel quale i boccoli rituali hanno potere di legge, dove i pesci cantano e volano, e la legge di gravità è sospesa».. La Bucovina assume in Fondane i contorni di una geografia interiore, dove i secolari boschi di abeti sono i muti ascoltatori notturni del respiro mistico dei chassidim. Quel movimento chassidico – fondato nel XVIII secolo dal Baal Shem Tov –, meno razionale e più istintivo dell’ebraismo rabbinico, che esercitò un gran fascino sul giovane poeta. Figure leggendarie come Rabbi Nachman di Bratzlav, che «cercava di notte i luoghi deserti e si rivolgeva a Dio in dialetto», oppure Zusha di Hanipol, il quale «aveva l’abitudine di errare tra le foreste», animano i suoi scritti sulla mistica ebraica.
Stimolato dall’effervescenza culturale che si respirava in famiglia, Fondane entrò sin da adolescente nel mondo intellettuale ebraico. Adela, la madre del poeta, discendeva dalla famiglia Schwarzfeld, che svolse un ruolo decisivo nella modernizzazione della vita culturale degli ebrei di Romania. Il nonno Benjamin fondò in Moldavia una delle prime scuole ebraiche moderne, mentre lo zio Elias pubblicò studi pionieristici sulla storia degli ebrei romeni. Le prime collaborazioni con la stampa furono essenzialmente traduzioni di poeti yiddish (Abraham Reisen, Chaim Nachman Bialik e Iacob Groper) per la rivista «Hatikvah». Senza dimenticare quella «nuova rinascita del misticismo» germinata nelle regioni orientali dell’Europa chassidica, l’interesse verso la spiritualità ebraica si manifestò soprattutto per il fenomeno del profetismo e della Cabbalà, quest’ultima vista – ancor prima dell’incontro con la riflessione del suo “maestro” Lev Šestov – come un’alternativa al razionalismo moderno. Nel 1919 cominciò a scrivere su «Mântuirea», periodico fondato a Bucarest da Abraham Leib Zissu. Il momento massimo della sua collaborazione sulle colonne del giornale fu costituito da un ciclo di saggi, comparsi tra l’agosto e l’ottobre del 1919 con il titolo di Ebraismo ed ellenismo. Al pari di Kafka, Celan, Šestov e molti altri scrittori ebrei del XX secolo, Fondane tentò di definire il proprio legame con la religione ebraica. Prendendo spunto dal libro di Martin Buber Vom Geist des Judentums [Sullo spirito dell’ebraismo], pubblicato in Germania nel 1916, il giovane saggista cercò di comprendere l’importanza delle due radici da cui trasse linfa la cultura occidentale: lo spirito filosofico e la religione rivelata.
Il suo esistenzialismo – affine alla posizione di Šestov espressa nel celebre studio Atene e Gerusalemme – interpretava la tradizione ebraica come una Weltanschauung alternativa al pensiero logico-razionale sviluppatosi in Grecia. Se per l’ebreo il mondo si dà e si realizza in atti – da cui il carattere etico del monoteismo ebraico –, per il greco esso è costituito di forme. Da un lato regna l’agire morale, dall’altro una contemplazione del reale che trascende le categorie di bene e di male; la libertà contro la fatalità («conoscere è conoscere la necessità»). Ma la tradizione ebraica, in cui la collettività prevale sull’esistenza individuale, non poté rappresentare una via percorribile per colui che tentava di liberare Dio dal giogo della morale e della Legge.
Sbaglia chi crede di relegare Fondane entro le comode categorie del “pensiero religioso”, di un esistenzialismo sostenuto dalla stampella della fede. La morale, lungi dal dischiudere un cosmo di princìpi astratti lungo la via del Bene, si rivela per quello che è: «un’attitudine volta all’utile», espressione di un cieco istinto di conservazione che tende a prolungare l’esistenza di individui e gruppi sociali. Il suo scopo, in fondo, è sempre il medesimo: «conservare il formicaio».
Eppure non basta, secondo Fondane, spogliare la religione della sua toga etica e privarla di qualsiasi pretesto per l’edificazione spirituale. Occorre innanzitutto liberare il Dio d’Israele dal dominio della Legge e delle verità di ragione. Come scrisse in una lettera all’amico Zissu: «Israele […] crede più nella LEGGE che in LUI. […] La legge in quanto tale, per il solo fatto di essere una Legge completa, definitiva, di una perfezione che vieta perfino a Dio la minima modifica, basta a se stessa; ha avuto forse bisogno di essere legittimata da Dio? No! […] Quand’anche sopprimessimo Dio, il Dio infedele della Legge, la Legge sussisterebbe ancora». Contro le evidenze del mondo e della Storia, sotto la cui forza gravitazionale persino l’agire divino implode, il giovane Fondane – avulso al sillogismo per impossibilità fisiologica – è alla ricerca di un ebraismo animato dall’ispirazione profetica, dispensatore di schegge d’assoluto. Dinanzi a una religione ridotta a morale, inaridita dalle pratiche di un culto oramai socializzato, il poeta cercò conforto nell’abisso divino, in quella potentia Dei absoluta capace di sovvertire in ogni momento il creato e le sue leggi. Se la Legge, come crede Fondane, si è fatta più eterna di Dio, il suo oltrepassamento appare dunque necessario; un superamento volto a rivitalizzare l’ebraismo, attingendo da quelle fonti bibliche gravide di immagini – la poesia lirica di Ezechiele, Giobbe e Geremia, la Cabbalà e il chassidismo.            Tuttavia, il suo interesse per la Bibbia non si tradusse mai in un atto di fede capace di dissipare il dramma del vivere. In un articolo del 1920 scrisse: «la Bibbia, intesa come opera letteraria, desta la mia curiosità. Ma non la fede» (La traduzione della Bibbia). Memore della critica biblica spinoziana, che interpretava i testi sacri come il prodotto dell’umana immaginazione, considerò l’Antico Testamento, alla stregua del Nuovo, fiction letteraria. Anche il Dio biblico non era da meno. Con malcelato sarcasmo Fondane si domandava «quale immaginazione da letterato demente è stata capace di inventarlo». Ma in netto disaccordo con Spinoza – secondo cui i testi biblici furono scritti per la imaginatio del popolo in vista dell’agire etico – il poeta moldavo non tollerò una riduzione della Bibbia a mero catechismo moralistico. Si pensi, ad esempio, a quelle pagine del Cantico dei cantici dove «canta la fornicazione gioiosa e ride l’idolo Baal», in cui il grido mistico sembra stonare con la moderazione di una retta morale. Un intero libro reso appetibile al gusto dei palati ortodossi grazie all’introduzione di piae fraudes, con cui gli anziani rabbini mitigarono l’essenza di quello scritto venuto da lontano, dal sapore profano e pagano.
Immune a ogni forma di dogmatismo religioso è la lettura del destino ebraico proposta da Fondane. Mutuando da Jules de Gaultier – fonte d’ispirazione giovanile da cui prenderà le distanze, a partire dal 1928, attraverso il superamento di quella giustificazione estetica del reale difesa da Gaultier e la conseguente frequentazione della riflessione šestoviana – la categoria del “bovarismo”, ossia la capacità di un individuo o di un gruppo sociale di concepirsi diversamente da ciò che è, Fondane dubita che Dio abbia voluto la sopravvivenza del popolo d’Israele. La sua forza – niente affatto trascendente – è figlia dell’istinto vitale, espressione di quelle illusioni grazie alle quali riusciamo ad agire nel mondo, fabbricandoci un’idea di noi stessi diversa da ciò che realmente siamo. In fondo, se il popolo ebraico «continua a vivere sopra le tombe della Storia, lo deve alla propria illusione di popolo eletto: tra tutte, la più intuitiva e la più feconda» (Dall’etica allo spettacolo). Svelando la natura illusoria sottesa all’auto-rappresentazione del popolo scelto, l’ebraismo cui tende Fondane mal si concilia con un senso ingenuo di appartenenza comunitaria o territoriale. A differenza di molti suoi contemporanei, il poeta rimase pressoché indifferente alle speranze riposte nel nascente movimento sionista. In esso scorse un disperato tentativo di ritorno alla tradizione attraverso le categorie del moderno, una cieca lotta contro le tendenze assimilazionistiche dell’epoca. Come annotò in un articolo dedicato allo scrittore yiddish Iacob Groper: «Il sionismo rappresenta soltanto una finalità politica. L’ebraismo una finalità vitale» (Parole a proposito di un amico).
Troppo sofista per indulgere nelle verità dispensate dalla ragione e troppo poco ingenuo per abbandonarsi alle consolazioni della fede, Fondane abitò gli interstizi di tenebra e luce che balenavano tra Atene e Gerusalemme. La sua peculiare “adesione” alla religione dei padri – aliena alle osservanze rituali imposte dal culto – non si risolse mai in un cumulo di certezze fortificanti. Nell’ebraismo trovò asilo quella sua esigenza spirituale di «restare sospesi all’arbitrio di Dio come a una trama invisibile» – secondo le parole della consorte. È nell’erranza dello spirito che Fondane intravide il destino dell’ebreo, come sembra suggerire la lettera-testamento inviata dal campo di Drancy alla moglie Geneviève il 29 maggio 1944: «Tu lo sai, te lo avevo detto, nel disegno del nostro destino vi sono cose che non possiamo cambiare. Il viandante non ha finito di viaggiare, ho scritto. Ed ecco! Avevo ragione, continuo. È per il futuro, e per il meglio».



A cura di Francesco Testa

(n. 11, novembre 2019, anno IX)




NOTE

1. Martin Buber, Vom Geist des Judentums, Kurt Wolff Verlag, Leipzig 1916. Il problema verrà indagato sulla base della riflessione di Martin Buber, Mathias Acher e Achad Ha’am. (N.d.A)
2. Martin Buber, Discorsi sull’Ebraismo, Gribaudi, Milano 1996, pp. 68-69. Fondane si riferisce allo scritto Der Geist des Orients und das Judentum, pubblicato nella raccolta Vom Geist des Judentums. Reden und Geleitworte von Martin Buber, Kurt Wolff Verlag, Leipzig 1916. Il testo verrà poi riedito in Reden über das Judentum, M.B., Rütten und Loening, Frankfurt am Main 1923.
3. Charles du Fresne, noto come Du Cange (1610-1688), è l’autore del Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis (1658), opera fondamentale per lo studio della media e bassa latinità.
4. Martin Buber, Discorsi sull’Ebraismo, cit., pp. 52-53.
5. Ibidem, p. 60.
6. Ibidem, p. 58.
7. Fondane si interessò molto presto alle idee estetiche e filosofiche di Jules de Gaultier (1858-1942), soprattutto alla teoria del «bovarismo» (Le Bovarysme, 1892), di cui scriverà dettagliatamente nel volume Imagini şi cărţi din Franţa (1922). Dopo essersi stabilito a Parigi, entrò in contatto con il filosofo francese, grazie al quale conoscerà anche Lev Šestov. Alla morte di Gaultier, nel 1943, Fondane gli renderà omaggio con un articolo pubblicato nei «Cahiers du Sud».
8. Opera incompiuta pubblicata nel 1881, un anno dopo la morte di Flaubert.
9. Estratto da Benjamin Fondane, In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggio, cura e traduzione di Luca Orlandini, Nino Aragno Editore, Torino 2017, pp. 243-247.
10. Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939), filosofo ed etnologo, che all’epoca dirigeva la «Revue philosophique de la France et de l’Étranger».
11.Questo termine, adoperato all’epoca da Jacques Maritain e Charles du Bos, designa una opposizione al modernismo, al culto del progresso; più che un semplice rifiuto, esprime i dubbi al riguardo. A tal proposito, vedasi l’opera di Antoine Compagnon, Les antimodernes. De Joseph de Maistre à Roland Barthes, Gallimard, Paris 2005.
12. In un quaderno di lavoro del 1943 (Archivi Michel Carassou) si legge: «Noi viviamo in un’epoca (o forse è già finita) dominata da questa assenza di Dio. Ma con assenza non intendo privazione. Con questa assenza intendo una voragine, una incompiutezza, una nostalgia di, la presenza di un’assenza, qualcosa come un solido nulla, sostanziale, creatore di atti. Tutto quel che abbiamo scritto, pensato, edificato, aveva in vista un solo obiettivo: colmare un abisso, quella voragine che l’assenza di Dio aveva aperto nel nostro universo».