Settimana della lingua italiana nel mondo: l’italiano parlato in Eritrea

La storia coloniale italiana, diversamente da quella di paesi come Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo che hanno creato differenti aree linguistiche nei territori occupati nel corso di secoli, si è esaurita in un periodo piuttosto breve, circa cinquanta anni nel corso dei quali la lingua italiana ha cercato di imporsi, seppur in modo non omogeneo, in Libia, in Etiopia, in Somalia e soprattutto in Eritrea. In quest’ultimo paese la presenza italiana, dapprima modesta, si è ampliata enormemente in occasione della campagna d’Etiopia del 1935, quando circa 400.000 italiani sbarcarono nella ‘colonia primigenia’. L’elevato numero di connazionali provenienti dalle più svariate aree della penisola ha fatto sì che nella colonia si standardizzasse una parlata ‘nazionale’ che ancora oggi, all’ascolto, presenta delle differenze rispetto alla pluralità di accenti della madrepatria. Cercherò di analizzare alcuni dei fenomeni linguistici che più hanno colpito la mia attenzione nel corso dei tredici anni trascorsi in Eritrea, sottolineando tuttavia che si tratta di mere osservazioni senza alcuna pretesa di scientificità.

L’Italia che occupa l’Eritrea nel 1882, appena ventuno anni dopo l’unificazione, è un paese profondamente diviso, un mosaico di tradizioni e culture che si sarebbero amalgamate a fatica nei decenni successivi. Tale divisione si rifletteva inevitabilmente anche nella lingua, data la presenza di numerosissimi dialetti regionali che spesso raggiungevano livelli di incomprensibilità soprattutto tra i parlanti  del Nord e del Sud d’Italia. Sin dall’inizio, nella nuova colonia eritrea le numerose componenti italiane si trovarono a vivere e ad operare fianco a fianco: l’imprenditoria proveniva soprattutto dal Nord mentre la manodopera era composta prevalentemente da meridionali che cercavano in Africa Orientale nuove prospettive di lavoro. Era quindi necessario trovare un codice linguistico comune per operare uniti nella nuova colonia. L’Eritrea avrebbe costituito pertanto uno dei primissimi banchi di prova dove realizzare l’unità linguistica che in Italia si sarebbe affermata soprattutto negli anni ‘60 con l’introduzione della televisione, mantenendo tuttavia forti differenze regionali soprattutto a livello fonetico.

La lingua italiana che si afferma Eritrea nel corso del Novecento si presenta invece come un tutto unico mantenendosi tuttavia diverso dalle lingue parlate nel resto della penisola; suona come una variante regionale eppure non è riconducibile a nessuna delle regioni d’Italia. Possiede tratti tipicamente settentrionali come l’uso della s sonora intervocalica, in parole come casa, rosa, cosa, ma il tratto forse maggiormente distintivo che ho avuto modo di osservare in molti parlanti italiani nati in Eritrea, o di eritrei bilingui italiano-tigrino, è l’articolazione dei suoni che tende ad essere gutturale allo stesso modo della lingua parlata in Eritrea, il tigrino. È come se tutti i suoni si spostassero dalla parte anteriore a quella posteriore del palato; l’effetto sull’ascoltatore madrelingua è sorprendente dato che in Italia nessuno parla in questo modo. Tale fenomeno è da ascrivere al substrato linguistico tigrino per i casi di bilinguismo; nel caso invece degli italiani nati e cresciuti in Eritrea – i quali invece non parlano tigrino – si può forse far risalire alle antiche governanti eritree, probabilmente bilingui, con le quali i bambini italiani trascorrevano molto tempo e dalle quali probabilmente hanno imparato a pronunciare i suoni dell’italiano.

Altro elemento caratterizzante è l’elisione della vocale finale alla prima persona plurale di verbi come ‘essere’ e ‘avere’: siam pronti, abbiam fretta. È un uso ancora oggi riscontrabile in alcune aree linguistiche del Nord Italia anche se a un orecchio del terzo millennio suona vagamente ottocentesco, per non dire letterario; probabilmente si è imposto nella fase iniziale della colonizzazione e si è mantenuto immutato attraverso i decenni.

Esistono inoltre numerosi proverbi e modi di dire legati alla realtà coloniale e all’incontro-scontro tra le varie componenti italiane in suolo africano che in Italia non hanno mai avuto modo di attecchire. Un esempio tra tutti è quello di denominare ‘mangiasapone’ i siciliani. Questo appellativo deriva da una barzelletta in voga ad Asmara agli inizi del Novecento che individuava i siciliani come sporchi e ignoranti: i settentrionali offrivano loro un pezzo di sapone per lavarsi ma quelli, che non ne conoscevano l’uso, lo scambiavano per un pezzo di pane e lo mangiavano.

L’entrata in guerra di Mussolini a fianco di Hitler determinò la perdita della colonia ad opera degli inglesi nel 1941 anche se molte migliaia di italiani rimasero a vivere e ad operare in Eritrea fino agli anni ’70. Inevitabilmente la distanza tra i due paesi si accrebbe nel corso della seconda metà del novecento e con essa ogni possibilità di comunicazione e di scambio. La lingua italiana d’Eritrea pertanto conobbe un progressivo isolamento fino a diventare una vera e propria isola linguistica nel continente africano.

Oggi l’italiano d’Eritrea è parlato soltanto dagli anziani e ascoltarli, siano essi connazionali residenti o eritrei bilingui, rivela ancora tracce di un passato che l’Italia sembra avere dimenticato.



Giampaolo Montesanto
(n. 11, novembre 2013, anno III)