Antologia Giuseppe Pontiggia. Da «Vite di uomini non illustri»

La presenza scenica

Si ama come si ama e si è arrivati come si sente.
(E. Duse, Lettera a I. Polesi, 15 ottobre, 1881)

Molteni Franca

Nasce a Merate il 3 ottobre 1902 da Annoni Luisa, di anni 29, casalinga, e da Molteni Ugo, di anni 44, titolare di un negozio da panetterie. Non fa in tempo a conoscere suo padre, morto di congestione il 28 agosto di quell’anno, dopo un bagno nelle acque gelide dell’Adda, sotto il ponte di ferro di Paderno.
Eppure non dimenticherà il suo viso vigoroso, con i baffi biondi spioventi e il cappello bianco, che campeggiava nella fotografia del colombario di Merate. Aveva studiato fino alla quarta elementare, da adulto aveva collezionato libri su Napoleone. La vedova li scopre in un armadio del solaio, sotto le travi inclinate, nella luce obliqua e polverosa che scende da una finestrella tra pile di ceste sfondate e di assi accatastate. E ne strapperà periodicamente le pagine per accendere la stufa di ghisa. Solo a undici anni la figlia, studiando il capitolo di storia intitolato «Un uomo tra due secoli» rivivrà questa passione del padre e riuscirà a sottrarre alla madre gli ultimi trentasei libri. Li conserverà con devozione in camera sua, come una eredità preziosa e perenne.
A tredici anni, il 22 settembre 1915, la zingara di un piccolo circo accampato a Brivio le predice per 50 centesimi – all’ingresso di una tenda illuminata dalle candele – il futuro. Una frase rimarrà incancellabile nella sua mente: «Uno dei vostri figli si eleverà molto».

            Nella recita scolastica di fine anno si distingue per una teatralità precoce. Il vicepreside, professor Aldo Parravicini, regista dello spettacolo, commenta:
«È come se imitasse grandi attrici, che però non ha mai visto recitare.»

A quindici anni – terminate le scuole tecniche che lei, unica tra le compagne, nobilita con la e stretta (técniche), sostiene la parte della contessina Erminia Belgioioso nel dramma in due tempi L’uragano di Francesco Carminati, rappresentato a Merate dalla Filodrammatica dell’oratorio Don Bosco, con citazioni nel foglio diocesano intitolato «Faville».
A diciotto anni entra nel gruppo teatrale Melpomene di Lecco e recita una piccola parte nella Nemica di Dario Niccodemi. Il critico E.P. della «Provincia» scrive:
«Apprezzata, soprattutto per la presenza scenica, Franca Molteni.»
Conserva il ritaglio del giornale in un album di pegamoide verde intitolato “Palcoscenico”, ma solo altri due si aggiungeranno a questo: uno per La moglie ideale di Marco Praga al teatro Odeon di Bellagio, l’altro per la prima di Demetra e Persefone di Arturo Rivoalta, al teatro all’aperto di Licinium di Erba. Sulla scena di pietra al fondo della cavea semicircolare, in una sera lunare e ventilata di aprile, declamerà diciotto esametri carducciani in due scene diverse, davanti a un pubblico più esterrefatto che rapito. Ma sarà la parte più breve in tutta la tragedia. E quando, al ristorante L’Alpina, l’autore obeso, sudato, rosso in viso, la abbraccerà con foga eccessiva, lei si divincolerà dalla stretta. E poco dopo, amara, delusa, gelida, sprezzante, guardando davanti a sé, tra commensali congestionati, pronuncerà a voce bassa ma ferma la frase definitiva che nessuno udirà:
«Io con il teatro ho chiuso.»

Accetta undici giorni dopo di incontrare nel tardo pomeriggio, al traghetto leonardesco di Imbersago, lungo la riva destra dell’Adda, un satiro di Demetra e Persefone, il ragionier Carlo Bernasconi, impiegato di prima categoria al Banco Lariano di Lecco. È un po’ goffo nel saltellare con i piedi caprini e il professor Ernesto Ratti, il regista, ha dovuto spiegargli che si tratta di un coro greco e non di una danza russa. Però in borghese ha un’aria riservata e signorile, le ha mandato undici rose rosse con il biglietto «Alla vera Persefone» e porta un panama bianco, a tese larghe, che le ricorda suo padre. Fuma, tra i pochi a Merate, le Serraglio e batte l’indice sulla sigaretta, per farne cadere la cenere, con una eleganza che la attira. Solo nove anni dopo gli confesserà che il dettaglio era stato per lei importante, ma lui non le crederà.

Lo sposa il 20 giugno 1929, dopo avergli offerto per lettera, il 18 maggio, il proprio corpo e avergliene poi differito il possesso il 30 maggio, in una serata temporalesca sulle rive del lago di Sartirana. Firma le lettere con una calligrafia ariosa e verticale che ricalca quella di d’Annunzio, ammirata in una corrispondenza con la Duse uscita sulla «Domenica del Corriere».

Al ritorno dalla luna di miele confessa a don Riboldi, parroco di Merate, la propria delusione. Termine di paragone insuperabile l’ingegner Vergani, un villeggiante milanese di due estati prima, che l’aveva toccata in un plenilunio, vicino a un covone, e le aveva procurato una sorta di deliquio. «Pensa al tuo Carlo» le risponde il parroco.

Il lascito napoleonico di suo padre diventa il nucleo di una libreria a vetri scorrevoli, con le tendine che si aprono come su un palcoscenico.
Acquista a rate da un rappresentante di Torino la collezione dei classici italiani della UTET, diretta da Gustavo Balsamo-Crivelli. Scrive alla casa editrice chiedendo il cambio delle prime copie, che hanno le pagine frastagliate, ma avvampa di vergogna quando il rappresentante la informa, con discrezione, che si tratta di un pregio delle edizioni classiche.
Alla sera, umiliata, lo racconta a letto a suo marito. Ricacciando le lacrime e guardando il chiarore della finestra, dice: «Io dovevo studiare», ma lui si è già addormentato.

Tre figli, due maschi e una femmina, tra il 1930 e il 1936. Alla fine degli anni ’40, sa già quale dei due, secondo la profezia della zingara, si eleverà molto: Paolo, il secondo, che eccelle sia in italiano sia in matematica.
La mattina del 6 maggio 1940, dopo un litigio con il marito, si inginocchierà davanti al figlio in un angolo del terrazzo, vicino ai vasi dei gerani, e abbracciandolo gli dirà commossa: «Ti prego, non deludermi». Nove anni dopo lui si diplomerà a pieni voti perito meccanico e alla fine della carriera dirigerà a Colico una agenzia di accessori d’auto. Invece Michele, il primogenito, farà il veterinario a Monza. Lei scoprirà solo nel 1959 che la profezia si riferiva alla figlia, vincitrice del Premio Scarlatti come solista di pianoforte.

Nell’estate del 1935 manda all’ingegner Vergani, di nuovo in villeggiatura all’Hotel Principe, un biglietto anonimo scritto dalla sua amica Fernanda, che lo invita a un appuntamento amoroso in piazza Stoppani.
Alle 19, ridendo dietro le persiane, lo vedono passeggiare in basso con aria distratta e soffermarsi a lungo davanti alle vetrine, le mani infilate nelle tasche della giacca coloniale. Alla sera, nel letto matrimoniale, si rannicchia nel suo angolo e si dà due volte l’unico piacere che conosce.

Nel 1941 il marito parte per il fronte greco. Potrebbe a causa dell’età ottenere l’esonero, ma lei non lo incoraggia, anzi – in una lettera appassionata che gli viene recapitata in banca di mattina – sottolinea, con la D e la P maiuscole, il Dovere verso la Patria.
Dal fronte lui le scrive tutti i giorni con la penna stilografica Watermann, dal serbatoio enorme, che lei gli ha regalato prima di partire. E lei lo conserverà nel portafoglio, sino alla fine della vita, il biglietto che lui le manda il giorno prima di morire:
«Faccio tutto per te che il mio tutto.»
Nei giorni che precedono l’arrivo della salma, la figlia la sente piangere da sola, a notte fonda, con gemiti che diventano sempre più prolungati. Nei manifesti a lutto per i funerali fa scrivere sotto il nome e il cognome «anima adamantina».

Il 21 maggio 1942 le viene riconosciuta la qualifica di “vedova di guerra” e, quattro mesi dopo, la pensione. Per mantenere i figli agli studi vende nel 1946 cinque ettari di terreno che suo padre aveva acquistato in località Madonna del Bosco, ma l’inflazione nel giro di due anni, come le spiega troppo tardi il mediatore, il ragionier Pozzi, di Calco, ha trasformato un chilometro in cinquecento metri.

Si decide a vendere anche la famosa macchina fotografica che le era stata regalata per le nozze dal gruppo teatrale Melpomene e che non aveva mai usato per non sciuparla. Due volte l’aveva mostrata ai figli, estraendola da una cassetta di acciaio e collocandola al centro del tavolo:
«Voi non sapete che macchina è questa.»
Poi aveva aggiunto, grave:
«È una Görtz.»
L’ottico di Lecco la esamina sorridendo:
«Sì, era una macchinetta molto diffusa nella Germania di prima della guerra. È una Görtz.»
Ritorna a Merate senza averla venduta.

Controlla dal 1955 la contabilità della ditta Cattaneo & Ciceri, rivedendo a mano i calcoli fatti a macchina e ogni volta scoprendo con orgoglio innumerevoli errori.
Nel 1962 tutti i suoi figli lavorano e contribuiscono con piccole quote al suo mantenimento. Può permettersi viaggi lunghi con la Pro Loco, anche se disdegna la conversazione con le sue coetanee, che giudica limitate. Dichiara di essere vecchia contando di essere smentita, ma trova sempre meno persone disposte a farlo. Smette di dirlo.

Chiede nel 1973 di essere ospitata a Villa Serena, sopra Mandello, di cui ha letto la pubblicità su un rotocalco. Non è una clinica né un ospizio, è una casa di riposo per anziani. Dice, dopo averla visitata:
«È meglio di un albergo.»

Ha portato con sé i piccoli classici della UTET, che colloca vicino al fondo napoleonico.
Prende il sole nel prato antistante le vetrate dell’ingresso, in una sedia a sdraio. Poi si sposta sotto un ombrellone bianco.
Nel corso di visite periodiche i figli scoprono come viene considerata: una attrice che aveva un grande futuro, ma che vi ha rinunciato per la famiglia. Il suo repertorio passato si ingrandisce misteriosamente. Vi entra un altro Niccodemi, insieme con un Giacosa e un Sabatino Lopez. Assiste alle commedie trasmesse in televisione e i suoi giudizi, ora severi ora indulgenti, sono tenuti in conto.
A sua figlia dice un sabato pomeriggio, mentre aspettano il cameriere sul prato, in una luce nebbiosa e calda.
«Il nonno non sarebbe stato malcontento di me.»
«Perché?» le chiede sua figlia.
«Così» sorride. «Perché ho ereditato i suoi sogni.»

Il 12 settembre 1978 legge il canto quinto dell’Inferno (“Paolo e Francesca nella immortalità della poesia”) agli ospiti riuniti nella sala conferenze.
La notte del 16 settembre sogna di recitare, al Politeama di Como, in Come le foglie di Giacosa. Gli applausi, a sipario calato, non cessano. «Che cosa succede?» chiede al regista nascosto dietro le quinte. Intanto si accascia.
Ictus cerebrale, diagnostica alla mattina il medico di Villa Serena, nel certificato di morte.

Tratto da Vite di uomini non illustri, Giuseppe Pontiggia
© 1993 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.






(n. 3, marzo 2023, anno XIII)