Antologia Giuseppe Pontiggia. Da «Il giardino delle Esperidi»

Il sole interiore

«Paradiso» è parola ciclica nel cosmo di Baudelaire.
Paradiso che fonda la storia degli uomini: e sarà il tempo delle origini, l’Eden, l’età dell’oro, «le epoche nude del mito».
E paradiso che fonda la storia degli individui: e sarà il tempo dell’infanzia, «il verde paradiso degli amori infantili», «l’innocente paradiso pieno di piaceri furtivi».
Manca invece la felicità perpetua dei paradisi futuri, quelli delle religioni.
Essi sono stati sostituiti dai paradisi del presente, da quei paradisi artificiali, il cui accesso è schiuso da due droghe, dall’hashish e dall’oppio.

Inizialmente Baudelaire, in un saggio del 1851, vi aveva incluso anche il vino, con i suoi «spettacoli illuminati dal sole interiore» e la sua capacità di rendere «buoni e socievoli»: ma nei Paradisi  artificiali, pubblicati nel 1860, lo aveva escluso, forse perché la «ubriachezza dei sobborghi» non poteva essere posta sullo stesso piano della ebbrezza solitaria e meditativa prodotta dalle droghe.
Il titolo, che diverrà espressione di uso comune, nasce da una esperienza profonda, che il libro trae alla superficie: da un lato la sensazione  di infinito accrescimento delle facoltà vitali, di superamento dell’umano, di estasi, evocata  dalla parola «paradiso»; dall’altro la consapevolezza dei limiti di tale esperienza evocata dall’aggettivo «artificiali»: quasi che i significati originari della parola «paradiso», spazio di perfezione delimitato e chiuso, separato dalla caducità e dalla morte, venissero calati nel corso dell’esistenza e resi totalmente umani.

Il «viaggio» descritto da Baudelaire non attraversa i cieli della mistica, ma neanche si addentra tra le quinte cangianti dell’estetica: è piuttosto una conoscenza intensificata dei poteri interiori, una rivelazione dell’individuo a se stesso, «elevato a una potenza cubica».

Ma proprio qui si annida il peccato della superbia, il germe di quello spirito satanico che, sapendo di avere giocato «un gioco proibito», lo trasforma in una sfida mortale.
Ed è qui che si manifesta il sentimento religioso e cristiano di Baudelaire: nella sua nozione del peccato quale violazione di un ordine naturale originario e nella sua percezione di un inferno che, anziché attendere i dannati nell’oltretomba, li perseguita, con il suo fuoco interiore, su questa terra.

Rileggere Baudelaire dopo De Quincey, da lui chiosato con deformazione cristallina nella seconda parte del volume, e prima degli scrittori che hanno proseguito questo viaggio, significa meglio individuarne l’originalità: siamo lontani dalla «metafisica sperimentale» di Daumal o dalle allucinazioni visionarie di Michaux, dalle elaborazioni di universi formali e fantastici di Benjamin come dagli sfaceli creativi di Benn o dalle mutazioni esistenziali di Burroughs.
Si  tratta invece, nel caso di Baudelaire, di uno spazio etico, di una amplificazione di sé ugualmente attratta sia dal rimorso, quale «ingrediente del piacere», sia dal culto sempre inosservato delvolere, «la più preziosa di tutte le facoltà». E in questa prospettiva ci appare stranamente malinconico – come un presagio – quello che ci dice Baudelaire:
«Ogni uomo che non accetta le condizioni della vita vende l’anima.»

[1978]


La vita «come se»

Un titolo che mi ha sempre affascinato è La filosofia del «come se», di Hans Vaihinger. Dico un titolo perché, fino a pochi anni fa, per me non era altro.
Sapevo sull’autore, un pensatore tedesco del secondo Ottocento, quello che ne dicevano le storie della filosofia.
Ma tra l’avvicinare un autore su un manuale e l’incontrarlo sulle sue pagine c’è la stessa differenza che seguire un itinerario su una carta geografica e percorrerlo a piedi.

Il titolo invece continuava ad agire.
Mi riaffiorava alla memoria nelle circostanze più diverse, favoriva le associazioni, stimolava la fantasia.
Savinio ha scritto che quasi sempre il titolo «contiene il meglio e il più significativo dell’opera» e ne trovava un esempio nel titolo di Ibsen Quando noi morti ci destiamo.
E non stupisce che al titolo – per aprire una breve parentesi – oggi si dedichino cure particolari, che un tempo, quando la cultura non era una industria, sarebbero state impensabili.
Allora i titoli facevano veramente corpo con l’opera e ne preannunciavano  la struttura complessa con un enunciato semplice, di una linearità enigmatica, come I sette contro Tebe, Edipo a Colono, Commedia.
Oggi i titoli tendono generalmente a svelare molto, a volte tutto, e a volte anche di più: dilagano come l’acqua su un terreno che la prosciuga, ma lo spazio che guadagnano in superficie lo perdono in profondità. E mentre i titoli semplici rinviavano la enigmaticità al testo, che alla fine la riverberava anche su di loro, questi la anticipano, nel timore, spesso giustificato, che poi manchi.

Una cultura intimamente pubblicitaria quale la nostra direi che tende fatalmente a valorizzare il titolo, abituata com’è a scambiare il mistero con il misterioso, il fascino con l’affascinante, l’indicibile con quella incomunicabilità di cui si parla: che è poi una tendenza a sostituire i nomi con gli aggettivi, le persone con le funzioni, i fatti con le spiegazioni.

Il libro di Vaihinger, con il suo titolo preciso e insieme suggestivo, costituisce, almeno per me, un caso singolare.
Il testo mi è parso infatti deludente, ma per una ragione inconsueta: il suo limite non è di restare al di qua del titolo, ma di non oltrepassarlo.
Non bara, questo è vero, ma non sorprende.
Sviluppa in modo sistematico il tema del titolo e lo ingigantisce, come il braccio di un pantografo, che riproduce perfettamente, su scala modificata, un disegno: ma non vi aggiunge niente.

Naturalmente questa è una parziale esagerazione rispetto al libro.
Vaihinger amplia l’orizzonte quando cerca di dimostrare come tutta la costruzione del pensiero umano sia fondata su finzioni valide solo in quanto utili, capaci cioè di promuovere e di intensificare la vita; a questa condizione l’uomo dovrebbe accettarle «come se» fossero vere, mentre sarebbero semplicemente schemi orientativi, spesso contraddittori, elaborati per esigenze biologiche di adattamento e di sopravvivenza.
Questa singolare conciliazione di Kant, Nietzsche e Darwin, questa sintesi di criticismo, vitalismo e pragmatismo conserva tuttora una sua attualità nell'’ambito delle  ricerche sulla natura del conoscere.
Però la dirnostraz1one, se confrontata alla genialità del titolo risulta, alla lettera, piuttosto opaca e scolastica
Manca quel pathos del pensiero che rende memorabile un’opera filosofica. E manca anche quell’energia concentrata e vivificante che chiamiamo stile.

In definitiva, per ritrovare le associazioni fantastiche che il titolo mi aveva suggerito, dovevo in parte rimuovere l’impressione del testo.
Riemergeva allora intatta, con le sue infinite implicazioni e variazioni, l’idea centrale: che per me era sempre stata quella di una vita ipotetica, immaginaria, che corre parallela alla vita quotidiana e finisce non solo per sovrapporsi a essa, ma per sostituirla.
Noi viviamo «come se» la nostra vita fosse un’altra, «come se» la nostra condizione e il nostro destino fossero diversi da quello che sono.

E non parlo solo delle illusioni a occhi aperti, quelle dei bambini che agiscono «come se» fossero adulti o degli anziani che agiscono «come se» fossero giovani. Ma parlo di illusioni più occulte e tenaci, di rapporti che durano tutta la vita «come se» non fossero morti, di fraintendimenti che rimandano  alla eternità  il loro chiarimento.
Non sono per uno scioglimento indiscriminato degli equivoci: so bene che ci evitano risvegli troppo bruschi e che su di essi si fondano unioni esemplari.                                                           
Non per altro uno dei temi più atroci, nella narrativa dell’Ottocento, era la scoperta, post mortem, che il coniuge tradiva, come testimoniavano le lettere ritrovate in un cassetto: il  problema più arduo, in questi casi, non era di accettare retrospettivamente il coniuge, ormai defunto, quanto la propria vita vissuta «come se» il coniuge fosse stato fedele.
Comunque se si fosse più consapevoli di questo vivere ipotetico, dove non e più l‘ombra che ci segue, ma siamo noi a seguirla, forse certe delusioni ci verrebbero risparmiate.

Le più frequenti ricorrono in campo pedagogico: adulti che ammaestrano i giovani «come se» credessero a quanto dicono, mentre pensano il contrario.
L’effetto è sicuro.
L'inefficacia, anzi la pericolosità, di troppi educatori non è infatti provocata dalla noia che suscitano, ma dalla  falsità che rivelano.
Secondo Jung, nel potere magico delle parole non credono solo i sopravvissuti della preistoria, ma i genitori quando ripetono ai figli litanie che suppongono formative ed eludono l’unica forma di insegnamento che sia  efficace: l’esempio.
Fatale che, stando così le cose, un pedagogista americano abbia detto:
«Volete fare qualcosa di più per i vostri figli? Fate qualcosa di meno.»

Anche nel campo del gusto, un tempo minuscola riserva di cacce individuali, le reazioni «come se» hanno finito per prevalere.
Si dichiara per tanti libri un consenso immaginario, «come se» piacessero.
Ma non penso ai casi più imbarazzanti di adulazione o di connivenza, dove la simulazione, per essere più persuasiva e crearsi insieme un alibi, finisce per convincersi di essere sincerità.
Penso a un ingannarsi più sottile, indotto da  pigrizia, acquiescenza, amicizia, banalità dei confronti: diventato talmente costume che, quando un libro piace veramente, non si sa più quali parole usare, si disseminano nella frase attoniti ‘sinceramente’ o contriti ‘onestamente’, che evocano solo il loro contrario.
Se l’analisi del linguaggio valesse in tribunale, chi usa questi avverbi non dovrebbe essere considerato troppo attendibile.
L’aspetto più sconcertante di questa droga linguistica non è lo spazio che vi occupa la pubblicità o l’interesse, ma la buona fede.                  
Si vivono esperienze banali «come se» fossero straordinarie.
E allo stesso modo che, in un disegno di Novello, un branco di visitatori in un museo si inebria, per un errore di catalogo, alla vista di un quadro mediocre (il vero Raffaello era nella sala successiva), così ci illudiamo di emozionarci «come se» ci emozionassimo.   

Vivere «come se» sembra però, per certi aspetti, una necessità biologica.
Pare che non potremmo sopportare l’idea della morte, se non intervenissero poderosi e automatici meccanismi di rimozione. Siamo tutti condannati, ma consideriamo tali, con orrore, solo una sfortunata categoria di persone.
Viviamo «come se» non dovessimo che vivere: che è il modo moderno di prepararsi alla morte.

[1980]


tratto da Il giardino delle Esperidi, di Giuseppe Pontiggia
© 2005 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.







(n. 5, maggio 2023, anno XIII)