Antologia Giuseppe Pontiggia. Da «Scoprendo Pareto»

Croce è stato il padre adottivo di tanti orfani culturali, che hanno trovato in lui una autorità sognata. È un fenomeno ricorrente, anche se oggi in forme più dimesse. Pennac è diventato popolare da quando ha liberato i lettori dalla coazione a finire un libro già cominciato. Potevano arrivarci da soli, ma evidentemente era più arduo. Avevano bisogno di una assoluzione.
Con una strumentazione, riconosciamolo, più solida, Croce è stato una guida persino nelle distrazioni, nelle trasgressioni e nelle licenze-premio. Ha liberato da ogni vergogna i lettori clandestini di Dumas. Non dimentichiamo che in quegli anni il Lanson liquidava un altro genio, come Verne, con un unico vocabolo: “poligrafo”. Croce invece giudicava “condotti con grande brio e spigliatezza” I tre moschettieri. E aggiungeva intrepido, senza il sospetto di anticipare di qualche decennio l’interesse, tra Avanguardia e Accademia, per le forme espressive più popolari: “Ancora molti li leggono e li godono senza nessuna offesa della poesia, ma nascondono in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti; ed è bene incoraggiarli a deporre la falsa vergogna e il congiunto imbarazzo”.
È vero che oggi la curiosità sta diventando culto. E che la Letteratura viene spesso posposta alla Paraletteratura. Croce, attento come nessun altro alle distinzioni, non avrebbe applaudito alla promiscuità o meglio alla confusione dei valori. Ma certo ha favorito il confronto e caldeggiato, sia pure nei suoi modi sornionamente cordiali, l’incontro.
A lui, che del resto si rifaceva agli antichi e definiva la Retorica come Teoria della Letteratura, lo statuto moderno dello scrittore dovrebbe molto; se solo non fosse ancora un progetto aleatorio, insidiato dalle usurpazioni del mercato, dai millantati crediti e dalle timorose quanto temibili delimitazioni di campo.
Uno scrittore, anche se deve commentare un classico, interroga le emozioni, moltiplica gli azzardi, dilata gli spazi. Non delimita il campo, lo ingrandisce, lo porta ai confini dell’universo ovvero di se stesso. Spesso chiosa in modo apparentemente antitetico ciò che dice. Fa il canto e insieme il controcanto. Nega con il disegno, afferma con il colore. Mentre esplora un mondo, ne abita altri possibili, ne inventa altri paralleli. Non è un passaporto diplomatico per la irresponsabilità, ma il riconoscimento della sua responsabilità più personale e più fraintesa.
Questo aspetto lo si coglie, nella sua angolazione più vertiginosa, soprattutto in poesia, dove il messaggio dei suoni, della musica e delle immagini è spesso contraddetto dall’equivoco non della parola, ma della lettera. Mi limiterò a un esempio tipico, non scalfito dai secoli. Milioni di studenti, accuditi da insegnanti arrendevoli alle ingiunzioni stesse del poeta, paventano e amano in Leopardi il cantore del dolore e della negazione. Eppure mai la giovinezza, la felicità, il paesaggio hanno suscitato accenti così delicati e teneri, così vibranti e potenti. Quale paradiso ci potrà mai schiudere “le vie dorate e gli orti”? Quando si leggerà Leopardi nella dimensione in cui lui stesso scopriva, in una nota dello Zibaldone, il significato dell’arte, quello di un “accrescimento di vitalità”? Non è forse essenziale questa funzione, etica e antropologica?
Gli artisti hanno legittimamente aspirato, tranne che non gliene venisse danno, a essere presi alla lettera. Ma la lettera li smentisce, quando si illudono di affidarle un messaggio univoco. Quello che asserisce il significato, lo corregge la scansione. E quello che evoca l’immagine, le parole non possono cancellarlo. È il sapere caleidoscopico dell’arte, tanto più centrifugo quanto più si tenta di chiuderlo nell’ottica di un cannocchiale alla rovescia.
Se nella poesia questo aspetto riluce in modo accecante, tanto che gli esegeti vi sono spesso ciechi, nella prosa è presente in forme più sotterranee, ma non meno decisive per trasformare un prosatore in uno scrittore e per moltiplicare e confondere i segni del suo messaggio. Alla assenza di ogni speranza in Cioran è difficile credere, se si scruta controluce la filigrana araldica del suo stile. Roger Caillois, in una intervista del 1978 a Héctor Bianciotti e a Jean-Paul Enthoven, confessava di maneggiare ogni parola “con una cura filatelica”: immagine amorevole e ammirevole di una dedizione che può essere posta al servizio di tutto fuorché della disperazione, anche se contemporaneamente la dichiara. Così il messaggio di Cioran diventa un corroborante della speranza più che un incentivo della disperazione. E lui, cultore dello stile, era il primo a saperlo.
Non so se in Pareto questa consapevolezza di scrittore fosse altrettanto operante. Il furor mathematicus della ricerca gli appariva la stella polare del suo razionalismo. Ma la parola si ribella alla sua eclissi e – ogni volta che riappare sullo sfondo geometrico dei diagrammi – nutre di un pathos veemente e amaro le argomentazioni di Pareto, la sua lotta grandiosa contro le azioni non-logiche degli uomini, legittimate dalle ideologie e condannate dalla storia.
La scienza, arroccata nella logica dei dati e nel controllo dei percorsi, gli si offre come l’unica salvezza contro la credulità degli uomini e la loro resa agli impulsi mascherati da idee. Ma la salvezza non è meno visionaria, meno utopica e astorica, meno sottratta al ricatto segreto delle passioni.
Il suo miraggio di una neutralità oggettiva, anche se generoso e liberatorio, soffre a sua volta (almeno quanto ne vive) di un pathos speculativo che la smentisce nel momento stesso in cui la formula; tradisce i limiti storici della cornice positivistica; e la colora di inflessioni ironiche e sarcastiche che rivelano, più che la imperturbabilità della scienza, i turbamenti dello scienziato; e per questa via contribuisce a trasformarla nella prosa di uno scrittore.


tratto da Il residence delle ombre cinesi, di Giuseppe Pontiggia
© 2004 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
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Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.







(n. 10, ottobre 2023, anno XIII)