Antologia Giuseppe Pontiggia. Da «La lotta di Manzoni e l’Anonimo»

Nella prima stesura del romanzo, intitolato allora Fermo e Lucia, del 1821-23, l’Anonimo era trattato all’inizio con un rispetto di cui il narratore ha poi cancellato con cura ogni traccia. La frase d’avvio che gli viene attribuita e che introduce sia il suo racconto sia il romanzo che ne deriva, potrebbe figurare degnamente sotto la paternità ufficiale di Manzoni:
«La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte.»
E il seguito non perde, almeno nelle prime battute, questa sua gravità funebre e visionaria:
«Perché richiamando dal sepolcro gli anni già incadaveriti, li passa di nuovo in rassegna, e li ordina di nuovo in battaglia…»
Ammiriamo invece, nella versione ultima, quella del 1840-42, il tentativo, felicemente riuscito, di peggiorare il testo:
«L’Historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglie.»
Basta paragonare la tragicità della Morte alla impersonalità del Tempo oppure il tenebroso sepolcro degli anni al gesto fatalmente imbarazzante di toglierli di mano oppure lo splendore luttuoso di «già incadaveriti» – all’aggiunta, che è poi una sottrazione espressiva, di «prigionieri», per capire come Manzoni abbia coscienziosamente agito per impoverire il suo autore. Pensare a una correzione casuale sarebbe ancora una volta provvedere un artista di quella ottusità che di solito si addice a chi gliela attribuisce. E pensare a uno scopo funzionale, di contrapporre il testo del romanzo a quello dell’Anonimo, non sposta i termini del problema, anzi li fissa. Siamo però talmente abituati non solo a cercare le cause, ma a trovarle, che una ricapitolazione verbale già ci appaga.
Rimane invece strano che una immagine riuscita ceda volontariamente il posto a una sgraziata. È vero che il nemico più strenuo l’abbiamo in noi. E che siamo maestri non tanto nell’affrontarlo, quanto nell’eluderlo. Ma l’arte, proprio rispetto alle tensioni, è un temporaneo equilibrio, una resa senza sconfitta, una vittoria in pace.
E poi nella economia di un artista ricorre spesso, celata sotto altri nomi, una contabilità discreta. È di tutti provare qualche rammarico a cancellare quello che si è scritto, anche se si capisce che è cattivo. Non è di tutti cancellare quello che si è scritto, quando si capisce che è buono. Nonostante le spavalderie incaute e le certezze esibite per rassicurare se stessi, lo scrivere resta talmente una avventura, che quando si conclude in un porto non è mai la fine di una crociera, ma lo scampo da un naufragio. E dà tale sollievo avere scelto parole di cui non dubitare, che semmai tendiamo a replicarle, non a espungerle. Si cercano motivazioni misteriose dietro le autocitazioni di Virgilio, che «ricupera», come si direbbe oggi, versi di sue opere precedenti, ma si dimentica che il plagio di se stessi può essere il modo più riposante di lottare.
Invece Manzoni, con ambiguo coraggio, persevera in una tenace autolesione. Non a caso i lettori dei Promessi Sposi ricordano generalmente l’Anonimo come una figura sfocata. O meglio, non lo ricordano affatto come personaggio, ricordano solo brandelli di prosa artificiosa:
«Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde stagione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà i loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter
Ma leggiamo il periodo nella prima versione:
«Narrando adunque come fedele spettatore li accidenti singolari da me osservati, tacerò per degni rispetti molti nomi di personaggi e di luoghi che potrebbero servire come di indizio e di guida a trovare i personaggi nel covile oscuro della dimenticanza.»
Qui il tono è pacato e persuasivo. E una espressione come «covile oscuro della dimenticanza» è di quelle che non si dimenticano. Il contrario di quello che voleva Manzoni, che non ha esitato a sopprimerla.
Sembra che Manzoni tema la sua controfigura. In fondo l’autore della storia è un altro. Che l’abbia creato lui non semplifica il problema. Il rapporto di un narratore con i personaggi non è molto diverso da quello con le persone: rapporto spesso ambiguo, complesso, inafferrabile. Strano non è il fenomeno, ma lo stupore che suscita. Sarebbe come meravigliarsi che un padre non si riconosca nel figlio: quasi mai un padre si riconosce nel figlio. Se gli accade è solo una illusione temporanea. E la meta che viene assegnata al figlio, di prendere le distanze, riguarda in misura non minore, anche se diversa, il padre.
L’autore anonimo, da cui il narratore attingerebbe la storia, era all’epoca di Manzoni un artificio romanzesco comune. Ma non c’è niente di comune, in Manzoni. E quanto al romanzesco, la sua riflessione si esercitò nel corso di una intera vita a scoprirne gli aspetti legittimi e positivi e a scartarne quelli banali e fuorvianti. Perciò in lui l’artificio diventa problematico, non è più una soluzione, ma una incognita, non è più una risposta, ma una domanda.
Nella prima stesura l’Anonimo non è ancora un personaggio da schiacciare sotto il peso più temibile, quello del ridicolo, ma un autore da cui il narratore del romanzo deve distanziarsi. Quanto a Manzoni, non è né l’uno né l’altro. Che alcuni lo scambino per il narratore è il segno di un pregiudizio realistico abbastanza diffuso: quello che inquieta l’esordiente, quando paventa che i lettori lo riconoscano nel protagonista. È una paura che supererà al secondo romanzo: non perché si sarà convinto che l’equivoco è superato, ma perché lo accetterà.


tratto da L'isola volante, di Giuseppe Pontiggia
© 1886 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
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Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.







(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)