Eugen Uricaru e il suo romanzo «Il peso di un angelo»

Cât ar cântări un înger, pubblicato nel 2008, è il dodicesimo romanzo di Eugen Uricaru, il secondo di un ciclo di cinque, iniziato nel 2006, con Supunerea, e chiuso da Permafrost, nel 2017, dopo Plan de rezervă e Beniamin, ch’erano seguiti, rispettivamente, nel 2011 e nel 2014.
La traduzione in italiano fu proposta allo scrivente dall’editore Livio Muci, che l’ha poi pubblicata, nel 2021, col titolo Il peso di un angelo, per il catalogo Besamuci. Nel 2018, il romanzo aveva vinto il premio internazionale della Fondazione «Balkanika», il più importante riconoscimento di cui possa fregiarsi un’opera letteraria del Sud-Est europeo. Al di là del riconoscimento tributatogli, si tratta, tuttavia, di un romanzo necessario in sé, per chi voglia comprendere la storia della Romania dall’ultimo dopoguerra e non solo.

Ambientato nel 1964, alla vigilia della grande amnistia di detenuti politici che farà da spartiacque tra l’ossessionante «comunistizzazione» del paese e il «comunismo dal volto umano», Cât ar cântări un înger è soprattutto un romanzo sulla permanenza del passato, i cui spettri sembrano costituire l’unica resistenza all’assurdità del presente, alla sua vana quanto feroce bramosia di futuro. Uricaru fotografa uno snodo cruciale nella storia romena del ’900 e lo fa da par suo, intrecciando il grande ingranaggio della Storia (i trasformismi e le sempiterne lotte all’interno del Partito) con le vicende emblematiche di un campionario di quegli «spettri», cioè di veri e propri «vinti», votati alla marginalità se non all’invisibilità. L’angelo del titolo è l’emblema oltre che il custode di queste anime sopravvissute a sé stesse, esuli in un mondo a cui da tempo hanno smesso di appartenere e che proprio per questo, non avendo più nulla di materiale (da perdere), risultano tanto più irriducibilmente invise al potere. Il peso dell’angelo è non solo, forse non tanto, l’altra faccia ma la materia oscura della Storia: l’anonimo, il liminare, l’imponderabile, che sfugge da sempre alla storiografia quanto più essa si fa strumento del potere e della sua retorica, dimentica dell’Uomo. Quello di Uricaru, tuttavia, non è qualunquismo. In questo dar peso all’imponderabile c’è sì un rovesciamento di prospettiva – tipico dei suoi romanzi – tra il centro e i margini del «grande palcoscenico della Storia», che però può realizzarsi solo come riscatto di un’umanità e di un’individualità negata, come restituzione di un senso.
Semplificando, si può dire che il romanzo intrecci almeno tre storie o linee di racconto diverse, in un continuo andirivieni attraverso il tempo e lo spazio.

 

Prima storia

La prima storia ha per protagonista Basarab Zapa, l’angelo del titolo. Uricaru stesso ha definito Cât ar cântări un înger «un debito» verso Basarab, «una persona straordinaria, che ho conosciuto da bambino e ha molto influenzato la mia vita» (altri non è che «il vecchio del Castello», di Vladia). Nato in Bucovina, quando questa era l’estrema provincia orientale dell’impero austro-ungarico, Basarab si laurea ingegnere al Politecnico di Vienna. Allo scoppio della Grande Guerra, sarà arruolato nei reparti del genio del real-imperiale esercito per le sue competenze di topografo. E sarà per queste competenze che i russi, avendolo preso prigioniero in Galizia e spedito in Asia Centrale, gli offriranno di partecipare a una spedizione geografica. Sull’altipiano del Panshir, riesce a fuggire e si ritrova in Tibet. Qui sarà accolto da alcuni monaci in una lamaseria e apprenderà i segreti del misticismo tibetano. Tornato in patria, fa l’errore di parlarne in una lettera al celebre esploratore tedesco Sven Hedin, col quale è entrato in corrispondenza. La Gestapo intercetta le sue lettere – la Germania, nel frattempo, è diventata nazista – e cerca di coinvolgerlo in una spedizione dell’Ahnenerbe in Tibet. In un primo tempo lui accetta, va a Berlino, ma poi capisce quali sono i reali scopi della spedizione e fa perdere le sue tracce. Lo ritroviamo, alla fine della Seconda guerra mondiale, prima in Bucovina, poi in Banato, all’estremità opposta della Romania, fra i tanti che fuggono all’avanzare del fronte e dell’Armata Rossa. Inizia così a vivere da ‘invisibile’, riuscendo per anni a sottrarsi al nuovo ordine comunista. Vivrà di poco, sempre ai margini, facendo lavori minimi e fantasiosi, nella paura e nell’attesa dell’inevitabile arresto…

«Prima si sarebbe sentito il suono secco delle portiere, quasi un minaccioso risuonar di schiaffi, poi lo scricchiolio dei gradini di legno sotto il peso dei passi. Ci avrebbero messo un po’, a salire. Non che il loro incedere fosse furtivo, anzi, lo si sarebbe detto piuttosto greve e faticoso. E in effetti avrebbero avuto il fiato grosso, quello di chi, invece d’inseguire malfattori per strade e colline, se ne sta al chiuso di stanze male illuminate, nel tanfo di umidità, tabacco e sudore rancido, sudore di noia e frustrazione, non di caldo, men che meno di sole. Poi avrebbe avvertito la loro presenza davanti alla sua porta e in quel preciso momento la paura l’avrebbe abbandonato. Da quel momento, non avrebbe avuto più paura. Fino ad allora, sì che ne avrebbe avuta ma dopo no, non più. Sarebbe persino andato ad aprire, prima che bussassero, a modo loro, picchiando sulla porta cogli stivali, coi pugni, col calcio dell’arma».
(L’attesa di Basarab, incipit, p. 7)

«All’inizio, più che cambiare vita cambiò modo di nascondersi. … Un fotografo ambulante viene visto e notato da tutti ma a nessuno importa chi sia in realtà. Restavano le fotografie soltanto ma le fotografie, “i ritratti”, riguardavano chi se le faceva fare, il fotografo che le aveva fatte non c’entrava nulla. Si faceva dare un acconto, metà del prezzo, e il resto alla consegna. Se fosse accaduto o che non trovasse più il cliente o che questi non volesse più portare a termine la transazione per qualunque motivo – perché non aveva i soldi o perché aveva cambiato idea – non ne aveva danno né guadagno. L’anticipo bastava, in ogni caso, a coprire le sue modeste spese. Non aveva da mangiare, è vero, ma non aveva nemmeno debiti. Nella sua condizione, di chi vuole attraversare il mondo come un’ombra, visto ma subito dimenticato, avere debiti significava mettersi da solo la fune al collo. Di fame non era mai morto nessuno in Romania, di debiti sì».
(Basarab diventa fotografo ambulante, p. 140)

 

Seconda storia

La seconda storia ha per protagonisti Petra Maier e suo figlio Cezar. Già protagonista di Supunerea (La sottomissione, Mimesis 2019, trad. it. Irma Carannante), Petra è stata deportata per caso dai sovietici in Siberia, subito dopo la guerra. Rispedita in Romania perché incinta, sopravvive, facendo i lavori più umili, solo per il figlio. Cezar è uno ragazzo solitario, al quale la madre per prima attribuisce misteriosi poteri divinatori. Egli è noto per i suoi vaticini, che suonano il più delle volte come sinistri anatemi, ma solo sua madre è a conoscenza del suo segreto: i viaggi extra-corporei, le «assenze», che a tutti gli altri sembrano semplici svenimenti. Solo sua madre e Basarab Zapa. Petra e Cezar hanno trovato, infatti, nel vecchio Basarab – che vive nella soffitta-piccionaia della loro casa – un protettore e l’unico vero amico.

«– Cezar ha avuto una grande fortuna con Basarab – disse una volta Petra –, non ha bisogno d’altro, qualunque ragazzo può avere un padre, un padre qualunque, Cezar ha la fortuna di avere Basarab. Sai – e per la prima volta lo toccò sulla mano con le dita sottili, come di cera – Cezar ha un protettore, un angelo custode.
Non era chiaro che cosa volesse dire ma una cosa era certa, se dietro Petra Maier si trovava Cezar, al di là, forse al di sopra doveva trovarsi questo Basarab, il cercatore di bottiglie vuote».
(Petra, Cezar e Basarab, p. 59)

«Era convinto di poter contare sulle dita delle due mani quelli che sapevano della sua esistenza, sulle dita di una mano sola quelli che sapevano dove viveva. Petra Maier e suo figlio. La securista che stava prima al pian terreno, sola in tutta la casa, si era uccisa, era morta da sola. Aveva una pistola e l’aveva usata. L’avevano visto alcune volte ancora – quando Cezar era stato male e lui era sceso, contravvenendo a tutte le regole –, la vicina e qualche pensionato attratti dal vocio, ché ogni volta c’era qualcuno che chiedeva aiuto urlando anche se non era necessario, perché lui era là e non avrebbe mai permesso che il ragazzo morisse. Era il solo suo amico. Un amico più piccolo ma con un’anima molto più grande, più grande della sua. Indubbiamente, lui sapeva più cose, molte più cose vere, ma Cezar, ragazzino com’era, era capace di donarne e distribuirne a tutti. Lui, invece, sia che non potesse, sia che non volesse – così stavano le cose –, non aveva né modo né ragione di dare. Aveva cercato solo d’istruire il piccolo, che però non teneva nulla per sé, dissipava ogni cosa senza alcun criterio apparente. Forse era per questo che spaventava la gente. A spaventare chi gli stava vicino, la mamma e i pochi vicini – certo non lui, l’amico più grande – erano i suoi “viaggi”, cioè quei mancamenti che aveva, sempre più frequenti e più lunghi. Lui non ne era spaventato perché, in un certo senso, erano “il loro segreto”. Cezar perdeva i sensi per chi gli stava intorno ma per lui viaggiava, fluttuava per la stanza o per le strade. Sospettava che quei “viaggi” iniziassero a piacergli un po’ troppo, tardava a tornare e quando tornava, all’inizio rinveniva da solo, poi aveva dovuto intervenire lui, in modo sempre più energico, ma quando rinveniva aveva un’espressione strana, come se gli dispiacesse. Si guardava intorno e non capivi se gli dispiacesse perché era tornato troppo presto o perché tutti coloro che erano stretti intorno a lui, veramente spaventati, non avevano mai viaggiato con lui. Aveva raccontato a Cezar del suo viaggio in Tibet e il ragazzo a lui di quando si librava sulle loro teste e di com’erano Peta e il mondo da lassù. Certo, lui non gli diceva tutto e nemmeno il figlio di Petra Maier glielo diceva.
Si vedevano sempre dopo che tutti gli altri erano andati a letto. Saliva piano piano la scala di legno, era fortunato che a Peta pioveva abbastanza spesso e i gradini erano sempre umidi, sicché non scricchiolavano pur essendo vecchi, vecchissimi. La porta era aperta, si accorgeva che il ragazzo stava arrivando grazie ai piccioni, che tubavano cupi e sbattevano le ali quando – loro soli – lo sentivano passare. Non si spaventavano, lo avvertivano, nient’altro. Pensò che, in realtà, tale fosse lo scopo dei piccioni: avvertire. Dal canto suo, lui si rallegrava, ogni volta, che Cezar veniva a trovarlo nella sua stanzetta sulla torre, come ci si rallegra di una buona notizia. Talvolta se ne stava al buio, dietro la finestra, in attesa che i piccioni sbattessero le loro ali».
(Basarab e Cezar, pp. 94-5)

 

Terza storia

Infine, la terza storia ha per protagonisti l’ufficiale della Securitate in incognito Neculai Crăciun e Todor Grancea, suo capo e mandante. Grancea è un potente uomo di partito, che si appresta a raggiungere il vertice proprio grazie al nuovo corso del comunismo «dal volto umano». Deve però prima «ripulire il suo passato», che di «umano» sembra aver avuto ben poco. A tal fine, spedisce Crăciun, il suo uomo di fiducia, nella cittadina del Banato da dove iniziò la sua folgorante ascesa nel Partito. Il securista, uomo senza età e senza scrupoli, riceve una lista di nomi, tra i quali spicca quello di un’oscura donna delle pulizie, ex-deportata in Siberia. È così che i mutamenti in atto a Bucarest investono le vite di Petra, Cezar e Basarab. Crăciun conosce il potere anche meglio di Grancea e sa bene quanto sia rischiosa la fiducia del suo capo. Inizia a investigare e capisce subito che quella donna «grigia e anonima» potrebbe essere la chiave della sua missione. Tuttavia capisce anche un’altra cosa: il potere che gli sta dando mano libera ha già «ucciso» Petra Maier anni prima e questo la rende invulnerabile. L’unico modo per controllarla e scoprire che cosa sa è legarsi a lei e alla sua ragione di vita: Cezar. Quando scopre che Basarab esercita sui suoi obiettivi un misterioso ascendente, che gli è d’ostacolo, lo fa arrestare senza motivo (sarà forse l’ultimo arresto illegale da imputare ai «vecchi metodi»). Il violento interrogatorio svelerà il vero volto di un potere che muta per non mutare e odia non riconoscersi negli spettri che ha creato.

«L’incontro con Petra Maier, una delle poche persone che facevano parte del passato di Grancea, non fu affatto complicato e non parve presentare alcun rischio, né per lui né per Grancea. Malgrado ciò, un senso speciale, che rendeva particolarmente adatti, quelli come lui, al lavoro nell’Istituzione, un sensore estremamente fine, gli diceva che ad attenderlo c’era un esame difficile e se fosse riuscito a superarlo, avrebbe passato indenne anche la trappola che, senza alcun dubbio, Todor Grancea aveva preparato per lui alla fine della sua missione. Non che fosse il compagno Grancea a volergli fare una sorpresa del genere, questa era la regola: niente di personale. ... L’esame che lo attendeva non somigliava a niente di quello che aveva già sperimentato nella sua carriera. La difficoltà, in questo caso, non consisteva nel trovare la risposta a delle domande ma nel capire la domanda. Se l’avesse capito, avrebbe capito, a un tempo, che cosa stesse succedendo e allora avrebbe saputo, sarebbe arrivata l’illuminazione. L’uomo che sa non può perdere. Nel peggiore dei casi, perderà senza restarci troppo male. Ci sono guerre in cui si guadagna più da sconfitti che da vincitori. Ma non era questo il caso. In realtà, Neculai Crăciun doveva solo capire chi o che cosa opprimesse quella donna sbiadita, anonima, a volte così priva di vitalità da sembrare più una pianta che un essere a sangue caldo. Com’era possibile che gli scappasse tra le dita, che sfuggisse al suo sguardo, quel suo famoso modo si scrutarti, che sembrava poterti frugare dentro e ridurti in ginocchio persino senza che tu piegassi le ginocchia?»
(Neculai Crăciun e i rischi del mestiere, p. 43)

«Che interesse poteva avere per una donna più scialba che semplice? Sapeva che aveva finito il liceo ma non aveva preso il diploma perché una pattuglia sovietica l’aveva prelevata “per fare numero” e spedirla direttamente in Siberia. Ne era tornata incinta ma non era morta, come ci si poteva aspettare. Fu allora, dopo il suo ritorno, che aveva conosciuto Todor Grancea. Lei era la donna di servizio quando la sede non era che una stanza – le pareti imbiancate a calce e il pavimento strofinato col petrolio. “L’aveva conosciuto” per modo di dire. In realtà, il compagno Grancea a stento si era reso conto che quella donna esistesse. Lei lavava i pavimenti e loro parlavano, macchinavano, scrivevano manifesti e lettere minatorie o ricattatorie, facevano politica. Una politica di altra natura, che non troppo somigliava a quella che si era fatta fino ad allora in terra rumena. Forse solo i legionari avevano osato violare tante regole e leggi della lotta per il potere ma quelli come Grancea erano molto più forti, più indifferenti verso le conseguenze dei propri atti perché avevano alle spalle una guerra persa da nemici e un esercito di occupazione pronto a dichiararli vincitori comunque. Neculai Crăciun aveva compreso che, a quel tempo, Todor Grancea non avrebbe dato due soldi né per Petra Maier né per il ricordo di quei fatti e quanto alle conseguenze, erano importanti ma solo se avessero inciso sulla realizzazione del piano successivo, quello che avrebbe portato al potere lui e il suo partito. Al potere a Peta, a Timişoara, a Bucarest e dappertutto. Allora non aveva dato due soldi. Adesso avrebbe dato due anni di vita, altrimenti non avrebbe violato ogni regola per chiamarlo e dirgli:
– Vecchio mio – questo era segno di massima fiducia – mio caro Crăciun, va’ a Peta e fa’ pulizia. Chiaro?»
(La missione di Neculai Crăciun, pp. 47-8)








Giuseppe Stabile
(n. 5, maggio 2022, anno XII)