Uno spirito rinascimentale del Novecento

Vent’anni fa, il 18 gennaio del 1999, la mia vita (e sicuramente quella di tanti altri) è stata sconvolta da un tragico avvenimento: scompariva il carissimo amico e impareggiabile collega Marian Papahagi. La sua morte fulminea, mentre era in servizio a Roma in qualità di direttore dell’Accademia di Romania, ha rappresentato una grave perdita per la vita culturale del suo paese e per l’italianistica europea. Si tratta di una perdita ancor più sofferta per quelli che lo hanno conosciuto da vicino e hanno saputo apprezzare non solo lo studioso dalla personalità di portata internazionale ma anche l’amico che affascinava tutti con la sua eccellenza intellettuale, come pure con la singolare bellezza della sua anima grande e generosa. Essendo uno dei privilegiati che gli furono accanto per oltre vent’anni, durante la sua attività di docente, mi permetto di ricordare alcuni momenti della sua prodigiosa attività. [1]
Nato in una famiglia, di origine aromena dalla parte paterna, famiglia che vantava studiosi importanti in vari campi (etnologia, linguistica, storia, medicina, matematica), Marian Papahagi si fece notare già come studente liceale ed universitario (all’Università «Babeṣ-Bolyai» di Cluj e alla Sapienza di Roma).
Nel 1973 diventa docente alla facoltà di Lettere dell’Università «Babeṣ-Bolyai», dove ha tenuto corsi di lingua e letteratura italiana, di filologia romanza e di lingua portoghese. Nel 1994 ha fondato la Cattedra di lingue e letterature romanze (italiano e spagnolo) della quale è stato il direttore fino alla morte. La sua attività accademica ha incluso anche due programmi di ricerca dei quali ha assunto la direzione – Enciclopedia dei Rapporti Culturali Italo-Romeni (ERCIR) e Concordanze elettroniche della poesia rumena (CONCORD). [2] La sua attività professionale si è svolta anche all’estero, dove ha tenuto corsi e conferenze presso varie università europee (Italia, Francia, Svizzera, Belgio, Danimarca, Polonia) e ha partecipato a numerosi convegni internazionali.
La portata innovatrice delle sue idee e la lucidità del suo giudizio critico non si sono limitati al campo specialistico degli studi letterari. Fra agosto 1990 e gennaio 1991 fu sottosegretario di stato presso il Ministero della Pubblica Istruzione, posto che ha accettato con la speranza di portare in parlamento una legge sull’autonomia universitaria. [3] Presso l’Università «Babeṣ-Bolyai» è stato vicerettore (1991-1993) e membro del Senato universitario e del Consiglio accademico della Facoltà di Lettere. Alla fine del 1997 gli è stato affidato l’incarico di direttore dell’Accademia di Romania in Roma, istituzione che, grazie a lui, cambiò notevolmente diventando un centro culturale impegnato a diffondere, con mezzi di alto livello scientifico, la cultura romena e a consolidare i rapporti culturali italo-romeni. Sempre per opera di Marian Papahagi l’Accademia tornò ad essere la sede della Scuola Romena di Roma fondata nel 1922 dal grande storico Vasile Pârvan, ma chiusa dopo la seconda guerra mondiale dalle autorità comuniste. Sempre grazie all’impegno con cui si prodigò a questo progetto, Marian Papahagi è riuscito ad istituire 10 borse Pârvan, che sono state assegnate in seguito ad un concorso nazionale a giovani ricercatori di varie discipline. Non dobbiamo dimenticare il contributo di Papahagi pure alla fondazione delle borse Nicolae Iorga a Venezia. Questa sua iniziativa continua tuttora e gli ex-borsisti Pârvan e Iorga (Rudolf Dinu, attuale direttore dell’Accademia di Romania in Roma, Roxana Utale, Ioana Both, Dan Istrate, Monica Fekete, Oana Boṣca-Mălin, per fare solo alcuni nomi) hanno confermato il loro valore e sono diventati docenti universitari, ricercatori, apprezzati, artisti premiati.
Ma il suo instancabile operare in campo didattico e organizzativo non deve farci dimenticare la sua vera vocazione: l’attività di critico letterario e di traduttore (ha pubblicato molto in Romania ed all’estero), la sua intensa azione di promotore culturale anche come fondatore e redattore di riviste come «Echinox» e «Studi italo-romeni».
Il suo lavoro di critico letterario riguarda principalmente – ma non esclusivamente – la letteratura italiana e quella romena, come lo testimoniano gli otto volumi di autore:  Exerciții de lectură, 1976,  Eros și utopie, eseuri, 1980, Critica de atelier, 1980, Intelectualitate și poezie, 1986,  Cumpănă și semn, studii, 1991,  Fața și reversul, eseuri, 1993,  Fragmente despre critică, 1994,  Interpretări pe teme date, 1995,  Rațiuni de a fi, 1999 (postumo). A questo elenco dobbiamo aggiungere i primi due volumi (A-C e D-L, usciti nel 1999) del monumentale Dicţionarul scriitorilor români da lui coordinato insieme a Mircea Zaciu e ad Aurel Sasu.
Ha tradotto, dall’italiano, dal francese e dal portoghese testi poetici e di prosa, nonché opere di estetica e di critica da Luigi Pareyson, Andre Helbo, Murilo Mendes, Luciana Stegagno Picchio, Eugenio Montale, Rosa del Conte, Guido Morselli, Roland Barthes. Ma quella che sarebbe stata la sua opera maggiore in questo campo è stata interrotta brutalmente nel gennaio 1999: si tratta della traduzione della Divina Commedia, progetto tanto caro a Marian Papahagi, al quale l’italianista e il filologo ha dedicato anni di studio assiduo. Purtroppo ci sono rimasti solo L’Inferno ed i primi canti del Purgatorio (pubblicati nelle riviste «Apostrof», «Echinox» e «Orizont») e non sappiamo se si tratta di una versione definitiva. Comunque, il pubblico ha potuto conoscere il risultato di questo lavoro tenace ed impegnativo nel 2012, quando, presso la casa editrice Humanitas, grazie a Mira Mocan, studiosa che ha curato l’edizione e ha completato i commenti del traduttore e alla figlia di Marian, Irina Papahagi, che ha firmato la prefazione è apparso il volume bilingue Dante Alighieri, Divina Commedia – InfernoDivina Comedie – Infernul.
Come riconoscimento nazionale ed internazionale della sua opera di studioso e di traduttore, Papahagi ha ricevuto non pochi premi: il premio per il debutto dell’Unione degli Scrittori di Romania (1976), il premio «G. Călinescu» dell’Accademia Romena (1980), il premio dell’Associazione degli scrittori di Cluj (1984), il premio «Eugenio Montale» (1989), il premio «Titu Maiorescu» dell’Accademia Romena (1993), il premio per la critica dell’Unione degli Scrittori di Romania (1994), l’ordine francese «Palmes Academiques» (1994), il premio Diego Valeri – Città di Monselice. [4]
Tuttavia, come lui stesso ha ripetutamente affermato, specialmente dopo la sua nomina a direttore dell’Accademia di Romania in Roma, Marian Papahagi si è considerato prima di tutto un professore [5], perché questa attività gli ha permesso di manifestare pienamente tutta l’abnegazione della sua anima generosa che desiderava trasmettere il suo grande sapere ai giovani pronti ad aprirsi all’informazione approfondita e a lasciarsi formare da questo vero spiritus rector. E possiamo dire che professore è stato non solo per i suoi studenti e dottorandi, ma per tutti quelli che hanno avuto la grande chance di incontrarlo, di collaborare con lui; a tutti ha saputo trasmettere qualcosa di prezioso, di indimenticabile. La sua totale dedizione all’insegnamento proveniva anche dall’idea che l’università ha un grande ruolo come istituzione determinante per la formazione delle coscienze. [6]

«[…] per l’università dobbiamo lasciare de parte i nostri interessi personali, perché l’università è uno dei posti in cui si conservano la spiritualità e la cultura, una delle grandi priorità di qualsiasi popolo». [7]

Come critico,  Marian Papahagi ha sempre evitato le strade battute, perché amava le sfide e avvicinava solo argomenti “difficili” che si confacevano alla sua natura di innovatore e di costruttore, natura nella quale si intrecciavano in una perfetta armonia il lucido idealismo e il nobile pragmatismo:

«In una cultura […] importante mi sembra la costruzione […]; esistiamo solo in virtù della nostra capacità di essere creatori […]; è obbligatorio che una persona sia in grado di percepire con tutta la modestia la propria dimensione di essere attiva in un certo punto per poter operare in quel punto». [8]

Sono parole che riassumono quella fede che lo ha reso determinato a professare una critica in grado di proporre e riproporre valori, una critica che «non può esistere senza una profonda componente etica» e che, giacché suppone rigore ma anche tolleranza, non dev’essere «radicale, distruttiva, manichea» [9]. Dal momento che «far critica vuol dire esprimere qualcosa esprimendo se stesso», per Marian Papahagi le due componenti maggiori del suo operare critico (componenti che lui vedeva fuse in un unico strumento analitico) sono la filologia e l’ermeneutica. Credeva perciò in una critica «concepita come una vocazione ermeneutica e speculativa creata per concedere un accesso più vero e più empatico al valore» [10].
Alla base di qualsiasi atto critico, Marian Papahagi poneva la lettura del testo, perché per lui leggere voleva quasi sempre dire anche scrivere, cioè esprimere se stesso assumendo la forma dell’altro, dell’autore letto. E quest’altro è stato spesso uno dei poeti italiani del Novecento (Gozzano, Saba, Ungaretti, Montale, ai quali dedica studi nei volumi Exerciții de lectură, Critica de atelier, Fața și reversul,) o del Medioevo (in Intelectualitate și poezie). A Dante, tanto amato e studiato, voleva dedicare, oltre alle pagine di Intelectualitate și poezie, un libro. E, in perfetta concordanza con le sue idee sull’ermeneutica e sulla filologia e sulla loro rilevanza nell’operare critico, il primo passo di questo grande progetto doveva essere la succitata traduzione della Commedia, traduzione corredata di note e commenti:


«Provo a dare una traduzione filologica. Non credo nella disgiunzione, sempre fatta, tra belle e infedeli e brutte e fedeli  […]. Credo che esista la possibilità di offrire una traduzione esatta e bella. Io almeno ci provo». [11]

Dunque, tradurre implica anche un’opera di critica: «Tradurre un poeta significa inevitabilmente interpretarlo» e, nel caso di Dante, «un lungo contatto di natura critica ed esegetica» con l’opera del poeta autorizzava il traduttore di intraprendere una vera traduzione-interpretazione.  [12]
Il complesso interesse e il suo profondo attaccamento all’opera dantesca è confermato anche dal fatto che l’ultimo testo al quale mise mano, prima di lasciarci, è stato l’Inferno senza che lui sospettasse che gli si aprivano le porte del Purgatorio e del Paradiso, questa volta in una forma non trasfigurata artisticamente.
Tutto quello che Marian Papahagi ha realizzato nella sua breve ma intensa esistenza reca l’impronta dell’eccellenza; un’eccellenza che traspariva da ogni sua azione, da ogni suo gesto, un’eccellenza non ostentata, che non sopraffaceva quelli che gli erano accanto.  Questo nostro caro ed indimenticabile amico è stato una fiamma che non distruggeva bruciando, ma illuminava la strada da seguire. Affermando col Foscolo che «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna», mi rendo conto che la separazione, tuttora sofferta da questo singolare amico, ci ritrova sempre sconsolati, ma ci fa anche capire il vero senso della parola  ETERNITÀ. [13]





Marian Papahagi all’Accademia di Romania in Roma






Helga Tepperberg
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)


NOTE

1. Per questo profilo, certamente incompleto, ho utilizzato alcune informazioni puntuali presenti nel volume postumo Raţiuni de a fiLa ragion d’essere (Bucureṣti, Atlas 1999 (una raccolta di studi ed interviste curata dal figlio Adrian Papahagi, che può essere considerato un vero testamento spirituale) e alcuni frammenti di un mio articolo, Ricordo di Marian Papahagi in «Letteratura Italiana Antica», anno III, 2002, pp. 429-432.
2. I risultati di queste ricerche si sono concretizzati nei due volumi di «Studi italo-romeni» (1997 e 1998) e nei volumi Concordanţa poeziilor lui B. Fundoianu e Concordanţa poeziilor lui G. Bacovia, (1999).
3. La legge è stata votata solo nel 1995 in una forma che deve molto a Marian Papahagi.
4. Per quanto schematico, questo profilo sui dati generali della vita e dell’opera di M. Papahagi ha voluto dare un’idea convincente sulla ricca e multiforme personalità del mio caro collega.
5. «Mi considero in primo luogo professore, occupazione da cui non mi sono mai separato…»; «Anche qui a Roma sono sempre professore, sebbene sembri essere piuttosto un funzionario»., Raţiuni de a fi, cit, p. 166 e p. 175.
6. Ivi, p. 166 e p.175.
7. Ivi, p. 62.
8. Ivi, p. 39,  p. 141 e p. 137.
9. Ivi, p. 52, p. 113, p. 121.
10. Ivi, p. 35 e pp. 113-114.
11. Ivi, p. 112.
12. Ivi, pp. 110-111.
13. La memoria di Marian Papahagi è rimasta viva anche grazie ai vari colloqui a lui dedicati (a Cluj e a Roma) e soprattutto grazie al Premio «Marian Papahagi» che dal 2008, per opera dell’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest, del Centro Culturale Italiano Cluj, dell’Università «Babeṣ-Bolyai» e dell’Ambasciata d’Italia in Romania, viene assegnato ogni due anni per opere di notevole valore culturale.