Expats di ritorno, un fenomeno pandemico

W.E. è una cara amica, arriva dall’Australia, e quando mi racconta di essersi incontrata con altri australiani in giro per il mondo, ma di passaggio in Italia, dice che si vede con altri expat. Non immigrati, expat. Expat suona esotico, o almeno più esotico di immigrati, che mi riportano alla mente la fatica, il sudore, il lavoro sottopagato, un dormitorio da condividere con troppe persone.
Stando alle definizioni (Wikipedia, per esempio, è una buona fonte), con expats, espatriati – un tempo esuli – si intende quella fetta di immigrazione che lascia la propria terra per un tempo non ancora definito e per uno stipendio maggiore rispetto a quello che potrebbe ricevere in patria. Nell’immaginario comune, però, quando parliamo di expat, si delinea un uomo bianco, che lavora ai piani alti di un edificio, tutto vetri, in centro. Per la seconda definizione, il Centro Interculturale di Torino recita che si dice immigrato di «persona straniera che è autorizzata per la prima volta a soggiornare e a lavorare per una durata almeno di un anno nel paese di accoglienza».

Ora, l’intenzione non è quella di sollevare un dibattito in merito al piano simbolico e immaginario del linguaggio comune, l’accenno alle due distinzioni è propedeutico a comprendere la scelta operata in questo articolo, poiché – a dispetto della consuetudine – userò la parola, esotica, expat per parlare del grande esodo di ritorno al paese di origine provocato dalla pandemia.
Le cifre ufficiali non ci sono. Per la Romania, Europa Libera, il 9 febbraio 2021, parla di circa oltre un milione di expat rientrati a causa dei vari confinamenti imposti nei paesi occidentali. Numero esorbitante, se si pensa che gli abitanti di Bucarest sono circa 2 milioni, e Iași, la seconda città più popolata della Romania, ne conta circa 350.000. Nel 2019, l’ISTAT suggerisce che in Italia vi sia circa un milione di romeni residenti in Italia.

Ma chi sono questi expat di ritorno? Le loro storie non sono semplici da rintracciare. Diversi giornali riportano le testimonianze di donne cinquantenni, che lavoravano come addette alle pulizie negli alberghi, rimaste all’improvviso senza lavoro e costrette a tornare a casa; di muratori e di mano d’opera non specializzata rimasti senza un cantiere, poiché chiuso dall’oggi al domani.

La storia di Alex – nome di fantasia – parte dall’Inghilterra. Ha ventinove anni, Alex, quando la pandemia mette in ginocchio il Regno Unito. Ha studiato a Londra e ha un lavoro ben retribuito in un’azienda che si occupa dell’organizzazione di una delle più importanti fiere del libro europea. La fiera del libro di Londra è stata annullata, nel 2020, come quella di Francoforte, come quella di Torino. Alex si è ritrovato senza un lavoro da un giorno all’altro. È un tipo tosto, però. Non ha paura di lavorare e ancora meno di reinventarsi. In precedenza, per mantenersi, da solo, nella capitale inglese – dove si è trasferito quando aveva vent’anni – ha fatto di tutto, ha lavorato persino in una fabbrica di cappelli. Infatti, gli è rimasta la passione per quelli a tesa larga. Potrebbe restare, e resta, per un periodo, finché si rende conto che restare è un buco nero senza termine di scadenza e, allora, decide di ritornare. Da una capitale all’altra. A Bucarest, però, la pandemia ha trasfigurato la città. C’è caos. Trovare un lavoro è difficile, snervante, un susseguirsi di colloqui, di periodi di prova, di lavori da remoto mal retribuiti. Anche tornare è un buco nero senza termine di scadenza.

Vlad – nome di fantasia –, invece, lascia Miami appena dopo lo scoppio della pandemia. Vive lì da quando ha ventitré anni, ora ne ha quasi quaranta. Ha studiato pure, negli USA, Criminologia, ma lavora come cameriere perché a lui piacciono il sole e la libertà di movimento. Ritorna nella città natale senza l’illusione di trovare un lavoro; nel nord della Romania, sebbene sia una zona turistica, qualsiasi stipendio è una specie di schiavitù. Si guarda in giro, e a Timișoara si prospetta una buona opportunità, presso una scuola privata, dove cercano un insegnante di IT con ottimo uso della lingua inglese. La pandemia, tra l’altro, osserva Vlad, ha aperto le università all’e-learning, e iscriversi all’università sembra una splendida idea. Ma il lavoro a Timișoara non va in porto, è tornata l’estate, Miami pare si stia riaprendo e Vlad ritorna negli Stati Uniti, dove la ripresa è diversa da come se la prefigurava. Lo stress è altissimo, per cui, pochi mesi più tardi, rientra per la seconda volta in Romania, questa volta privo delle motivazioni di prima, che lo avevano spinto a cercare un lavoro in patria, di iscriversi all’università.

A Botoșani, come riporta «Gazeta Românească», quattro giovani rientrati dall’Italia hanno aperto un ristorante con specialità del Belpaese, investendo soldi personali, guadagnati lavorando, appunto, nella ristorazione. Anche loro sono tornati durante la pandemia, e hanno dimostrato coraggio nel buttarsi in un’impresa così particolare. Ricordo – a me stessa, ma anche ai lettori provenienti da altre realtà – che, per esempio, agli inizi degli anni ’90, a Gura Humorului (città poco distante da Botoșani), la pizza era fatta di fette di pane tagliato spesso, un po’ di bulion, cioè pomodori pelati, cașcaval, caciocavallo affumicato e grattugiato sopra, e due uova all’occhio di bue, per finire. Il modo in cui mangia un popolo dice molto agli antropologi.

Senza voler sollevare quesiti di ordine politico, è difficile, tuttavia, non chiedersi in che modo abbia reagito il governo romeno di fronte a un fenomeno così vasto e travolgente. (Ricordo, brevemente, che il rientro degli expat ha creato molto sconforto a livello sociale, in quanto essi sono stati accusati di aver diffuso il virus in Romania attraverso rientri in massa, privi di quarantena e di controllo.) Diversi giornali riportano la notizia che gli expat con progetti lavorativi nell’agricoltura possono usufruire di 50.000 euro a fondo perduto. Non solo, una legge del 2002 garantisce un aiuto per reintegrarsi nel tessuto economico – un aiuto fino a 3.200 euro – per chi dimostra di aver lavorato tre anni consecutivi in un paese UE.

Sulla carta, i buchi neri del rientro provocati dalla pandemia hanno soluzioni. La domanda che resta aperta, però, è la seguente: quanti, di quel milione di expat, resteranno in patria quando l’economia europea aprirà nuovamente le braccia ai camerieri, ai braccianti, ai muratori romeni (e non solo)? E lo sappiamo, l’apertura è imminente, l’economia occidentale non può fare a meno di loro. Sarà un nuovo esodo? E questo nuovo esodo in che modo avrà trasfigurato la Romania? Quali ferite si (ri)apriranno in una società che ha vissuto, per un po’, l’illusione di riavere a casa intere generazioni di forza lavoro, di possibili studenti, di operai qualificati e capaci di operare su mezzi tecnologici, in agricoltura e in fabbrica? Resta difficile persino una prognosi.



Irina Francesconi Ţurcanu
(n. 9, settembre 2021, anno XI)