Epistole sarde di Ofelia Prodan e Daniel D. Marin

Per l’editore Il Convivio è uscita di recente la raccolta poetica Epistole sarde di Ofelia Prodan e Daniel D. Marin, tradotta da Irina Țurcanu e curata da Paola Sini. I due poeti formano ormai da anni una se non la coppia letteraria più affiatata tra Romania e Italia, un duo votato alla poesia che ha trovato da noi successo di pubblico e critica. Questo «carteggio poetico» in cui «i poeti si specchiano e si ritrovano nella loro reciproca solitudine» conferma l’originalità e l’innovazione del loro fare poesia come è ben delineato nella Prefazione di Laura D’Angelo che qui pubblichiamo.

Dentro la vertigine: Epistole sarde e l’impossibile spazio dei riflessi

«C’era una spada tra noi». Sono queste le parole che, prima di morire, Jorge Luis Borges chiese che venissero incise sulla sua lapide, a riprova di un’inaccessibilità per il poeta argentino tra l’io e il mondo, tra una indefinibile determinazione del reale e l’impossibile rappresentazione di una realtà univoca, di una identità che non finisca per confondersi e frapporsi in una serie di specchi e riflessi. Borges, il grande poeta del labirinto e dello stupore, spaventato dagli specchi, prova tuttavia a descriverne i confini: «Dove finisce e inizia, inabitabile, l’impossibile spazio dei riflessi». Che i riflessi rappresentino il tessuto lirico di questa nuova, interessante opera poetica di Daniel D. Marin e Ofelia Prodan, Epistole sarde, nella traduzione a cura di Irina Turcanu e Paola Sini, è evidente laddove non ci si fermi al testo inteso nel suo livello letterale, ma, come sempre avviene negli scritti dei due autori, si approdi ad una lettura più approfondita capace di scardinare sul livello verbale il piano del significante per una risemantizzazione della parola che conferma l’abilità poetica di Marin e Prodan nel rivelare la vertigine della contraddizione.
Ma andiamo per ordine. Ci troviamo ad una prima lettura di fronte ad una fiaba in versi, strutturata in un gioco prospettico di brani, come un dialogo tra poeti. I titoli di ogni componimento sono espliciti nell’assecondare l’assetto duale e dialogico di scansione delle parti e attribuzione di ruoli e definiscono la cornice metaletteraria di un itinerario lirico all’interno del quale l’elemento fantasioso e apparentemente fiabesco infarcisce una poesia elevata, briosa, ironica, surreale: una poesia che sa farsi, nel gioco dei rimandi testuali alla tradizione e dei riusi a livello contenutistico, attraverso la compenetrazione di più topoi narrativi sul piano morfologico (la funzione del viaggio nella fiaba, la peregrinatio tipica del romanzo di formazione e della più squisita letteratura odeporica, oppure si considerino l’isolamento, anzi l’isolitudine esistenziale in un imprecisato naufragio in terra sarda, sulla
falsariga delle avventure di un moderno Robinson Crusoe o di moderne esploratrici come l’Alice in Wonderland di Carroll) il nucleo lirico di una scrittura capacedi dare vita ad una poesia incantata, che tuttavia incantae disarma:

dopo aver ripreso il cammino
Ofelia si rese conto che non si addiceva
portare con sé fino al convento,
dove tutto era sì semplice e privo di ornamenti,
i bei vestiti che tra l’altro
indossava con piacere al castello
(i bei vestiti, p. 82)

Ancora una volta, come già nei precedenti lavori, Prodan e Marin traducono in poesia le contraddizioni e i drammi della contemporaneità attraverso un registro drammatico sapientemente diluito in frammenti di realtà da cui emerge, con straordinaria intensità, l’isolamento e la profonda solitudine dell’uomo moderno, sempre più incapace di autodeterminarsi all’interno di una realtà inaccessibile e innominabile, liquida e inafferrabile, che fagocita identità e aspirazioni:

mia cara amica, qui sto abbastanza bene,
vivo in una stanza vecchia con discreto
odore di vecchio, a volte i muri si restringono
attorno a me e la camera sembra
essere una creatura che mi guarda con occhi vispi,
altre volte le pareti si allontanano così tanto
che è come se fossi dentro un dinosauro
e il suo occhio freddo da rettile mi ipnotizzasse,
ma il più delle volte la mia camera
vecchia è solo una camera vecchia
in cui qualsiasi cosa accada
di fatto non accade mai realmente
(lettera da Daniel, p. 38)

Ma attenzione: lo stile è frutto di una raffinata intelligenza d’arte, è una ballata che canta lo spazio del gioco verbale e della consapevolezza, ma sempre con piacevolezza, sempre con eleganza. Il mascheramento del reale è il solo espediente concesso ai poeti per disvelare la realtà: a questa gli autori sorridono, ma se si voltano, come moderni Giano bifronti, o se vi si specchiano, o s’interrogano, si perdono e si riconoscono:

solo specchi, così Ofelia si vedeva
riflessa sotto mille e mille volti
gli uni più strani degli altri e irriconoscibili,
così fluttuava tra gli specchi di cristallo
mirandosi allucinata finché non dimenticò
del tutto il suo vero aspetto, e allora
precipitò nel vuoto e dallo spavento
si chiamò per nome con una voce acuta
che ruppe tutti gli specchi e si ritrovò […]
(la stanza degli specchi di cristallo, p. 102)

E qui veniamo al gioco di specchi, alla duplicità, all’assetto dialogico che innesca la visione relativistica e la porta al suo punto di rottura, alla fiaba che lascia il posto al carteggio epistolare, al sapore agrodolce di una ricerca di senso cui non basta il conforto creativo di chi trova appagamento nell’idilliaco esilio del cielo in una stanza. L’afflato di evasione, il viaggio di Ofelia, la strada per il convento e poi l’incrocio di gnomi, i funghi avvelenati, i soldatini di stagno, i tipici ingredienti delle fiabe dei Fratelli Grimm, ma non solo, i doppi metaletterari della campagnola e dei locandieri, la mosca e gli elementi magici come il medaglione, e la testa di pagliaccio, e poi le lettere da Sassari e da Milano, la poetica dello sguardo, tutto fa da contorno a quell’angoscioso alternarsi di quelle coppie di opposti che determinano sul piano identitario e umano una lacerazione. Si tratta, in particolare, dei binomi antinomici di spazio- tempo e sogno- realtà:

così ho pensato fosse solo un bel sogno
e che potessi sognare giornate intere
e ho sognato e sognato che mi accadevano
cose che solitamente non mi accadono […]
(lettera da Daniel, p. 42)

Sono sguardi, quelli degli autori, che guardano un mondo alla deriva, che pure fa sorridere di nostalgia e muta commozione, che pure si fa amare, ma sempre volti a scardinare quel confine tra reale e fittizio, tra emarginazione identitaria e disumanizzazione collettiva. Emerge così, nella trama testuale della raccolta, una verità «metaforica» finalizzata ad ampliare, nonostante il mascheramento linguistico, l’intenzione «realistica» che è propria del potere di ridescrizione del linguaggio poetico. Come già in Paul Ricoeur, la connotazione metaforica della parola poetica «implica un uso “tensivo” del linguaggio solo per suscitare un concetto “tensivo” della realtà». Epistole sarde sovverte con sensibilità e acume tutti i paradigmi della realtà, i principi di identità e non contraddizione, la logica, i concetti di tempo e spazio, percorre regni dominati dal paradosso (che per Deleuze è il «rovesciamento simultaneo del buon senso e del senso comune») per dire che forse non c’è un senso, in una contemporaneità che perde di vista l’uomo e il suo universo ontologico. Come nello specchio di Carroll, attraverso il filtro della poesia gli autori non guardano il mondo, ma loro stessi. Vorrebbero riconoscersi, confermarsi, ma ogni tentativo è sempre un incontro mancato, i poeti si specchiano e si ritrovano nella loro reciproca solitudine.

 

Ofelia Prodan, attualmente una delle poetesse romene più apprezzate, esordisce con L’elefante nel mio letto (2007; Premio per il Debutto dell’Associazione degli Scrittori di Bucarest, 2008) a cui hanno fatto seguito altre numerose raccolte poetiche, tra cui due edite in Italia, Elegie allucinogene (2019; Finalista al Premio Letterario Città di Sassari 2020; Premio speciale del presidente della giuria nell’ambito del Premio Bologna in Lettere 2021) e Periodicamente ricicliamo cliché (2023; Premio speciale Virginia Woolf per la poesia edita, nell’ambito del Premio Nabokov 2023; Finalista al Premio Lorenzo Montano 2024).  Tra le sue raccolte poetiche romene: La guida (2012; Premio Nazionale Ion Minulescu, 2013); Senza uscita (2015; Premio Nazionale George Coșbuc, 2015; Premio Nazionale Mircea Ivănescu, 2016); Il clone dell’Ofelia in mongolfiera (2021; Premio della Rivista Familia nell’ambito del Festival Internazionale di Poesia di Sighetu Marmației, 2022). È membro dell’Unione degli Scrittori di Romania e del PEN Club Romania.

Daniel D. Marin, poeta e traduttore, è autore di cinque raccolte poetiche, tra cui L’ho preso in disparte e gli ho detto (2009; Premio Marin Mincu, Bucarest, 2010) e I corpi che non ci calzano mai a pennello (2022; Premio Libro d’autore al Festival Internazionale di Poesia Getafe-Madrid, 2023; Finalista con menzione d’onore al Premio Sygla, città di Chiaramonte Gulfi, 2024). Curatore della prima antologia retrospettiva della Generazione 2000 della letteratura romena (2010), e di BorderLine 2000. Dieci autrici per un’antologia della poesia di oggi (edizione italo-romena, 2021). Attualmente è redattore della rivista Orizzonti culturali italo-romeni, per la quale cura una rubrica dedicata alla traduzione della poesia italiana contemporanea.

Dal 2006, l’Istituto Culturale Romeno di Bucarest finanzia gli editori stranieri per tradurre e pubblicare libri di autori romeni, attraverso il programma Translation & Publication Support Programme.


(n. 10, ottobre 2025, anno XV)