Lelia Floarea Brînda. «La via della canapa» tra parole e immagini

Ricordo quei momenti in cui andavo con la mamma e il nonno a raccogliere la canapa, papà era fuori, lavorava come caposquadra nei cantieri edili sparsi nel paese. Sapevo che costruiva centrali termiche, pozzi, era sempre lontano, ma quando tornava a casa carico di ghiottonerie e giocattoli, era una festa per tutta la famiglia. Papà partiva, perché «abbiamo bisogno di soldi per terminare la casa nuova, così posso mandarvi in città, a scuola, sarete ragazze con un titolo e non dovrete sottostare come noi al lavoro nei campi», ripeteva la mamma.
Era il 1965, ero una piccola peste, giocavo continuamente e volevo a ogni costo entrare nel campo di canapa, mamma a stento riusciva a tenermi ferma, a distanza di qualche metro, seguendomi con la coda dell’occhio mentre falciava il fascio di canapa. In una mano teneva il falcetto, selezionava a caso, seguendo lo sviluppo perimetrale, il mannello di canapa che afferrava con l’altra mano e che recideva muovendo il falcetto con la sua forma semiovale verso di sé. Seguivo affascinata l’intero processo e volevo parteciparvi attivamente, ma la mamma mi diceva di continuo di starmene da parte, altrimenti mi sarei stordita e sarebbe stato pericoloso... Di tanto in tanto anche lei faceva una pausa e si allontanava di uno-due metri dal campo appena falciato che emanava un odore pungente, poi presa dall’euforia nel vedere il ricco raccolto, riprendeva in mano il falcetto e si metteva a raccogliere. «Ci servono lenzuola, asciugamani, sacchi e indumenti, ci serve coltivarla. È una pianta miracolosa – diceva la mamma continuando a lavorare e ad allontanarmi – ci aiuta a far vivere il paese.» Tutto il campo vicino al fiume profumava di erba appena tagliata, nel frattempo giungevano stormi di uccelli che si posavano per qualche secondo e poi sparivano. Ero affascinata e, benché il sole fosse forte su nel cielo, non mi andava di tornare a casa, era su in collina a trecento metri.
Gli steli venivano serrati e legati con steli di canapa lunghi due metri, ammassati in casupole e fatti asciugare. Dopo una-due settimane di riposo al sole sui campi, tornavamo a prenderli e a bagnarli nelle acque del Criş. La mamma e il nonno prendevano dall’acqua grosse pietre e tutti partecipavamo alla costruzione di un letto in pietra, una vasca in cui venivano accatastati gli steli e disposti a formare una croce, e con una preghiera muta, si sperava che l’acqua penetrasse fino a raggiungere le fibre. Poi con altre grosse pietre li coprivamo in modo da tenerli ben sommersi in acqua ed essere al sicuro in caso di forti piogge che avrebbero fatto salire il livello dell’acqua del fiume; in questo modo questo tesoro vegetale veniva protetto da eventuali inondazioni e lasciato riposare fino alla macerazione, per poi essere trasformato un giorno in tela...
Dopo qualche settimana andavamo ad accertarci che gli steli di canapa avessero raggiunto il giusto grado di macerazione. Entravamo nel maceratoio con i piedi nudi, rimanendo in superficie, si era formato un blocco compatto, che poteva essere scambiato per vegetazione subacquea, i pesci sguizzavano intorno e pizzicavano imperterriti le dita dei piedi, mentre io saltellavo da una pietra all’altra cercando di afferrarli con le mani...
Quando gli steli avevano raggiunto il giusto grado di macerazione, quando cioé le dita penetravano con facilità nella fibra, rimuovevamo le pietre, iniziavamo a estrarre gli steli e a riporli nelle casupole della canapa, affinché si asciugassero sulle sponde del Criş. Per quanto il villaggio fosse pieno di casupole lungo il fiume, ogni contadino aveva il suo posto per mettere a macerare la canapa, dato in custodia da vecchi antenati, mai un vicino si sarebbe permesso di entrare nella casupola di un altro. Tutto il letto del fiume era gremito di costruzioni quadrate appena visibili sulla superficie dell’acqua, di pietre sotto le quali giaceva la canapa a macerare. Poi, quando veniva tirata fuori dall’acqua, tutta la riva del fiume era costellata di casette, casupole di canapa lasciate sulla sponda del fiume a 50 metri dalla riva, affinché la canapa si asciugasse. Non c’erano momenti più belli che entrare in acqua a controllare la canapa, giocare con i pesci e con la vegetazione subacquea che si era formata intorno ai quadrilateri di canapa.
Infine gli steli di canapa asciutti venivano stesi sull’aia delle case dove venivano trasportati con un carro trainato da buoi. Troneggiavo come una regina in cima al carro, sebbene le stoppie asciutte della vegetazione mi punzecchiassero e graffiassero, mentre il nonno era obbligato a starmi accanto per proteggermi da un’eventuale caduta da quell’altezza. Quando entravo nell’aia e guardavo tutto da lassù, mi sembrava di essere la regina di quel posto che con la sua bacchetta magica trasformava tutto. Stare così in alto, ai miei occhi da bambina, sembrava darmi poteri magici.

Qui finiva il lavoro degli uomini e le donne iniziavano a ricavare il pennecchio, per poi giungere al filo e infine alla tela. Tutto il villaggio era gremito di filatrici che stigliavano la canapa, poi pettinavano le fibre ottenute e iniziavano la tessitura, la trasformazione del pennecchio in filo. In casa si portava giù dalla soffitta il telaio, le donne predisponevano l’ordito e iniziavano a tessere. Quest’attività cominciava in autunno e si protraeva fino all’arrivo della primavera. In inverno, via via che si tessevano le tele, venivano bollite in acqua con cenere e liscivia, poi venivano distese sulle staccionate, affinché si indurissero e sbiancassero. Poi le tele erano arrotolate e venivano utilizzate per cucire quello che serviva in casa. A seconda dello spessore del filato, si ricavavano sacchi per il grano, lenzuola per il letto, asciugamani o camicie scelte e ricamate, o gonne per le donne e pantaloni per gli uomini.
Non c’era niente di più bello che il dar vita a questo ciclo, quando le donne del villaggio facevano la veglia, lavoravano tutte insieme fino a mezzanotte inoltrata per sostenersi a vicenda nel lavoro e nelle loro creazioni, per godersi quell’atmosfera di gioia in cui aveva vita quel processo creativo. Mentre noi, bambini, giocavamo, facevamo le bambole dai pennecchi e imparavamo a filare e a tessere al telaio quando eravamo un po’ più grandi.
Adesso ricordo cosa mi ha riportato alla mente il passato, a ricreare, a reinterpretare i simboli dei merletti e dei ricami. Sento solo che in questo modo posso rendere un umile omaggio a coloro che mi hanno trasmesso il potere e l’amore per la creazione. I miei lavori, pitture o ricami in creta, portano l’impronta, il DNA di quel luogo in cui le tessitrici inventavano i modelli di cucito, simboli che portano in loro l’informazione dell’animo puro, pieno di amore, gioia e riconoscenza per la creazione divina.
In quel luogo, niente si faceva senza invocare il divino che era parte di tutta la creazione dell’uomo. Quell’impronta, quel DNA vegetale l’ho ereditato, l’ho rielaborato e l’ho trasposto in creta, sulla maschera purificatrice, intrisa di fuoco e amore, dando come risultato questo miscuglio di tela e creta, che dà espressività alle mie emozioni e al mio vissuto.



















Lelia Floarea Brînda
Traduzione di Elena di Lernia
(n. 12, dicembre 2019, anno IX)