Marian Papahagi traduttore di Montale, vincitore del Premio Valeri a Monselice nel 1997

Premessa (2019)

Il testo di Marian Papahagi che segue, poco noto in Romania, è la presentazione della propria traduzione delle poesie di Montale alla seduta finale del Premio Monselice, tenuta il 1 giugno 1997 nella Biblioteca del Castello di Monselice (Padova), in cui Marian Papahagi risultò vincitore del Premio Valeri, dedicato quell’anno, appunto, a una traduzione di Montale. Le traduzioni di Marian Papahagi costituivano il volume Eugenio Montale, Poezii. Antologie, traducere, prefaţă, note şi repere critice de Marian Papahagi, Cluj-Napoca, Dacia, 1988 [1]. Redatto in italiano, lingua che Papahagi conosceva perfettamente, penso che sia poco nota in Romania, per cui mi sembra opportuna la sua pubblicazione in patria nell’occasione dei vent’anni dalla sua scomparsa.
In quell’occasione, mentre era Vice-ministro all’Istruzione, venne a Monselice. Lo trovai al telefono dell’albergo svegliandolo dal sonno dopo il volo dalla Romania. Ho ancora adesso il rimorso per averlo disturbato nel riposo che, come si sa, si concedeva così raramente, soprattutto pensando alla sua morte già imminente, alla quale la mancanza di riposo e la mancata cura di se stesso hanno avuto certamente una parte. Fu peraltro in assoluto l’occasione in cui passammo più ore assieme, come avvenne il giorno prima della premiazione e quel giorno stesso.  Ebbi una conferma della sua straordinaria personalità.
Al testo di Papahagi faccio seguire due mie brevi testi, quello che contiene il giudizio sulla sua opera di traduzione che mi era stato richiesto dalla Giuria e un necrologio che fu pubblicato nella stessa pubblicazione che aveva ospitato la relazione di Papahagi e la mia presentazione, il bollettino del Premio, come è pecisato dopo ogni singolo testo. [2]
Oggi, all’età di ottant’anni, questi testi sono per me dei ricordi luminosi di una delle personalità più grandi e che più ho ammirato del mondo della cultura romena. Al tempo stesso si rinnova il dolore e il rimpianto per la sua morte prematura,
                                                                                                                                                                                   

Lorenzo Renzi

 

1. Marian Papahagi, Montale in Romania (2002)

Signore e Signori,
vorrei cominciare con l’esprimere il mio ringraziamento per l’onore che – troppo benevola nei confronti del mio tentativo di versione della poesia montaliana – mi fa l’illustre Giuria (e il relatore, prof. Renzi), accordandomi il Premio internazionale «Diego Valeri», nell’ambito del Premio «Città di Monselice». Più di vent’anni fa il Premio «Città di Monselice» per la traduzione veniva attribuito all’insigne traduttrice romena Eta Boeriu, scomparsa qualche anno fa, per la sua versione del Canzoniere di Francesco Petrarca. In questo modo, mi sia consentito di rilevarlo, lo sforzo di rendere in romeno la poesia del più grande lirico italiano dei tempi antichi e quello di tradurre nella stessa lingua il più importante poeta italiano moderno non è sfuggito alle giurie del prestigioso premio, e appaiono in questo modo idealmente accomunati. Per quanto mi riguarda, non posso che trovare commovente tale coincidenza e continuità e sperare di poter provare ancora, attraverso le mie successive traduzioni dall’italiano, il sincero impegno, radicato nel mio quotidiano lavoro di professore e di italianista, di contribuire all’arricchimento del patrimonio romeno di traduzioni dall’italiano.
E visto che oggi si è dibattuto intorno alla fortuna europea di Eugenio Montale, mi sia permesso di aggiungervi un breve capitolo romeno, riguardante appunto la presenza dell’illustre poeta nel mio Paese. Non posso indicare con certezza la prima traduzione di una poesia montaliana nella mia lingua: dovrei cominciare forse con il nome di Dragoș Vrânceanu, noto poeta e saggista romeno, che durante gli anni Trenta, trovandosi a Firenze, conobbe Eugenio Montale, con il quale era rimasto poi in corrispondenza, dando successivamente, attraverso le sue versioni (Poezii, ediție bilingvă, Traducere și prefață de Dragoș Vrânceanu, București, Editura pentru Literatură Universală, 1968; Poeme alese, Traducere și prefață de Dragoș Vrânceanu, Editura Albatros, 1983), e attraverso articoli e interviste, costante prova di interesse nei confronti del grande poeta ligure. Ma già negli anni ’40 fra i collaboratori della rivista «Agora», diretta da Ion Caraion e Virgil Ierunca, si trovava Montale con alcune sue poesie e, nel 1945, quella che poi sarebbe diventata una insigne studiosa di lettere romene, Rosa Del Conte, a quell’epoca lettrice di lingua italiana a Bucarest, pubblicava la sua consistente scelta di traduzioni montaliane che ancora oggi sorprendono per la loro esattezza ed eleganza (Rosa Del Conte, Poeți italieni de azi, E. Montale, S. Quasimodo, București, Tipografia Bucovina, 1945). Alla fine degli anni ’60, poi, oltre alle traduzioni di Dragoș Vrânceanu già ricordate, si segnala la pubblicazione di un’importante traduzione dovuta a un poeta, Ilie Constantin (Versuri, în românește de Ilie Constantin, București, Editura Tineretului, 1967), seguita, tre lustri dopo ( dalla versione integrale del Quaderno di quattro anni data da Florin Chirițescu (Quaderno di quattro anni / Caiet pe patru ani, Traducere si cuvînt înainte de Florin Chirițescu, București, Editura Univers, 1981). Ma non sono pochi i traduttori che hanno lasciato le loro versioni nelle pagine delle riviste letterarie o in antologie: da Eta Boeriu e Vintilă Horia a Marin Mincu o a giovani come G. Popescu o Augustin Pop, tanti sono quelli che hanno tentato di affrontare il verbo «scabro ed essenziale» del poeta. Va ricordato, in parallelo, il cospicuo gruppo di critici che hanno scritto su Montale: dal grande filosofo e saggista Edgar Papu ai rappresentanti della scuola di italianistica di Bucarest (Nina Façon, Alexandru Balaci, Doina Derer), da prestigiosi traduttori come A.E. Baconsky fino ad alcuni giovani che hanno dedicato tesi di dottorato all’opera montaliana (Romeo Magherescu) oppure hanno scritto su alcuni aspetti della sua poesia.
Per quanto mi riguarda, i miei primi veri contatti con l’opera di Montale (preceduti forse solo da qualche sporadica lettura a livello di antologia) risalgono al 1971 quando, essendo studente a Roma; mi trovai ad essere, per così dire, contemporaneo con la pubblicazione di un primo saggio di quello che sarebbe diventato in seguito il Diario lirico del ’71 e del ’72: infatti, arricchito di una densa presentazione di Gianfranco Contini, usciva sull’«Espresso», nell’autunno del ’71, un parco manipolo di poesie che mi affrettai a tradurre e a pubblicare sulla rivista letteraria «Tribuna» di Cluj, proprio per essere il primo a dare notizia del fatto che Satura, lungi dal chiudere un’epoca di poesia ne apriva invece un’altra, e che il grande poeta aveva ricominciato a parlare. Per più di quindici anni mi sono poi dedicato, fra tante altre cose, alle mie versioni.
La difficoltà di tradurre Montale può essere verificata a tutti i livelli: un fonetismo aspro ma nello stesso tempo di una musicalità senza paragone nella poesia italiana moderna, un lessico talora petroso e inconsueto, una sintassi stretta, di severa eleganza, la complessa versificazione, fondata sull’orecchio musicale di un poeta sensibile al taglio squisito di qualche raro verso stilnovistico (di Lapo Gianni, per esempio), ma risalente soprattutto a una profonda conoscenza della tradizione metrica italiana ed europea e caratterizzata da un sapiente abbinamento di versi dalla misura classica, nelle più svariate combinazioni, e di versi faux exprès, il raffinato sistema di rimalmezzo, rime finali, assonanze, rime a tmesi, quasi-rime che sottendono il testo, lo stesso carattere apparentemente “ermetico” dei poemi, densi di allusioni intertestuali, tutto, insomma, concorre a fare del tentativo di rendere in un’altra lingua il verso montaliano un’ardua, ma nello stesso tempo appassionante, avventura. Ho cominciato a tradurre Montale perché volevo comprenderlo meglio, per scriverne, o per spiegarlo ai miei studenti; ho continuato perché tradurre è un gioco affascinante e rischioso con l’impossibile. Speravo ovviamente di dare in qualche modo al lettore romeno un’idea di quel fremito oltremondano che attraversa lo spazio chiuso nell’orto-reliquiario di In limine, la tentazione della fuga dalla «catena di ferro della necessità», l’ansiosa ricerca del «punto morto del mondo», dell’«anello che non tiene», l’attesa di imbattersi nel fantasma salvifico atto a svelare una trama oscura di arcani misteri. Volevo che Arsenio, non pascaliano roseau pensant, ma giunco con le radici ancora viscide di una vita larvata, potesse comunicare in qualche modo anche ai nostri lettori la sua condizione di ontologico immobilismo, l’ansia nascosta nel suo «immoto andare», che il solitario promeneur sotto l’abbagliante disteso mezzogiorno, che guarda tra cocci di bottiglia le scaglie del mare scintillante in una irraggiungibile vicinanza-lontananza potesse trasmettere, anche in romeno, la sua acuta sensazione di solitudine. Il tempo mitico dell’infanzia, evocato senza quel «gergo proustiano» che Montale dice di non accettare negli Ossi di seppia, malattia lungamente portata con sé, aggravata dalla nostalgia, il «male di vivere», la negatività, ecco non solo motivi ma densi oggetti di linguaggio che Montale offre sin dalle prime pagine del libro al suo traduttore. Il quale viene poi subito messo a dura prova dai due registri opposti della lapidarietà e della discorsività degli Ossi di seppia propriamente detti e di Meriggi e ombre. Concentrato compendio di un’epoca del rifiuto, della negatività, di simboli e motivi di un’eloquenza soggettiva e intensa (il girasole impazzito di luce, lo sparo che inaspettatamente rompe il silenzio, la danza silenziosa dei conigli sotto la luna, il regalare l’ombra in un gesto sacrificale, il martin pescatore che attraverso una volta nell’aria descrive l’istantaneità di una felice attesa, l’intensità dolorosa dell’evocazione dell’“assente”, pallido senhal che inaugura una lunga serie di poemi dedicati all’ansiosa ricerca e attesa di un’amata per sempre scomparsa, il sintomo inquietante di un indefinito qualcosa che, intravisto nello specchio di una fontana, svanisce al più leggero tocco, così come la velleità fantasmatica di vita della poesia Vasca non riesce a rompere la superficie lucida per emergere alla luce, ecco altrettante sfide con cui il traduttore-interprete deve confrontarsi nel primo volume.
Che dire, poi, della grande stagione montaliana delle Occasioni e della Bufera, libri dominati dalla potente presenza di Clizia, visiting angel di un nuovo stilnovismo, attraverso cui Montale si riallaccia significativamente alla prima stagione della lirica italiana e, nello stesso tempo, «onlie begetter» dei suoi versi? e che dire, soprattutto, dei Mottetti, dove tutto appare attratto nel mistero di un vivere nascosto, le cui ragioni rimangono talora (e il poeta si vede costretto a intervenire per spiegarle) oscure o incomprese al suo lettore, anche a quello italiano (testimoni le lettere a Guarnieri o la spiegazione data da Montale di «due sciacalli al guinzaglio» o a Giorno e notte)? Proprio in quella tesa relazione tra detto e non detto va cercata la vera comprensione di Montale e il traduttore che si è sforzato di capire deve tenere per sé questa comprensione e decidersi di mantenere il testo tradotto nella sua tensione, senza spiegarlo, ma lasciando intatta la possibilità alla decodificazione perspicace. Clizia va evocata, anche dal traduttore, nella sua assenza-presenza di angelo corrucciato, sempre presagito, il cui tutelare intervento fa l’oggetto di un vero e proprio rituale divinatorio nell’Elegia di Pico Farnese, uno dei testi più alti che il poeta abbia scritto. E poi c’è la guerra degli umani e la guerra cosmica, sullo sfondo della quale va proiettato il doloroso amore per Clizia, dall’ardenza di una cupa passione alla pura mistica del «nestoriano smarrito» che raggiunge l’oggetto della sua ansiosa ricerca, l’invisibile «cristofora», solo per intensità onirica. Talvolta la difficoltà ha del ludico: in acrostico si cela non più il senhal ma il vero nome della donna amata (come fare per iniziare i versi con le stesse lettere?).   La tradizione della traduzione poetica romena vuole che alla rima corrisponda rima, che a rimalmezzo corrisponda rimalmezzo, a marcatura marcatura e così via: e tutto questo labirinto stilistico, cui è stata dedicata un’intera biblioteca, va indagato, capito, prima di essere, in qualche modo, reso in un’altra lingua.
Ma c’era di più: c’era il modo in cui questo poeta, apparentemente così lontano da ogni impegno, aveva saputo fare del suo verso un simbolo di resistenza morale. A questo messaggio il nostro lettore era particolarmente attento nell’epoca che precedeva il 1989; e poesie come Primavera hitleriana, con il suo messo infernale attraversante le strade tra alalà di scherani, evocavano stranamente esperienze immediate, così come le purghe del Sogno del prigioniero o i «bastioni d’ebano» di Botta e risposta, le allusioni antitotalitarie della seconda parte di La Bufera e altro o di Satura parlavano in maniera talmente inequivoca al lettore romeno che, ancora oggi, ho la convinzione che per comprendere a fondo questo Montale, per così dire politico, bisognava aver fatto in qualche modo l’esperienza della dittatura. E se, devo confessarlo, vibravo di meno al moralista Montale (ma quanto il “dopo” che pure noi abbiamo vissuto in seguito all’incredibile “tonfo” si sarebbe rivelato perentorio anche per noi!), ero invece sensibile a ogni più recondito sarcasmo, a ogni allusione che, lo sapevo benissimo, sarebbe stata efficacemente recepita dal nuovo pubblico che cercavo di conquistare per il grande poeta. Da questo punto di vista nessuno sforzo era inutile se il testo poteva essere compreso in tutta la sua straordinaria carica di nausea politica ed esistenziale.
Che dire ancora? L’avventura è stata appassionante e, per parafrasare il poeta, il mio “sogno” di poter condurre a termine una versione montaliana integrale “non è finito”. Se, quindi, è concessa una confessione anche a chi, come me, traducendo Montale non pretende che essere un lettore del poeta, essa potrebbe essere questa: che il tentativo di tradurlo ha fatto di una sempre ripresa lettura un atto di umiltà e di gioia, di riconoscimento e di ininterrotto fervore.

In: Premio Città di Monselice per la traduzione letteraria e scientifica 25-26-27, a cura di Gianfelice Peron, Monselice, Comune di Monselice-Padova, 2002, Il Poligrafo, pp. 195-200.

La parte che va da «Il tempo mitico dell’infanzia» a «Elegia di Pico Farnese, uno dei testi più alti che il poeta abbia scritto» corrispondono a parti che si trovano, non contingue, nella Prefazione delle Poezii. Inoltre la parte che va da «E poi c’è la guerra degli umani e la guerra cosmica» fino a «vero nome della donna amata (come fare per iniziare i versi con le stesse lettere?)» rappresenta una riformulazione di un'idea anch’essa presente nella Prefazione. Le restanti parti sono state scritte appositamente per la Presentazione a Monselice [3] (Lorenzo Renzi)


2. Lorenzo Renzi Relazione al Premio Monselice (2002)

Marian Papahagi fece arrivare la sua traduzione di Montale alla giuria del Premio Monselice alla sezione intitolata al poeta e studioso veneziano Diego Valeri dedicata quell’anno alle traduzioni di Montale, e, come si legge nella Relazione della Giuria, risultò vincitore. In questa si legge, tra l’altro, che l’olandese Michel (Vert.) Bartosik con il suo di De roos in de kermistent [Una rosa nel giorno di fiera] Kwadraat 1984, aveva conteso lungamente il Premio “Diego Valeri” alla traduzione romena. La Giuria aveva discusso a lungo. Il fatto che la traduzione di Papahagi abbia trovato sulla sua strada questo valoroso concorrente, e in realtà anche molti altri, e abbia prevalso, sottolinea ancor più i meriti di Papahagi traduttore, a cui il Premio “Diego Valeri” 1997 è stato assegnato.
Avevo scritto:

In questa traduzione senza testo a fronte, Marian Papahagi presenta quasi la metà delle 650 poesie di Montale (il testo è esemplato sull’edizione critica Bettarini-Contini).
Ben un terzo è dedicato all’“ultimo” Montale (dopo La Bufera), il che, se non rispetta le proporzioni della produzione di Montale (all’inizio distillata parcamente, poi fluviale), rappresenta tuttavia un impegno coraggioso rispetto all’opzione più comune, che continua a prediligere la parte ermetica della sua produzione poetica su quella prosastica successiva. Pregevoli, anche se non sempre pertinenti al testo o al tono montaliano, le illustrazioni di Ioan Horvat-Bugnariu.
L’edizione è uscita miracolosamente in un anno maledetto di cupa sofferenza, il 1988, quando la Romania aveva raggiunto il suo punto più profondo sotto la scure di Ceaușescu: la rivolta che ha posto fine al regime è seguita nel dicembre 1989. «Sobre el bolcán la flor».
Una lucida Prefazione ripercorre le tappe dello sviluppo della poesia di Montale; rapidi, ma precisi rilievi stilistici si trovano nella Nota sull’edizione (le brevi note alle singole traduzioni hanno, invece, carattere meramente esplicativo). L’antologia è conclusa con una silloge critica aperta da testi autoesegetici dello stesso Montale, seguito da Giuseppe De Robertis, Solmi, Contini, Avalle e altri.
La traduzione è fedele alla lettera montaliana e al tempo stesso ne rende, spesso con esiti molto felici, la musica sommessa e talora zoppa. Versione ritmica, dunque, ma attenta alle deroghe continue della poesia di Montale alla regolarità metrica. L’impasto lessicale sostanzialmente neologistico evita di gareggiare in preziosità con Montale. Corre così il rischio calcolato di un certo impoverimento (almeno nei testi fino alla Bufera), ma non cade nella trappola più pericolosa costituita dal ricorso preziosistico al lussureggiante strato lessicale paleoslavo e bizantino, riserva di caccia troppo ricca della poesia rumena. L’essenziale lingua poetica rumena della traduzione di Papahagi, del resto, è in sintonia con quella di alcuni dei migliori poeti rumeni contemporanei.
Leggendo il suo Montale, si avverte sotto, passo per passo, il testo italiano. A riprova, propongo, per chi non sa il rumeno, questi pochi versi da Dora Markus:

            A fost unde podul de lemn
duce în Portul Corsini…

            ...Acum în Carinția ta
un mirt înflorit și cu iazuri…

            ...Dar e tîrziu, e tot mai tîrziu.

Nella resa dell’ultima produzione montaliana Papahagi indovina regolarmente il tono giusto, un parlato raffinato, non esente da snobismi, che sbocca quasi sempre nell’ironia. Molte traduzioni di questa sezione mi sembrano assolutamente esemplari, da mettere in un’ideale antologia delle traduzioni da tutte le lingue in tutte le lingue...
Per chiudere, due parole sul traduttore ed esegeta Marian Papahagi. Di origine arumena, professore ordinario di Italiano all’Università di Cluj, laureato a Cluj e poi a Roma con Aurelio Roncaglia (nella baldoria del 1968, con una tesi seria sulla lirica del Duecento, tesi che è all’origine di un libro apparso in rumeno molto più tardi, nel 1991). Ha scritto diversi lavori su autori italiani, soprattutto moderni e contemporanei, ma anche sulla letteratura rumena e su altre letterature romanze. Traduttore dall’italiano di Croce, di Pareyson, di Luciana Stegagno Picchio, ma anche di Guido Morselli, dal francese di Barthes ecc. Membro in patria dell’Unione degli Scrittori e vincitore di diversi premi letterari, ha fondato la rivista «Studi italo-rumeni», il cui primo numero è apparso quest’anno. E al momento, con ogni probabilità, il maggiore italianista della Romania; contro la tendenza oggi in atto, non è superspecializzato, ma spazia in territori storico-letterari vastissimi. Ma questo eclettismo si accompagna, come raramente avviene, alla più grande competenza e precisione - come anche questa traduzione di Montale dimostra.

In: Premio Città di Monselice per la traduzione letteraria e scientifica 25-26-27, a cura di Gianfelice Peron, Monselice, Comune di Monselice-Padova, Il Poligrafo, 2002, pp.177-178 all’int di relaz della giuria 167-189 a p.189 fot di m p che lgge al microfono durante la seduta di premiazione su un quarto di tavola


3. Lorenzo Renzi Necrologio di Marian Papahagi (1948-1999) (2003)

Tra i vincitori del Premio Monselice 1997 c’era Marian Papahagi per un suo volume di traduzione in romeno di poesie di Eugenio Montale (vedi Premio Città di Monselice per la Traduzione letteraria e scientifica, 25-26-27, Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 177-178, riprodotto qui sopra).
Marian Papahagi è morto a Roma, dove dirigeva l’Accademia di Romania, il 18 gennaio 1999, a quarantanove anni. La sua scomparsa prematura ha privato il suo Paese del maggiore studioso di letteratura italiana, e l’Italia di uno dei maggiori studiosi della sua letteratura. Ma Marian Papahagi non era stato solo questo: animatore di un circolo di intellettuali dissidenti dal regime di Ceaușescu raccolto attorno alla rivista letteraria «Echinox», dopo la caduta del regime (dicembre 1999), era stato portato a posti di responsabilità. Viceministro alla cultura, aveva tracciato le linee dell’autonomia universitaria nel suo Paese, tuttora non realizzata.
Marian Papahagi era di origine macedoromena, di quei Valacchi stanziati tra Ohrida e il Monte Olimpo che, perseguitati dai Turchi, avevano trovato rifugio dopo la Prima Guerra mondiale nella lontana madrepatria. La sua famiglia aveva prodotto nel Novecento tre eruditi: Nicolae, storico, Pericle, studioso della lingua e dell’etnia macedoromena, e Tache, etnografo e folclorista. Marian era nato nel 1948 a Rîmnicu Vîlcea. Aveva frequentato il liceo e si era laureato a Cluj nel 1968, e poi anche a Roma, da borsista, nel 1972. Dal 1973 era diventato assistente nell’Istituto di Italiano dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj, dove avrebbe rapidamente percorso i gradi della carriera accademica, diventando ordinario nel 1992. Ma di nuovo a Roma avrebbe conseguito in seguito anche il dottorato di ricerca nel 1985. Gli studi italiani di Papahagi si erano svolti a Roma, nell’Istituto di Studi romanzi sotto la guida di Aurelio Roncaglia: alla sua scuola Papahagi era diventato medievalista, la scommessa più difficile per il rappresentante di una cultura che comincia con il Barocco e che ha la bussola puntata sulla Parigi dell’Ottocento. Ma la tesi di dottorato di Papahagi, apparsa come volume con il titolo, dalla singolare risonanza gramsciana, di Intelectualitate și poezie. Studii despre lirica din Duecento (Gli intellettuali e la poesia. Studi sulla lirica del Duecento), București, Cartea Românească, 1983, mostrava in che misura sovrana Papahagi si era impadronito della materia. Il libro contiene un panorama della poesia volgare d’amore (amor sacro e profano, come scriveva felicemente l’autore del Duecento): san Francesco e Jacopone, da un lato, da Jacopo da Lentini a Cecco Angiolieri e Folgore attraverso Guittone, Guinizelli e Cavalcanti. Si tratta di un grande affresco in margine a quello che definirei il più grande libro specialistico della cultura italiana del secondo dopoguerra: I poeti del Duecento di Gianfranco Contini. Se gli intellettuali e la poesia è veramente, come sembra, la sua tesi di dottorato, bisogna dire che, enorme sintesi letteraria, assomiglia pochissimo al genere della tesi di dottorato italiana. Marian Papahagi era uomo capace di assimilare quello che voleva, ma non di lasciarsi assimilare: la sua opera sembra segnata da quella stessa ansia universalistica ed enciclopedica che si ritrova in tanti eruditi romeni del passato, Dimitrie Cantemir e Bogdan Patriceicu Hașdeu, ma anche del passato recente e del presente, Nicolae Iorga e Mircea Eliade.
La produzione di Papahagi comprende ancora sette volumi, i cui titoli riporto in traduzione italiana: Esercizi di lettura (1956; un titolo continiano, questa volta, dedicato a letture di poeti italiani, romeni, portoghesi e brasiliani); Eros e utopia (1980; sulla letteratura romena), Critica di atelier (1983; critica ermeneutica su autori romeni e italiani), La bilancia e il segno (1991) e Il diritto e il rovescio (1993; sulla letteratura romena), Frammenti sulla critica (1994), Interpretazioni su temi dati (1995; letteratura moderna). Postumo, cura del figlio Adrian, valente giovane anglista, è apparso un libro di interventi e interviste Ragioni d’essere (1999), comprendente vari temi, in particolare quello dell’istruzione universitaria e delle altre istituzioni culturali (del suo impegno su questo fronte abbiamo già detto). L’ultimo testo è il progetto di legge sull’autonomia universitaria in Romania al quale aveva lavorato nel 1990: 46 articoli, comprese le norme transitorie (una nota dopo il titolo: Progetto respinto).
Romenista, come si è visto, non meno che italianista, Marian Papahagi dirigeva, con M. Zaciu e A. Sasu, il Dizionario degli scrittori romeni. Aveva tradotto dall’italiano in romeno l’Estetica di Luigi Pareyson, la Letteratura brasiliana di Luciana Stegagno Picchio, il volume Eminescu o dell’Assoluto di Rosa del Conte, e anche uno splendido romanzo il Divertimento 1889 di Guido Morselli. Dal francese aveva tradotto Michel Butor di A. Helbo e il Piacere del testo di Roland Barthes. Tra i poeti aveva tradotto, oltre a Montale e a Dante (ci torneremo), il brasiliano Murilo Mendes, un autore che aveva scritto, oltre che in portoghese, anche in italiano. La passione portoghese di Papahagi aveva preso origine probabilmente anch’essa a Roma, a contatto con la personalità affascinante di un’altra grande studiosa della Sapienza, Luciana Stegagno Picchio.
Poco prima di morire, Marian Papahagi aveva fondato la rivista «Studi italiani» che i suoi colleghi dell’Università di Cluj, con Helga Tepperberg in primo piano, si sforzano con fatica e con ardore di proseguire. Continua le pubblicazioni la rivista letteraria militante «Apostrof», di cui era stato uno dei fondatori.
È peccato che il lettore italiano non trovi niente di Papahagi da leggere nella nostra lingua. Lo stile critico di Marian Papahagi era denso e complesso, ma mai oscuro. Destinato dalla molteplicità dei suoi interessi e, da un certo anno in poi, dei suoi impegni, a scrivere (e a vivere) in fretta, Papahagi era accurato nei dettagli come nell’insieme. Perché non aveva mai scritto in italiano? Perché Papahagi non scriveva per vanità e per essere noto, ma per passione e pensando al suo Paese, al quale pensava di trasfondere come una linfa vitale quel che di meglio c’era all’estero, soprattutto in Italia. Una preoccupazione nazionale e sociale è presente, senza enfasi, in tutta la sua produzione, e aveva ispirato tutta la sua azione politica dopo il 1989, quando una generazione alla quale era stato ordinato, fin allora, non solo di non agire ma anche di pensare il meno possibile, si era trovata improvvisamente di fronte a enormi responsabilità.
Aveva concepito e concepiva in continuità grandi progetti. Istituzioni e libri. In poco tempo ne aveva già realizzati molti. La morte ha troncato, tra l’altro, la sua traduzione metrica, in terzine, della Divina Commedia. L’impresa era già stata tentata altre volte in Romania e, direi, non senza successo: Papahagi stesso ricordava due traduzioni celebri, quella di George Coșbuc, e quella di Eta Boeriu. Quest'ultima, come Papahagi stesso era di origine macedoromena e abitava a Cluj: aveva ottenuto anche lei un premio speciale nella quarta edizione del Premio Monselice 1974 per l’altra sua grande traduzione, quella del Canzoniere del Petrarca.
Ho qui davanti a me, mentre scrivo, un fascicolo della rivista dell’Unione degli scrittori di Cluj, «Apostrof», del 1999, interamente dedicato a Papahagi. Nel “dossier Papahagi” sono riprodotte le splendide traduzioni, con note, dei canti 1-8, 10 e 34 dell’Inferno. Nel frattempo altri inediti sono apparsi, ma la traduzione intera, come tutta l’attività di Papahagi, era destinata a restare per sempre interrotta.

In Premio Città di Monselice per la traduzione letteraria e scientifica 28-29-30, a cura di Gianfelice Peron, Monselice, Comune di Monselice-Padova, Il Poligrafo, 2003, 131- 134.
A p. 130, bella fotografia a tutta pagina di Marian Papahagi nel suo studio, con la didascalia Marian Papahagi (1948-1999) Studioso e traduttore rumeno, vincitore del Premio Internazionale/ «Diego Valeri» nel 1977-XXVII Edizione del Premio Città di Moselice/ per una traduzione letteraria e scientifica.




Lorenzo Renzi
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)





NOTE

1. Più tardi alcune delle traduzioni di Papahagi sono apparse in: Eugenio Montale, Poesie/Poezii, Traducere în italiană de Florin Chiriţescu, Ilie Constantin, Marian Papahagi, Dragoş Vrânceanu, Filofteia şi Şerban Stati, Ediţie şi note de Şerban Stati, Bucureşti, Humanitas, «Biblioteca Italiana», 2016.
Su Marian Papahagi traduttore di Montale vedi l’ottimo studio di Mariana Istrate, Marian Papahagi traduttore di Eugenio Montale,http://www.diacronia.ro/ro/indexing/details/A15576/pdf
2. I primi due testi sono ora anche in rete: http://www.ossicella.it/archiviowordpress/27primaparte.pdf
3. Devo questa informazione a Monica Fekete che ringrazio di cuore.