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Paolina Leopardi alle «gentili anime»: confidenze di una vita quasi inutile…
Loretta Marcon, studiosa dell’opera e del pensiero di Giacomo Leopardi, concepisce un monologo la cui voce solitaria è Paolina (1800-1869), sorella del grande poeta, terzogenita e unica figlia dei dieci figli del conte Monaldo e della moglie Adelaide.
Donna coltissima, scrittrice e traduttrice, molto legata al fratello, in questo soliloquio immaginario ma autentico perché basato rigorosamente sui suoi carteggi, Paolina viene riscattata dall’autrice che la toglie dall’ombra in cui è stata relegata e ce la propone nella sua viva personalità, sullo sfondo dei costumi arcaici dell’epoca.
Paolina fu autrice di diverse traduzioni dal francese, come il Viaggio notturno intorno alla mia camera di X. de Maistre, e La vita di Mozart di Stendhal; scrisse la memoria Monaldo Leopardi e i suoi figli e l’opera Statistica delle persone morte in vari accidenti nel corso dell’anno 1859, rimasta inedita, insieme con molti volumi di traduzioni.
Monologo
Non vorrei deludervi, Voi che avete attraversato il tempo per raggiungermi, per sapere di me, per ascoltarmi. In verità la mia vita non è stata ricca e variegata tanto da meritare una biografia, così come probabilmente Voi l’intendete. Io non ho saputo dipingere i miei anni né ho aperto le mie ali…
Già! I miei tempi non sono i Vostri. So bene che negli ultimi decenni del Vostro tempo l’interesse ha iniziato a circondare la mia persona e mi chiedo il perché, cosciente come sono che esso è nato grazie al mio cognome, adorno di alloro senza miei meriti.
Poiché me lo chiedete, ripercorrerò insieme a Voi gli anni tormentati e solitari della «giovanezza» e quelli tristi e delusi della «vecchiezza». Comincerò guardandomi allo specchio, questo specchio ingrato che Voi vedete e che mi fu compagno impietoso nel togliermi ogni illusione di bellezza.
Aprii gli occhi in questo bel mondo il 5 ottobre 1800. La mia persona non faceva certo girare la testa: non sono alta e i miei capelli non sono biondi e fluenti simili a quelli delle mie antenate, la mia pelle non è candida, la bocca è appena accennata e il naso… meglio non parlarne…
Quante volte ho segretamente pensato che questa mia bruttezza fosse dovuta al ruzzolare di mia madre giù per le scale mentre mi aspettava? Innumerevoli!
Assurdo questo pensiero, vero?
Già! Mia madre… presenza incombente nella mia vita, cinquantasette anni di regole rigorose per diventare una brava damina cristiana e ben educata. La tenerezza materna sembrava a lei sconosciuta, tutta dedita com’era a indorare nuovamente il blasone sbiadito del nostro Casato. Ancor oggi mi chiedo se quello che è il calore di una madre fosse a lei noto, mentre considero ciò che furono i suoi giovani anni, fatti di collegio e di solitudine. Il suo appoggio era nel fratello, mio zio Carlo, proprio come fu per me con Giacomo. Mia nonna, contessa Teresa, dama di corte, non si occupava di loro.
I miei ricordi su di lei sono scarsi e sbiaditi e si perdono in un frusciare di sete e taffetà. Mia madre invece era una donna ultra rigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana che professava regole di austerità assolutamente impraticabili che impose a noi figli ma prima ancora a se stessa.
La Biblioteca le era pressoché sconosciuta: non amava scrivere se non alcune preghiere che, lette ancor ora, mi fanno rabbrividire per il loro preferire la morte piuttosto che il peccato. L’ossessione del peccato in una religione portata allo spasimo!
E poi mio padre, uomo distinto per integrità di costumi e di morale. La nostra biblioteca, costruita da lui poco per volta, era invidiata da tutti e quel luogo, unito all'amore che egli portava agli studj, fu per me ed i miei fratelli il miglior esempio di vita. Mio padre diffidava delle Università e dei Seminari e preferì mantenere in casa alcuni maestri che ci fecero scuola in un domesticum lycaeum.
Potrei riassumere il suo rapporto con mamà con queste parole: si dette il caso, quand’io era piccina piccina, o anche forse quando non ero nemmeno nata, che la gonnella di mia madre s’intrecciò fra le gambe di mio padre, non so come. Ebbene! Non è stato più possibile ch’egli abbia potuto distrigarsene. Se non era questo fatto, noi ottenevamo tutto da papà ch’è proprio buonissimo, di ottimo cuore, e ci vuole molto bene; ma gli manca il coraggio di affrontare il muso di mamà anche per una cosa lievissima.
La vita continuava monotona in casa nostra, all’interno del nostro nobile Palazzo all’apparenza ricco, ma in realtà oscuro e alle prese con strette economie. La mamà girava per tutta la casa, si trovava da per tutto, e a tutte le ore; camminava lungo corridoi e stanze con un mazzo di chiavi appeso alla cintola e quello stridìo accentuava l’impressione di una prigionia non solo simbolica. Calzava un paio di stivaloni e manteneva la gonna rialzata come usavano le contadine perché ai suoi compiti di serrato controllo giornaliero poco si sarebbero adattati trine e gioielli. Questi ultimi svaniti da tempo per le necessità del nostro nobile Casato. Le sue regole impossibili avevano costretto noi fratelli a stringere un patto di fratellanza per darci sostegno l’un l’altro contro la sua rigidità. Eravamo una sola persona durante le tante ore di studio trascorse gomito a gomito, seduti ai tavolini della biblioteca. E ancor più uniti eravamo quando, scesa la sera, ci inventavamo giochi che ora a parlarne sembrano incredibili: io che dicevo Messa, eletta abate dai miei fratelli, solo perché il mio abituccio scuro ricordava i preti che giravano per casa, ospiti e maestri. Questi erano i nostri passatempi all’interno di quella vita austera quale ci era riservata.
Quanto mi sentivo legata a Giacomo! Qualcosa di speciale univa le nostre sensibilità, eravamo uguali e io per lui ero Pilla, buon compagnoe ottimo copista quando i suoi occhi non gli consentivano di scrivere.
Seduti sul letto nella stanza buia le nostre parole fluivano poco meno che silenziose mentre la notte spingeva sui vetri che la luna illuminava.
La mia vita non mi offre alcun scatto di novità da raccontarVi. Il mio quotidiano monotono, così diverso da quello delle damigelle mie pari, può ancora sollecitare il Vostro ascolto? Può un’esistenza come la mia, priva di sorrisi e di colori, arrivare al cuore delle «gentili anime»? Leggo nei Vostri occhi l’attesa e un certo qual luccicore e così sfidando la mia ritrosia continuo a ripercorrere i miei giovani sentieri.
Nessuna damigella di Recanati era colta come me ma, ahimè, Voi potete ben immaginare come nel mio tempo questa virtù non aiutasse affatto a trovare marito. E poi, non conoscevo i fruscianti abiti da ballo, i ventagli di pizzo delle damigelle in età da marito e i bei salotti frequentati da giovani galanti. Unica civetteria permessa era un fluff di acqua odorosa, quella che apprezzava anche mamà.
Anche quella fragranza aiutava le illusioni e la speranza…
Avevo diciannove anni quando in casa iniziò l’umiliante ricerca di un marito. Assistevo impotente e senza alcuna voce. Il primo pretendente, il secondo, il terzo e poi ancora il primo… le contrattazioni non portarono a nulla. Troppo scarsa era la dote e poco avvenente il mio volto mentre la mia cultura faceva paura.
Ma… sì, in verità ci fu uno che, quando avevo già perso le speranze, mi chiese in sposa ma non mi crederete se Vi dico che invece all’improvviso mi scoprii altezzosa, più che orgogliosa, con quel signorino di un ingegno oscuro, oscuro come il suo nome. Perché se io non avrò per marito uno del mio grado, che conti i quarti di nobiltà che ho io, almeno dovrà essere uno che per i suoi talenti, per il suo ingegno, per le sue azioni si sia fatto un nome, non uno di cui debba io arrossire ogni momento, ogni volta che parla, mi ami egli pure quanto vuole, non è affatto certo che io possa amarlo, che possa amare una persona tenuta da tutti per meschina in ogni genere; l’amore di una tal persona non ha nessun pregio agli occhi miei perché io non posso né stimarla né amarla.
E così, qui sono rimasta. In questo paese infame e maledetto e senza speranza anche remotissima di miglioramento. In questa mia famiglia, carcere senza sbarre ma per me serrato irrimediabilmente, dove noi persone giovani continuiamo a vivere veramente in modo spaventevole; dove si sente tutto il peso della vita, senza sentirne per un solo istante un’ombra di sollievo, di alleggerimento dalla noja, dal dolore.
Eccomi qui: caduta la speranza, poco a poco inizio a vivere o, meglio, ad assistere a quella che mio fratello Giacomo chiamava «la strage delle illusioni». Illusioni che sfumarono miseramente trasformandosi in delusioni. Una lenta caduta di foglie ancora giovani…
Non ci sarà mai un velo bianco sul mio capo, forse solo una corona di biancospino.
Non sarò sposa e ormai so che rimarrò figlia.
Mi vergognavo pure di piangere perché avevo da mangiare quanto volevo, da dormire quanto volevo, potevo lavorare e non lavorare se mi piaceva: non sono innumerabili quelli che si chiamerebbero felicissimi se potessero fare questa vita? Dunque ero io che non mi contentavo mai, che avevo dei desideri insaziabili, che formavo l’infelicità mia e l’altrui.
È vero, io non me ne ero accorta! Se avessi potuto cambiare questa mia testa e questo mio cuore con la più sciocca testa e il più freddo cuore che fosse al mondo, l’avrei fatto volentieri, e certo sarei stata allora più felice e più lieta.
Unico sollievo era la ‘carta’. Sì, la ‘carta’ dei miei libri, quella della corrispondenza segreta con le mie amiche che vivevano nel mondo… E poi, la ‘carta’ cui confidavo le mie disperazioni. Come in quel biglietto che Voi avete ritrovato nel vostro tempo, tra le stampe di quelle preghiere che ogni giorno si recitavano in casa. Un pezzetto del mio cuore, quel biglietto ove scrissi: Mi sento una melanconia indicibile. Capisco che l’avrò sempre finché sarò in questa casa. Ma purtroppo non vedo il modo di uscirne. Povera me!
Ho trentadue anni: sono giovane? Sono vecchia? Non lo so… ora che la speranza è perduta, mi restano solo il sogno e l’immaginazione. Ho imparato a volare oltre la siepe, a cancellare le sbarre invisibili della mia casa leggendo racconti di viaggio e scrutando carte geografiche e attendendo spasmodicamente quelle lettere che prima Giacomo e poi Marianna e Vittoria mi inviavano. Leggevo, mi imbevevo delle vite delle mie amiche segretamente, nascondendomi alla mamà che non sopportava neppure quella corrispondenza. Mi accontentavo!
Ecco, vedete? Stavo imparando ad adattarmi e a convincermi dicendo a me stessa, e poi scrivendo a Marianna: che saranno mai gli uomini…Perché sospirare per essi? Basta osservare come trattano le donne! Noi non possiamo neppure lamentarci perché essi hanno il diritto di far tutto. Ma non è forse meglio mille volte esser libera, che divenir serva di chi non ricambia l’amore e poi, ogni matrimonio è una servitù, più o meno rigorosa, secondo il grado dell’amore che ha fatto il contratto, ma sempre servitù.
Non fui mai amica dell’ago e del telaio e non riempivo le mie giornate in loro compagnia. Fu mio padre a fornirmi l’occasione di quello spiraglio sul mondo che per molti anni rappresentò la mia salvezza. Mi aspettava in biblioteca per scegliere e poi tradurre gli articoli da pubblicare sui suoi giornali. Lui mi chiamava la tutta di tutti perché la mia dedizione al tavolino era assoluta. Segnalavo pagine, correggevo stamponi, lavoravo giorno e notte per dimenticare la mia solitudine di donna.
Caro, carissimo signor padre, voi non avete saputo vedere ciò che mi spingeva totalmente a quelle occupazioni.
Solo la notte con il suo nascondimento e i suoi fantasmi era mia. Alla «fioca lucerna», sedevo a un altro tavolino: quello riservato allo spazio del cuore.
E poi la scoperta di quell’opera francese che mi catturò l’anima e il cuore. Nel titolo mi riconobbi subito: Viaggio notturno intorno alla mia camera. Eppure quanto diversa era la motivazione che spingeva l’autore a ricercare la solitudine. Lui per ripararsi dai rumori del mondo, io costretta ad essa, chiusa nella mia camera. Decisi di tradurla.
Mano a mano che progredivo, scoprivo quella questione di cui tanto avevo discusso con Giacomo: meglio affidarsi al cuore o alla ragione?
Mia divenne quell’opera! e molto di me misi in quella traduzione.
Talvolta sembra che la sofferenza non debba mai finire anche se tanto le si è dato.
Si era alla fine del mese di giugno del 1837, quando giunse da Napoli la notizia della morte del mio adorato Giacomo, fratello-amico, confidente, specchio della mia anima. Sono rimasta quasi sola, perché quella era l’unica mia compagnia ch’io avessi a ogni ora, a ogni istante – ah soltanto Iddio poté vedere la misura della desolazione in cui ero, ed egli solo poteva consolarla richiamandomi a lui…. Io ne metteva da parte da lungo tempo tante cose a dirgli, tante altre da dimandargli, io che pensava sempre a quel primo momento in cui lo avrei riveduto, e alla dolcissima emozione che ne avrei provata.
Giacomo era scomparso e, insieme ai ricordi, di lui mi restarono i tanti piccoli fogli scritti fittamente, come lui usava fare: riflessioni orfane della loro conclusione, note, versi o anche solo parole… quelle parole che per lui erano preziose perché includevano il cuore e la bellezza… così «diverse dai termini».
E intanto continuavo a vivere in un luogo orrido ed abborrito, sola sempre coi miei tristi e lugubri pensieri, senza nemmeno poter godere altra vista del Cielo che quella che vedo dalla mia finestra. Certo, dei divertimenti non mi curavo più gran cosa; sapevo bene quanto sia faticosa la vita del gran mondo, e per me non è stata mai desiderabile, e molto meno lo è ora anche se so che esiste un tenore di vita meno sacrificato.
Come per Giacomo, il pensiero era per me martirio gocciolante dentro l’anima. Eppure non ho mai smesso il viaggio all’interno di me stessa. E, come si sa, il pensiero dà i suoi frutti e infatti un giorno scrivendo a mia cugina Ippolita osservavo amaramente:
io non son più quella di una volta, non son più com’era quando passavamo le ore ragionando, e non ci avvedevamo punto ch’esse scorrevano sollecite – ora ho perduto affatto l’abitudine di esprimere i miei pensieri, le mie idee – ancora sento, e vivamente sento, ma non trovo più né la forza né il modo di render conto delle sensazioni che le bellezze dell’arte, e particolarmente quelle della natura, eccitano in me e fanno battere il mio cuore.
Sfumarono dieci anni e il velo della morte, di nuovo, aleggiò alla nostra porta per rapire il povero mio padre. Con lui se ne andavano anche i cari giorni trascorsi tra gli «amati studi e le sudate carte», balsamo perfetto per la solitudine di una donna come me.
Già il «caro tempo giovanil» era volato via…
E, più di prima, ero accanto a mia madre, che manteneva le redini dell’amministrazione, per scrivere le sue lettere e per aiutarla nel suo quotidiano, mai sereno e sorridente, sempre rigido e impassibile.
Ero invecchiata ma mamà non se ne accorse mai… Ogni mio movimento doveva essere sotto il suo controllo. Non uscivo da sola. Anche una gita nella vicina Loreto provocò il suo disappunto.
Sì, ero diventata un’altra persona e anche la mia intelligenza si era forse affievolita sotto il peso degli eventi.
Ancora dieci anni e l’inflessibile mia madre raggiunse l’amato consorte. Io, sbigottita, mi accorsi improvvisamente di essere sola e libera.
Ma libera di far cosa? Forse di uscire, di vestirmi come voglio, di fare ciò che voglio?
Come si fa? Nessuno mi ha insegnato cosa sia la libertà!
Poco per volta credetti di aver imparato ma non era vero.
Eppure ero a capo di una vasta amministrazione; avevo molti servi, ma moltissime cose facevo io e tutte le sorvegliavo, poco tempo mi restava, e questo lo adoperavo nella lettura, tanto a me necessaria per divagarmi da tanti tristi o fastidiosi pensieri.
Non ero più Pilla, ero una nuova Paolina, vittima anche con le catene sciolte. Gli anni trascorsi nell’attesa di libertà mostravano, insieme all’avvizzimento della mia pelle, l’apparire di un sentimento che poco a poco, quasi impercettibilmente, sembrò chiudermi l’anima.
Ho preso con me un cagnolino per riversare su di lui tutto il mio bisogno di dare e ricevere affetto. L’ho chiamato Lovely e quando gli ero lontana sentivo mancarmi un pezzetto di cuore.
Mi vestivo anche di rosso, con grande meraviglia dei servi e dei contadini, suscitando perfino lo scandalo del Borgo. Ero vecchia e mi vestivo di rosso! Mi piaceva il rosso! Mi piaceva la vita!
Troppo avevo portato il nero senza lutto o, forse sì, il lutto di me stessa.
Però non bastarono i viaggi e i vestiti sgargianti e non bastò neppure la doratura che ho fatto fare al mio letto. Non bastò il poter comprare e riporre negli scaffali della biblioteca qualcuno di quei bei tometti moderni che ho sempre desiderato.
Era il tempo in cui dissi a me stessa di dimenticare le carte geografiche e gli itinerari seguiti con il dito. Finalmente padrona di me stessa decisi di mettermi in viaggio: Firenze, Reggio Emilia, Parma, Modena e poi Foligno, Assisi, Bari e Brindisi. Brevi spostamenti che rappresentarono soprattutto un ripercorrere le tappe che già furono di Giacomo. E, finalmente, quel pellegrinaggio a Napoli compiuto per piangere e pregare su quella che credevo essere la sua tomba.
Ancora ricordo perfettamente la data in cui potei baciare quel marmo che mi separava da lui: era l’8 aprile 1867 quando mi sentii riunita al mio amato Giacomo. E non potrò mai descrivere l’emozione che provai. Narrai i miei sentimenti a Teresa, mia cognata, la mia carinella divenuta la mia confidente anche se, temo, non mi abbia mai amato veramente tanto quanto ho fatto io.
Continuai le mie peregrinazioni in cerca di «vita», fui omaggiata per essere stata sorella di tal genio ma il mio animo restava tristemente inquieto.
Mi resi ‘finalmente’ conto che il mio tempo era passato portandosi via illusioni d’amore e di libertà. Era tardi anche per gioire dell’incontro con quelle amiche che per trent’anni mi avevano sostenuta con le loro lettere: Marianna e Anna, il loro luccicante mondo del teatro, che avevano alimentato il mio «caro immaginar» di reclusa. Le amiche di penna erano svanite nelle spire del tempo e vicino a me rimasero solo Lovely e Teresa. Diversi ‘abiti color affetto’.
Trovai un po’ di conforto passeggiando a Pisa, quel luogo così amato da Giacomo che mi aveva descritto gioiosamente quella città. Mi scriveva: «Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico».
Se in lui era rinata la sua Musa, in me rimase invece quella strana melanconia che non se ne voleva andare, al punto che talvolta persino il gorgoglìo del fiume mi dava fastidio.
Giacomo perché non eri con me? La tua amata presenza non era al mio fianco nella dolce Pisa, quando cercavo quella tua strada, quando mi abbandonavo al vento leggero immaginandolo messaggero dal tuo Infinito e portatore dei cari versi sparsi nell’aere del tempo.
A Voi, gentili anime, che mi state ascoltando, confido ancora quel bisogno di empatia che fu sempre profondo e recondito dentro al mio cuore. Libertà e denari, abiti vivaci e brevi viaggi non bastarono mai alla mia anima troppo sola. Quanto avrei voluto riuscire a suscitare nei cuori altrui questo sentimento! Ho invidiato Vittoria che, pur malata, con le sue poesie aveva saputo associare a quelle gli animi di coloro che avrebbero letto il suo saggio.
Ecco, Vedete? Se saprete leggere con l’occhio del cuore le mie tante lettere, facilmente comprenderete come questo sia stato il vero bisogno che ha accompagnato tutta la mia esistenza.
Permettetemi di dire «esistenza» poiché, come Giacomo mi ha insegnato, la «vita» è cosa ben diversa. Ho vissuto insieme alla sofferenza, compagna silenziosa di tutti i miei giorni, che ritrovavo nella solitudine della mia camera che mi appariva così simile, e pur diversa, in quell’opera che feci mia, e poi in certe mie traduzioni dedicate alla morte prematura di giovani donne e in altri scritti dove ancora vi era presente.
Leggendo e traducendo pagine di e su la sofferenza, quasi senza accorgermene vivevo quel divertissement pacificatore che anche Giacomo conobbe. Non è forse vero che alle «anime grandi la consolazione può derivare anche da questo»?
Io che, a differenza di mia madre, non sapevo piangere in segreto, avrei voluto saper suscitare simili sentimenti. Dote importante e preziosa che apparteneva anche al mio Giacomo e a tutte anime sensibili.
Sto arrivando alla fine di questo mio racconto che pazientemente avete ascoltato. In Voi sto trovando un’altra sensibilità, quella ‘diversa’ tipica della Vostra dimensione, quell’empatia dolce, quel colloquio d’anime, sempre da me, invano cercato.
Ripensando alle parole che Vi ho affidato mi sono accorta di essere ancora cambiata, inaridita forse più di quanto avessi pensato. Quasi simile alla mamà che mai avevo osato contraddire ma che dentro l’anima pensavo colpevole della mia infelicità. Perché? Perché?
Non ho voluto ripercorrere tutti i fatti, i dolori del mio cuore, le delusioni e le illusioni, le ipocrisie e le falsità che pure hanno accompagnato la mia esistenza.
Mentre spero che la mia vita non sia stata inutile, sono certa che le parole affidate a Voi «gentili anime» diranno anche il nascosto e il volutamente dimenticato.
I Vostri occhi hanno accarezzato questa mia anima che sopravvive nell’immenso azzurro Infinito. Da essi traspare, lo ‘sento’, quel sentimento che ho rincorso sempre e che si è dimostrato simile alla linea di un orizzonte mai raggiunto.
Fine
Loretta Marcon
(n. 6, giugno 2022, anno XII)
N.B.
1. Il corsivo segnala le stesse parole di Paolina Leopardi, tratte dai suoi carteggi.
2. I passi virgolettati sono tratti dalle opere di Giacomo Leopardi (versi, discorsi, epistolario, zibaldone).
3. Le virgolette singole sono sottolineature dell’autrice.
4. Gli spazi nel testo indicano le pause più o meno lunghe. |
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