Nel segno, e nel sogno, di Papahagi

L’immagine a me più cara di Marian Papahagi risale al nostro incontro dell’aprile 1996, e ha come scenario una Cracovia luminosa e ospitale, qualità congeniali ai numerosi italianisti che si erano riuniti all’Università Jagellonica per confrontarsi e portare la propria esperienza riguardo a un tema allora urgente: Italianità e italianistica nell’Europa centrale e orientale, e oggi più che mai attuale in quest’Europa dai confini etici scalcinati. Fu l’invito del carissimo Stanisław Widłak, elegante e festante maestro e sodale, a riservarmi la formidabile sorpresa. Vidi arrivare Marian Papahagi di corsa al ricevimento, e in poche battute cominciammo a sentire quella familiarità e consentaneità, così rara, che accomuna senza preamboli. Un uso davvero impeccabile del discorso, e per di più senza inflessioni, mi avrebbe sicuramente tratto in inganno, lo avrei sicuramente scambiato per uno studioso italiano se non avessi chiesto a Stanisław di farmelo conoscere finalmente di persona, dopo aver intercettato nelle mie letture parte del suo sterminato lavoro, quella che era filtrata sino a me, a Firenze, da dove meno di due anni prima di quest’episodio mi ero trasferito a Pécs, dopo il concorso e il ruolo universitario.
Mi rendevo conto proprio a Cracovia che la prima porta europea me la stava aprendo Marian, con il suo carisma, il suo lavoro a tutto campo, che intrecciavano origini e contemporaneità, tradizione e modernità, scrittori europei e opere italiane. E soprattutto era ed è per me esemplare quell’intelligenza diretta alla ricerca filologica e alla divulgazione critica, così da incoraggiare la formazione dei giovani italianisti con spirito comparativo europeo. L’altra porta, in quello stesso periodo, si era aperta grazie alla consonanza con gli scrittori e gli intellettuali europei, alla fraterna amicizia che incoraggiava i miei studi, ovvero fra i primi Miklós Hubay, János Petőfi, Jimmy Kelemen.
L’attenzione di Marian nelle nostre conversazioni a Cracovia era stimolata da mille curiosità e incentivi di riflessione: dalla ricezione più attuale della poesia novecentesca alle incursioni sulle fonti e sull’albero delle influenze. Eravamo quasi alla soglia del nuovo secolo, e tanta vitalità lui me la rendeva chiara anche nella poesia e nel romanzo romeni. Mi ricordai poi di quei precordi iniziatici quando Bruno Mazzoni mi fece conoscere Mircea Cărtărescu che, grazie all’infaticabile voce italiana di Bruno, riuscivo a leggere più speditamente, mentre per le pagine di saggistica, con gli originali alla mano, mi servii dapprima di quel vocabolario adoperato per leggere, o tentare di leggere, i due volumi, allora i più recenti, di cui mi fece dono da Marian. Si trattava di Faţa şi reversul [1], comprendente fra gli altri i saggi su Montale e Morselli, da lui tradotti in romeno, e Interpretӑri pe teme date, esemplare per quell’ermeneutica associativa, di cui dirò più avanti.
Nella conversazione era davvero indimenticabile l’espressione di Marian che sottolineava i passaggi del suo ragionare con un lampo negli occhi e quella divertita espressione che un po’ ricordava Charles Boyer, persino nella gestualità. Il ritratto dello studioso è sconfinato, aperto a delta nel dibattito della sua ricerca, acceso nella perorazione del riconoscimento pieno delle poetiche contemporanee e con l’intersezione connivente dei classici. Marian aveva capito, e lo ha insegnato a tanti suoi allievi, che le invasioni di campo non sono barbariche ma recano le tracce di una grande civiltà della memoria indotta al presente come del presente interlocutorio rispetto alla memoria, in quanto le cose, come le opere, non stanno mai ferme su un piedistallo. Ebbene, con il suo basco nero calato sulla capigliatura resistente e un soprabito stretto alla vita con una cinta, Marian era tra quelli che uscivano dalla nebbia di una storia tragica (anziché entrarvi come nel celeberrimo film), e fra quelli ancor più rari che sapevano coglierne i segni a venire, per quanto periodici e non sempre esemplari, ma forti di una continua attesa, di un rinnovamento, di una insopprimibile curiosità che pone le domande nevralgiche, come fra pochi Marian sapeva fare, ben sapendo che nessuna risposta abolirà mai il caso, l’opportunità, la chance, posti in essere dall’inesausta interrogazione del critico.
Lo studio approntato da Marian Papahagi per l’incontro di Cracovia era una formidabile lectura Dantis, dedicata alla formalizzazione del canone poetico dantesco per come nettamente si configura nel canto IV dell’Inferno. La chiave illuminante da lui proposta riguarda la dimostrazione di una conquista dantesca intrecciata nei passaggi cruciali del canto, a partire dai memorabili elenchi dei «magnanimi» che, avverte l’agudeza di Marian, «sono scarni proprio perché l’accento deve ricadere qui sul luogo e non sui personaggi» [2], come fosse una linea di figure affiche che hanno la funzione di delineare uno spazio piuttosto che una caratteristica umana esemplare.
Un luogo in cui il viaggiatore appena all’inizio del suo peregrinare si attribuisce, come sappiamo, un ruolo preminente, e legittimamente come autore, spiegando se stesso nella relazione con i suoi majores. Qui, esclama Papahagi, «il poeta giunge alla forma definitiva del proprio canone poetico» [3], includendo il proprio nome e rilanciando il superamento di quella supremazia della canzone (in verità smentita nella pratica del sonetto), che gli era apparsa necessaria già nel De vulgari eloquentia. È così che da “magnanimo” Dante si candida ad essere ammesso «in quella rarefatta zona dove stanno solo i massimi – “altissimi” – sovrani» [4]: come a dire che il critico tiene ancora d’occhio la designazione dello spazio, il disegno di un’area entro la quale si muove l’immagine di più soggetti in un insieme, alla maniera di Giotto. Ma per arrivare a questa deduzione, in sé forse prevedibile, Marian Papahagi imbastisce un imprevedibile percorso, nel senso che sollecita alcune argomentazioni in grado di riassumere finanche una poetica critica personale. Nel partire dall’elenco dei “magnanimi”, si dà come obbiettivo «l’idea di un canone dantesco costruito nell’interferenza degli echi di lettura» [5]. Elenchi, dunque, riferimenti, intersezioni, luoghi della mente, eloquenti non tanto per i singoli referenti rintracciati quanto per la forbice che traccia la mappa di una ricerca, trovando se stesso, magari senza volerlo, nell’episodio dantesco dell’autoriferimento. Se, con altro magistrale flash, Papahagi attribuisce alla localizzazione del nobile castello, della città di Dite, e dell’Eden, la dignità di civitates mentis, è perché sono «tutti e tre documenti di quella che chiamerei l’immagine dello spazio di Dante» [6]. Un’immaginazione spaziale che, dunque, si forma attraverso «quella sorta di dialogo intertestuale implicito (fatto di risposte, imitazioni, trasformazioni)» [7]. La scoperta si realizza marciando di pari passo con il vaglio dei riferimenti da parte del critico che, ritengo con soddisfazione, sottolinea l’autorevolezza del suo ragionamento, anche per l’effetto uguale e contrario che provoca il ricordare l’insieme dei personaggi virgiliani (per esempio, gli abitanti del nobile castello in Aen., VI, 674-675) non ha in effetti un luogo fisso perché costoro «non hanno un loro luogo fisso» [8]. Il corsivo, che è di Papahagi, sottolinea la gioia di una formidabile scoperta che, come ho detto, basterebbe in sé a descrivere implicitamente la poetica critica di Marian: il contrassegno di un luogo, piuttosto che marcare la definizione di un confine, accende i punti luminosi interni a una ricerca che promette indicazioni di senso, spazi di relazione, interferenze, echi. A differenza di quello dei personaggi virgiliani, il luogo di Marian Papahagi era nella filigrana del racconto, nella tessitura della sua eloquente indicatività.
A conclusione della mia breve memoria, vorrei rivolgere agli amici dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj-Napoca il mio ringraziamento e i sensi della mia grande ammirazione perché con coerenza dànno vita al Premio che si intitola a un maestro di questa magnifica statura. E anche consentirmi una proposta necessaria quanto urgente proprio nel ventennale della scomparsa di Marian: unire le forze perché tutta intera l’opera del critico e dello scrittore sia pubblicata in lingua italiana a beneficio delle attuali e delle future generazioni di italianisti e comparatisti europei.









Luigi Tassoni
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)



NOTE

1. Cfr. M. Papahagi, Faţa şi reversul, Institutul European, Iaşi 1993; e Interpretӑri pe teme date, Editura Didacticӑ şi Pedadogicӑ, Bucureşti 1995.
2. M. Papahagi, Dante “sesto fra cotanto senno” e il triplice canone della poesia, in S. Widłak (a cura di), Italianità e italianistica nell’Europa centrale e orientale, Universitas, Cracovia 1997, p. 125.
3. Ivi, p. 136.
4. Ibidem.
5. M. Papahagi, Dante cit., p. 125.
6. Ivi, pp. 125-126.
7. Ivi, p. 127.
8. Ivi, p. 128.