«Ogni morte è una grande tragedia»: Matei Călinescu, «Ritratto di M»

Bloomington, 1° marzo 2003. Il giovane Matthew, non ancora ventiseienne, è morto sotto gli occhi dei genitori, fulminato da una crisi d’epilessia. Era nato con la sindrome di Asperger – quella forma «superiore» di autismo nella comunicazione-interazione con gli altri. Nel suo mondo interiore non c’era spazio per la duplicità, per la menzogna, quel lubrificante sociale che noi ʽnormali’ usiamo di consueto. Quindi il suo «meno» diventava un «più»: disarmato, lui disarmava gli altri, gli faceva togliere la maschera, abbassare le difese, attirando «come una calamita» il loro affetto, «traendone gioia e dando gioia”, permettendo a tutti di risorgere a suo contatto. In modo da rendere la vita dei prossimi, e persino la disgrazia della sua perdita, «un’esperienza straziante eppure non negativa» (Ion Vianu). Perciò suo padre, lo scrittore e teorico letterario romeno Matei Călinescu (1934-2009, che scelse nel 1973 l’esilio negli Stati Uniti, dove insegnò letteratura comparata all’Indiana University), si sentirà «in pace col suo dolore, rasserenato nella sua tristezza» dopo la quarantina di giorni che gli furono necessari – attingendo a ricordi, frammenti di diari intimi, note di lettura, aneddoti di amici – per scrivere Ritratto di M (Portretul lui M, Polirom, 2003; 2° edizione modificata e arricchita, Humanitas, 2016; già tradotto in inglese, spagnolo e svedese): scritto tanto intimista quanto universale (poiché raffigura una possibile consolazione, se non addirittura un «manuale pratico», per altri genitori con figli autistici), dove il passato ritornerà come futuro ogni volta che il libro sarà letto, o riletto.


Ritratto di M

2. «Ogni morte è una grande tragedia»


Ebbi con M, due giorni dopo che lui ebbe di colpo smesso di respirare durante una crisi d’epilessia di una frazione di secondo, il seguente dialogo immaginario: «La tua morte è per noi una grande tragedia». A ciò lui ribatté: «Ogni morte è una grande tragedia». Era così dunque che la pensava. Non la sua morte individuale ma la morte in generale, la morte di ognuno, è la grande tragedia. Una tragedia piuttosto banale, alla pari di ogni cosa perfettamente prevedibile, per orrenda che sia. Il tipo di cose di cui, era una sua vecchia convinzione, non vale la pena parlarne. La sua risposta aveva un sottointeso – appunto perché, a suo modo di vedere, quello che lui diceva là superava ogni contesto personale, perché non aveva alcun legame personale con lui, con noi, perché si trattava di una verità nota, certo dolorosa, spaventosa in modo astratto, ma anzitutto nota – una volta per sempre. Quel sottointeso, non privo di un intento polemico, era: «Non ne parliamo più, è una novità da che mondo è mondo, a che pro continuare a ripeterla?”.
Nella vita, ciò che lo irritava, e talvolta anzi lo faceva infuriare, esasperandolo, erano le parole e le formule ripetitive. Ci percepiva solo la ripetizione, parole in apparenza vuote di senso, completamente inutili. Non si rendeva conto che le banalità possono servire, se non per la vera e propria comunicazione, almeno come segnali «fatici», così vengono chiamati in linguistica, segni convenzionali di riconoscenza e di benevolenza, quali indicatori sociali che invitano a comunicare, quando è il caso (ed è regola tacita che il più delle volte non sia così). Spingeva questa sua avversione per le formule di cortesia – anche quando erano rivolte solo a lui – fino a non rispondere ai “Buon giorno”, limitandosi nel migliore dei casi caso a darci una risposta breve, rabbiosa, infastidita, quasi unicamente a voler evitare un’altra ripetizione. O magari la mattina era di cattivo umore, intrattabile – comincia un altro giorno col suo non-avvenire! –, e poi di sera contraccambiava la «Buona notte», dicendo lui stesso più volte «Buona notte», come a voler rinviare il più possibile il momento di andare a letto: «Buona notte... Buona notte», uno dietro l’altro... Inoltre, talvolta, a tarda sera, quando noi eravamo stanchi, e non vedevamo l’ora di coricarci al più presto, lui diventava ciarliero, veniva a sedersi al nostro capezzale per chiederci un mucchio di spiegazioni, raccontarci un mucchio di cose a suo modo, con tanti vuoti, tante pause, con tanti termini che gli sfuggivano, e nondimeno in uno stato di semi-esaltazione, mentre le nostre palpebre intorpidite si chiudevano, nostro malgrado.
Ma c’era dell’altro nel sottotesto della sua frase, così tipica del suo modo di pensare: «Ogni morte è una tragedia». Ogni tanto a lui piaceva chiudere la conversazione con una di quelle affermazioni generali, lapidarie, irrefutabili. Quando noi tentavamo di fargli capire in che cosa era diverso dagli altri bambini oppure, più tardi, dagli altri adolescenti o giovani, lui diceva: «Tutti gli uomini sono diversi». Era forse la maniera di accettare quella sua differenza come qualcosa di perfettamente normale. Ciascuno è quello che è. Nessuno si può trasformare in un’altra persona. C’entrava anche una parte di stoicismo naturale, automatico, stupefacente, nella sua replica alla mia esclamazione mentale, quando ho immaginato quella conversazione con lui, due giorni dopo la sua fulminea morte: «Ogni morte è una grande tragedia». Cioè: la mia morte non è gran cosa. È una tragedia che non conta. Una grande tragedia che non significa niente. Forse era questo ciò che lui tentava di comunicarmi, con una certa serenità, durante il nostro dialogo immaginario. Cercava al tempo stesso di consolarmi, conscio del mio dolore, mostrandosi sensibile, molto sensibile verso l’altrui dolore. Il suo, lui lo vedeva come assolutamente normale. «Tutti gli uomini sono differenti», che, per lui, voleva dire: «Tutti gli uomini sono normali; tutti gli uomini sono quelli che sono, quelli che devono essere».
Eppure... Quando penso a lui, passando in rassegna, in ordine aleatorio, i ricordi che desta in me qualche angolo della casa in cui abbiamo vissuto, inseparabili, per venticinque anni, ciò che mi riaffiora alla mente è la sua immagine, dovrei dire piuttosto le sue immagini in varie età, ma soprattutto in quelle più recenti. La sua presenza; la sua maniera di muoversi, goffa, impacciata; i suoi passi pesanti, che facevano cigolare i gradini di legno della scala interna di casa nostra – al punto che, quando li saliva, io sapevo immancabilmente che lui c’era, che poteva essere solo lui; la sua maniera di chiamarmi, quando aveva bisogno di qualcosa, dapprima, e con insistenza, con «mom» o «mamma», benché sapesse di rivolgersi a me, e solo dopo, quasi deluso, con «dad» o «papà» (la madre era la persona che lui chiamava sempre, dal profondo del suo essere, con questa sillaba primordiale, la ripetizione della labiale «m», la lettera iniziale di mamma in quasi tutte le lingue); la sua maniera di parlarmi, con lunghe pause, sforzandosi di trovare le parole che non riusciva a trovare, o che trovava a fatica, a costo di laboriosi tentativi verbali; le sue frustrazioni di solito siglate da una rinuncia («Never mind»): tutto questo, messo insieme, mi paiono oggi non solo come sintomi del suo stato neurologico, ma anche come manifestazioni esterne di una sorta di angelismo o di innocenza intrinseca, che non si riducevano all’autismo che gli fu diagnosticato quando frequentava la scuola elementare. Comunque lui veniva da un altro mondo, portando un messaggio che io non potevo decifrare, un mistero che io non potevo capire se non come un barlume lontano, raro, infinitamente strano nella sua discrezione. Elucubrazioni post-mortem? Forse. Però è questa la lezione che alla fine ho imparato da lui: quel barlume quasi indiscernibile che lo circondava, quell’affetto che lui attraeva come una calamita e di cui gioiva, gioendo.
Ricordo che quando venni a saperlo – colpito nel mio stupido orgoglio paterno, nella mia arroganza impenitente, nelle mie grandiose fantasticherie sul futuro di mio figlio, proprie, in fondo, di ogni genitore – seguii per un momento i fantasmi di un monacato a due, di un ritiro dal mondo, di una vita monastica severamente ritualizzata. C’era, in qualche modo, dato che io stesso non ero credente, il fantasma di un doppio semi-suicidio, di una rinuncia definitiva al mondo, di una perpetua mortificazione, per me ma non per lui, perché pensavo che quei rituali sarebbero stati un beneficio per lui, dopo il caos che sembrava essere per lui la vita nella società umana, le cui esigenze tacite e tanto complicate lui non poteva soddisfare. Ero ancora in preda alla vanità luciferina, alla vergogna di aver concepito, verso l’autunno della mia vita, un erede handicappato, amato con disperazione, a cui anelavo identificarmi senza riuscirci. C’è stato allo stesso tempo – grazie a Dio – l’inizio di un lento processo di comprensione, e anche del fatto di non esserci riuscito allora. Mi ero completamente dimenticato di quei fantasmi di tanti anni addietro, quando Uca me li richiamò alla mente. Me l’ero dimenticato non solo per essermi riconciliato con me stesso, ma, soprattutto, per aver scoperto, nel frattempo tantissime altre cose. [...]




A cura di Anca-Domnica Ilea
(n. 12, dicembre 2020, anno X)