«Lettere a Cioran» di Nicola Vacca

Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017) è il libro che Nicola Vacca ha dedicato a Emil Cioran. Il frutto di numerosi anni di studio e di frequentazione del pensiero dell’autore di Squartamento. Il libro è soprattutto un atto d’amore e un doveroso omaggio del suo autore al filosofo di Răşinari. Pubblichiamo la prefazione al volume del prof. Mattia Luigi Pozzi.


Come aprire una vena, sul foglio

Come aprire un rubinetto, o una vena.
G. Mura

 

Draga Emil, caro Nicola, «hypocrite lecteur – mon semblable, – mon frère»

Se questa fosse una lettera – come quelle qui raccolte, deposte su una tomba difficile da trovare, nel mezzo di altre, più chiassose, nella bruma novembrina di ciottoli, salite e cappelle di una Parigi quasi nascosta, non certo il Peré Lachaise – conoscerebbe questa intestazione.
Nella lingua d’origine, nella nostra, che Cioran intuiva per vicinanza al suo romeno di sole e di sterco, in quella cercata, voluta, sofferta e limata, fino alla perfezione della corrosione, fino al logorio e allo sfinimento, prima di tutto della parola.
Il compito, e l’onore, di quelques mots su Cioran e sul libro di un caro amico – su due cari amici – si scontrano con la difficoltà di dire di più, di dire altro che le missive già non dicano. Allora lascio sgorgare le parole, come «aprire un rubinetto, o una vena» – per rubare le parole a Gianni Mura, in memoriam di Marco Pantani.
Che forse il ciclismo non è un accostamento così ardito, per Cioran e per Nicola.
Il primo alla bicicletta deve chilometri, e fatica, e tirocinio alla pazienza – quella dell’arrostito, alla Ceronetti, quella del meteco –, e ristoro, quando, steso sulle tombe di sperduti cimiteri della campagna francese, lasciava che il tabacco gli riempisse la bocca, e il cuore, e l’anima.
A Nicola per il suo incedere sempre in salita, sempre alla ricerca dei recessi del suo Novecento, nella poesia, nella critica, nell’interesse lacerante per il suo Cioran. Ci divide forse l’umanesimo, il suo, non il mio, perché tutto il suo peregrinare cerca l’uomo. Io l’ho già perduto, da sempre. Ci unisce, prima di tutto, Cioran. Ed è un prima di tutto che vale una vita.
Allora mi permetto alcune incursioni nel suo testo, scorribande dal deserto. Riporto qui le mie annotazioni di prima mano, scritte tra le righe del suo manoscritto, tra la pipa affaticata dallo spirito e l’inchiostro, come sangue, a macchiare il foglio. Indicherò sommariamente, nel sussurro di una parentesi, dove è caduta la mia penna perché chi legge veda la mia mappa del testo, perché possa da essa scostarsi – per trovare la propria.

La lettera, in primo luogo

Non un dispositivo o una cornice letteraria, ma un’esigenza, come la poesia Sulla tomba di Cioran che sgorga dal cuore e che risuona nel prologo. Lo stesso Cioran di lettere si nutriva, di lettere viveva. Le molte, che i carteggi pubblicati e in corso di pubblicazione, svelano, le molte che non leggeremo mai perché perdute. E come tante lettere questo testo si dipana, nei meandri delle tematiche cioraniane, affrontandole a un tempo di petto e di sbieco, in tralice, per meglio vedere. Lettere come scavi da archeologo dell’anima, mai fredde, mai lontane, sempre singolari e universali insieme, come solo la barbarie del lirismo, per dirla con le parole del Cioran di Al culmine della disperazione, sa restituire.

Lo scetticismo e la decadenza
(I. Lo scetticismo è un atto politico; III. Cioran su Cioran.)

Che in Cioran fanno uno. Del dubbio fare professione, farne una professione, andarvi incontro, ogni giorno, come gli altri vanno in ufficio, e al contempo farne scherno, farne strumento di scherno del reale, di se stessi, del proprio statuto di «scettico di turno». Pirrone, certo, che Cioran ammirava, ma anche Gorgia, con la sua logica implacabile – Giorgio Colli docet – e con l’eleganza del nulla che rimbomba nel trittico, che sembra un dipinto ante litteram di Bosch o di van Craesbeeck, dell’inesistenza, dell’inconoscibilità e dell’inesprimibilità. Giacché il mondo non merita di essere conosciuto, chiosa Cioran, poiché in esso domina l’illusione dell’azione, dell’atto verace, a cui consegue quella della sua altrettanto illusoria efficacia, l’affermazione dello scetticismo è l’affermazione stessa della decadenza, della rinuncia a questa illusione o, forse, la piena presa di coscienza della stessa. Strano modo di leggere la storia, e l’impegno, o il disimpegno, e l’azione, politica e metafisica a un tempo, ma del resto l’unico per chi abbia l’ambizione, spasmodica e fredda insieme, di essere «all’altezza dell’Incurabile» – all’altezza cioè della propria «avventura», lo scetticismo come «arma» tra le mani, nella «paralisi» e nell’«agitarsi nella caduta e nell’abisso». Incurabile che si coglie solo per intuizione, ma di cui l’Europa, o meglio uno sguardo lucido verso di essa, come da un balcone, una sera, a Pietroburgo, dispensa, regala il «brivido». Qui i nomi si affollano, a volte Hume, a volte De Maistre, a volte Swift, così come le opere, ma La tentazione di esistere forse canta più forte. E in uno dei suoi tanti gioielli, Su una civiltà esausta, mi pare di trovare una silloge perfetta, lucente come la lama della scure del boia, che cavalca appesa alla sella dei barbari e, come un dubbio affilato, cala sulla testa in attesa: «A che serve polemizzare con il nulla? È tempo di ricomporci, di trionfare sulla fascinazione del peggio. Non tutto è perduto: restano i barbari. […] Nell’umiliarci, nel calpestarci, ci conferiranno energia sufficiente per aiutarci a morire, o a rinascere. Che vengano a sferzare il nostro pallore, a rinvigorire le nostre ombre, che ci riportino la linfa che ci ha abbandonati. […] L’Europa è un vuoto verso il quale muoveranno ben presto le steppe… un altro vuoto, un vuoto nuovo».

Cafard e redenzione: l’immanenza del nulla
(II. Cadute e eresie; VII. Cioran e il demone della scrittura; IX. Altro che nichilista, il vero Emil era immanente; X. Cioran e il nulla)

Ancora un dubbio, questa volta da Talamanca. Scrivere di cafard o di redenzione? Per dirla con una battuta, di Chamfort o di Mainländer? Ma non è forse scrivere della stessa cosa, se per entrambi la redenzione – o nei termini di Mainländer l’Erlösung – coincide con un lungo e costante suicidio? Il cafard, questa «bile per decreto divino» di cui Chamfort incarna e regala gli strali e di cui Cioran eredita la tara e il gusto, conferendogli però un altro passo, di valzer e di doina de dor, che sa di Occidente estremo si apparenta qui all’Oriente profondo, quello del Buddha e del Grande Veicolo, che Schopenhauer ha insegnato a leggere e che Mainländer, discepolo conseguente – forse il più conseguente –, applica con logica teutonica a tutto il reale e ne fa regola di vita o, il che è per lui è identico, di morte. Due citazioni dal Taccuino possono bastare: «La redenzione – attraverso la conoscenza, attraverso il superamento della conoscenza» e «Quando il cafard […] ricomincia, l’impressione è che […] bisognerà subirlo fino alla fine, e che questa fine è fuori dal mondo». Come a dire che la conoscenza coincide con la consapevolezza che il cafard che assedia, che ritorna eternamente, e con esso il dolore, «trama di tutto ciò che respira», non finiranno che con questo mondo, con la liberazione da questo mondo e da questa stessa conoscenza – da noi stessi. Liberazione e negazione del mondo sembrano dunque fare uno, così come il richiamo costante ai Bogomili e a Marcione, così come tutto Il funesto demiurgo,potrebbero far pensare. Allo stesso modo, pare andare in questa direzione l’ossessione cioraniana per la mistica, orientale certo, Sankara su tutti, ma anche occidentale, Meister Eckart, e Giovanni della Croce, e Teresa d’Avila, e tutte le mistiche che Cioran frequentò quotidianamente sin dalla sua giovinezza. Ma per colui che danzò sempre la sua danza al ritmo della vertigine e, come Baudelaire, delle postulazioni contraddittorie del disprezzo e dell’amore per la vita il nulla che una trascendenza, un nirvana o una unio mystica garantiscono è un’indelicatezza, una resa troppo docile. Lo stesso suicidio lo è. Il nulla non è oltre il mondo, è di questo mondo, è questo stesso mondo. E solo la negazione delle sue illusioni, la sfida continua al nulla costituisce «l’humus per cui vale la pena tentare di esistere», come scrive Nicola; per questo per Cioran non vi è nessuna redenzione possibile, ma solo l’arte della superficialità in questo mondo, su questo nulla.

Il veleno senza le componenti, ossia dell’apprendistato di scrivere
(VII. Cioran e il demone della scrittura; XI. Il mio amore per Cioran; XIII. Frammenti di un discorso cioraniano; XV. La scrittura apolide che non cerca perdono)

Scrivere di Cioran non può che essere una confessione. Una confessione che Nicola non teme, come solo coloro che portano Cioran con sé ovunque, dentro di sé, sanno dichiarare. Che Cioran è per lui «bussola» nel mare aperto delle parole, incantatrici come sirene, nella paura di cadere con tutte le parole. E non a caso sono i luoghi dove Cioran si concentra sulle parole quelli che – non più sirene, ma muse, finalmente – parlano a Nicola. E il paradosso – forse il fulcro di tutti i paradossi cioraniani perché è il suo manifestarsi in parole contro le parole – riguarda appunto la lingua: nessuna anatomia del verbo, che pure si fece carne – perché la Genesi si ode anche qui, dove apparentemente è più lontana (per lui il Paradiso è il luogo in cui non si parla, l’universo prima del peccato, prima del commento) –, perché le parole di tale verbo sono il peccato, perché «tutto ciò che non è diretto è nullo». Quindi dire, e scrivere, in una tortura infinita e voluta, solo di ciò che è, sebbene esso opponga una resistenza tenace e costante alla presa delle parole e sebbene esso sia, come direbbe Benn, «lo smalto sul nulla». Per questo è possibile soltanto un lavorio del silenzio nelle parole, un tormento del riso e dell’irrisione nelle parole. Per questo la sua scrittura è «un fatto terribilmente unico» perché proprio al momento unico di ogni sensazione, di ogni esperienza, di ogni delusione mira. E giacché tra sensazione (stricto sensu la biologia) e pensiero (stricto sensu la filosofia), tra la materia organica, e inorganica, e la stoffa del pensiero, per Cioran non vi è differenza ontologica – entrambi sono reali, entrambi affliggono e a entrambi va applicata la disciplina del dolore –, egli sceglierà quelle parole che, «come pugni, fracassano le mascelle». E, dal lato del pensiero, restituirà solo la feccia, solo il «veleno senza le componenti», ciò che resta dopo la lotta con l’idea, senza cedere al fascino, artefatto e mediato, della sua vivisezione. Apprendistato di crudeltà, à la Artaud, e «lezione di perplessità»: questo è ciò che Cioran, a malincuore e per fortuna, consegna a ogni futuro scrittore – e a ognuno di noi.

Inattuale
(XI. Il mio amore per Cioran; XII. La storia si è suicidata nell’utopia; XIV. La verità della caduta;XV. La scrittura apolide che non cerca perdono; XVIII. Vedi alla voce Cioran)

La cifra di Cioran, così come quella di Nietzsche. Questo libro la coglie, la illumina, da ogni lato. E della sua ombra restituisce la luce. Il pensiero «contro il proprio tempo, a favore di un tempo futuro», è la sola definizione che Nietzsche fornisce, quasi di malavoglia, a un filosofema essenziale che ha avuto la ventura di trapassare nel colombario romano di una definizione. E tuttavia questo lampo è sufficiente a illuminare la distanza tra Nietzsche stesso e Cioran, che tale eredità non ha mai accettato. Perché Cioran non scrive solo contro il proprio tempo, ma scrive contro ogni tempo, contro il tempo stesso. E nessun tempo futuro gli si prospetta all’orizzonte. Il tempo, in cui si cade e da cui si cade, per dirla con la metafora veterotestamentaria, è per lui, come ormai noto, il peccato originale, l’antica e inveterata maledizione dell’uomo. Eppure qui l’ombra di Cioran non è ancora esaurita dai molti commenti alla sua versione della Genesi. Una frase di Nicola sa, di contro, innescare una scintilla nuova, feconda. In margine a una disquisizione sui Quaderni, vero e proprio laboratorio del pensiero cioraniano, si legge: «Trentacinque quaderni di frecce e pugnali», in cui si mostra l’«autenticità di un uomo in conflitto con la sua coscienza e con il proprio tempo». Qui un punto focale: la propria coscienza e il proprio tempo; ma forse più ancora la propria coscienza del tempo e il tempo proprio della coscienza. Giacché è la percezione del tempo che nella noia si fa supplizio e nell’insonnia delirio che pronuncia la condanna, e lo sradicamento dalla stessa, poiché «le radici legano la coscienza alla menzogna» – Šestov e Fondane, come un richiamo sotterraneo e come un monito perenne –, la simulazione di un rimedio. L’inattualità di Cioran è allora e dunque anche il suo rifiuto di una pacificazione, in un luogo e in un tempo, è la sua scelta dell’esilio metafisico, dell’apolidia costitutiva – della lingua, della vita, del pensiero. Perché è «una meravigliosa anarchia di pensiero» è appunto ciò che conta, nella letteratura come nella vita.

I frantumi dopo la dinamite, o meglio i bagliori della cenere
(III. Cioran su Cioran; IV. La verità nella cenere di Cioran; V. Pensieri strangolati, dubbi e squartamento; XIII. Frammenti di un discorso cioraniano; XVII. Un dinamitardo fra noi)

Impossibile scrivere di Cioran senza soffermarsi sul suo stile, sul suo tono – che a suo avviso è, semplicemente, tutto – inconfondibile sin dai primi scritti romeni. Non vi è linea in lui che non sia frantume, maceria, frammento. Anche se non si svela, anche se si cela nei testi più compositi, nei poemi in prosa o nei saggi, il frammento li squarcia sempre, come una detonazione, sia esso velenum in cauda o in medias res. Tanto si è detto sul frammento, e tanto Nicola bene ne dice, che accumulare altre parole è scempio e inopportunità. Solo, ancora, due ombre di pensiero. Innanzitutto, il nesso, inscindibile, tra il «fare a brani la realtà» e «dilaniare l’essenza», a conferma di una carne del mondo – del testo del mondo – a cui vanno inferte pugnalate per colpirne il retroscena, ossia il fantasma di un’essenza che si trascina al passo del principio di non contraddizione e che si dispiega nella lingua; in una formula, icastica, di Nicola: frammenti come «ferite del reale nella decostruzione del linguaggio». E poi il risultato, o meglio ciò che sopravvive all’esplosione: polvere, cenere. Di cui Cioran subisce, è noto, la fascinazione, dei cui bagliori si nutre per ascoltarne il sussurro di una rivelazione sul tutto, sull’uomo. Ma questo resto, ciò che propriamente resta, siamo noi, è ognuno di noi. Il destino allora – giacché «la cendre prit feux, / la fumée prit feux / le feux prit feux / tout prit feux / prit feux / prit feux (la cenere prese fuoco / il fumo prese fuoco / il fuoco prese fuoco /tutto prese fuoco / prese fuoco /prese fuoco)», come dice Mary ne La cantatrice calva di Ionesco – è forse appiccare noi stessi il fuoco in noi, è il «far di se stesso fiamma» di Michelstaedter, il «godere la vita come una candela, consumandola» di Stirner, il «feu la cendre» di Derrida (la traduzione italiana suona, quasi rivelatrice, «ciò che resta del fuoco»). E non mi pare casuale che in una delle lettere qui raccolte compaia Celan, che della cenere fece ossessione e mezzo di riscatto, sin da Il tango della morte, originale romeno della Todesfuge (autotradotta poi dallo stesso Celan in tedesco, insieme a Petre Solomon). Ciò che resta, nell’ultimo verso, è la «cenere dei tuoi capelli Sulamith», e «questa cenere è un nome, è come la sopravvivenza di un nome che continua a morire, ma che si rifiuta di morire una volta per tutte […] conservato come un resto di cenere», e, «come potenza del poema» e del pensiero, è «pronto a incendiare nuovamente» il soggetto, e il mondo di quel soggetto, «tra la necessità del dire e l’impossibilità della parola» (G. Rotiroti, Paul Celan, Benjamin Fondane, Gherasim Luca, Eugène Ionesco, scrittori romeni di origine ebraica, testimoni dell’inconscio più segreto dell’Europa, in M. Petreu, Dall’Olocausto al Gulag. Studi di cultura romena). Del resto è questa la «Tragicommedia del discepolo» nelle parole stesse di Cioran: «ho ridotto il mio pensiero in polvere, per battere i moralisti che mi avevano insegnato soltanto a sbriciolarlo…». Pulvis et umbra, (direbbe Orazio, grande satirico e grande tragico), ossia, appunto, cenere.

Del tragico e del comico – del tragicomico
(III. Cioran su Cioran; V. Pensieri strangolati, dubbi e squartamento; XVII. Un dinamitardo tra noi)

Spesso nel libro spunta, come folletto, l’ironia, o meglio l’umorismo, con il suo gioco di tragico e comico, nella crasi incessante e mai quieta del tragicomico. Per me in esso vi è tutto Cioran – dirò di più, è ciò che rende Cioran Cioran. Ancora in prossimità dei Quaderni si scopre l’«annotare sui propri taccuini di perdigiorno lo scandalo del tragicomico» dei propri paradossi. Con un «linguaggio […] ironico, cinico e beffardo», nell’aneddotica di una quotidianità che diventa quasi esemplare, catalogo, sommario di fallimenti e di assurdità, di picchi e baratri, di deformità e miserie («Il mondo è proprio questo: decadenza, orrore, piccolo strazio o deformità quotidiana, e non vi è molta verità in tutto il resto» [A.M. Ortese, Il cardillo addolorato, nel polacco assai antiquato di un Duca esule a Caserta, «bianco nella chioma di nevi polari, e azzurro di occhi acutissimi e maliziosi»]), Cioran richiama alla mente il «cane celeste» che tanto ammirava: l’immenso Diogene. Colui che incarna il paradosso dello scandalo della visione, colui che, con la dignità di essere stato in gioventù, un falsario – quale maggiore orgoglio per un cinico? – diventa exemplum di parresia e di scherno al potere che gli toglie il sole e che al tempo stesso cerca l’uomo, non poteva che essere vicino – come coloro di cui si scrive poco perché troppo intimi – a Cioran, che «con aforismi lapidari e frammenti provocatori ha sfregiato ogni cosa di questa umana caducità evidenziando del vivere contro l’evidenza il tragico e il comico». E che ha trovato, non solo nella scrittura, ma soprattutto nell’ondeggiare «tra la tragedia, la saggezza e la farsa» che meglio dipinge il suo savoir vivre – impartitogli dal «codice della disperazione» imparato già nella sua Romania «alla scuola delle tribù annientate» e dalla loro «competenza, in materia di dolori, di suppliziati e di eruditi» – l’unica scusa della vita stessa: il ridere con gli altri, con i falliti, con gli sconfitti. Un altro nome per dire la verità nella falsità. E allora mi scopro a citare, ancora una volta, un aforisma che tanto mi è caro, come una sanzione, come un suggello: «Siamo tutti nell’errore, eccetto gli umoristi. Solo loro hanno compreso l’inanità di ciò che è serio e anche di ciò che è frivolo».

Qui è finita la mia penna e il tabacco – e il cervello, preso a fucilate. Il lettore, mon semblable, mon frère, saprà trovare nelle pieghe delle righe la traccia del volume in cui si accinge a tuffarsi. A lui, ripeto, l’onore del punto di fuga e di un infinito filo da tessere e dipanare, convinto, come sono, dei buchi e delle cicatrici di quello che ho tessuto io, nonché, e soprattutto, dei molti doni che qui gli sono offerti e che attendono soltanto occhi non timorosi. Così come a lui il privilegio della mano tesa, di Cioran e di Nicola, da afferrare e stringere, non come me in questo congedo, ma nell’«iniziazione alla vertigine» in cui – con il sorriso benevolo di chi non crede, di chi non si dà pace – ci accompagnano.




Mattia Luigi Pozzi
(ottobre 2018, anno VIII)