«Sogno e incubo». Il racconto di un viaggio in Bucovina

«Il cuore della Romania è in Bucovina, lì la gente è ancora aperta e non pensa come in tutto il resto dell’Est solo al denaro», mi disse lo «zio» di Bucarest. Così sembra spiazzante, ma in realtà ti apre la porta a un nuovo sogno, a un altro viaggio. Quello verso la Bucovina, la terra dei monasteri affrescati protetti da castelli turriti e che un tempo – quello di Ştefan cel Mare, Stefan ‘il Grande’ – faceva da baluardo contro l’Impero ottomano.

«Viviamo semplicemente, la stalla, i lavori per abbellire il nostro monastero, in comunità. L’abbiamo fondato nel 1997 e ci viviamo in una ventina». Tutti giovani come il mio Virgilio in tonaca, poco più che ragazzi. Con la barba lunga e i baffi, un po’ hippy, molto sorridenti e anche impacciati, rustici con un passato spesso di studi e una vita lontano dalle grandi città e anche dai paesi. Il più vicino è Dulceana, un nome da favola per un villaggio di poche case incuneato tra monti.

Sono finito qui perdendomi, come al solito. Ero in preda a una fantasia frenetica da galoppata, contagiato dalla voglia di collezionare questi posti un po’ turistici ma soprattutto lontani più di 600 chilometri dalla capitale, dalla grande metropoli Bucarest, a due passi dall’Ucraina, in una terra che più percorrevo e più mi sembrava davvero quella sognata, cercata, voluta. Dolci colline, boschi che cominciavano a indorare d’autunno, campi arati, paesi con casette colorate di legno, decorate come se arrivassero da un presepe, villaggi hobbit che si aprono ai lati delle strade percorse indistintamente da carretti tirati da cavalli, auto, camion, il solito casino rumeno insomma, ma che sembra non badare troppo alla modernità e dove trovi gente quasi sempre gentile, pronta a darti una mano, a indicarti una strada, a venderti anche dei nanetti da giardino. «Li fanno in Germania, sono belli vero?», mi fa l’uomo con i baffoni e la pancia da Babbo Natale che spunta dopo avermi visto mitragliare foto su foto a quel giardino di assurdi pupazzi dove Biancaneve sorride a Eolo e due nanetti rasta se la ghignano guardando un leone accucciato o un levriero da punta. E io che speravo di aver trovato la fabbrica favolosa, l’opificio da dove partiva la guerriglia silenziosa al mondo civilizzato, la miniera delle guardie da giardino che in Italia un tempo venivano sequestrate in segno di rivolta contro la modernità di paccottiglia.
Ce ne sono di tutti i tipi: portaombrellone, accattoni, sdraiati, illuminanti, proteggenti, indicanti. Ma li vendete? Domanda difficile da fare in italiano spanglish a uno che sa solo il rumenomoldav. Ma il suo cane è placido e ti accompagna gentilmente fuori dal suo giardino fatato e taroccato. Io insisto, ma davvero li fanno in Germania? Penso alla storia che anche le maschere di carnevale veneziane, quelle che tanto piacciono ai turisti tedeschi e giapponesi, vengono realizzate tra la Romania (Iaşi) e l’Albania (Scutari) da curdi e veneti, una moderna delocalizzazione di cazzate che arriva dopo gli anni dello spostamento di fabbriche tipiche del Nordest come quelle tessili. Ma Oleg o Olaf, questo vichingo di Bucovina che sembra un Obelix in sedicesimo (invece di due metri è 1,60), rimane inflessibilmente onesto: «Ja, ja, Germania», fa scortandomi sul ponticello di legno che segna il confine tra il suo negozio all’aria aperta e la strada. Non mi apre le porte della casetta col tetto a punta, evidentemente non si fida molto di questo intruso. E io me ne vado un po’ deluso. Ma sono solo all’inizio della mia galoppata nell’ultima Thule rumena, avrò tempo per meravigliarmi e perdermi nello spirito ancora puro di questi posti.

«Vedi, questa è la nostra chiesa, il nostro pittore, che arriva dall’Ucraina, sta completando gli affreschi», mi spiega un padre del monastero della Trasfigurazione («Schimbarea la Faţă», in rumeno) di Doroteia che mi ha preso gentilmente in consegna dopo che un suo confratello mi aveva visto curiosare fuori dall’alto muro facendomi entrare. La strada sterrata mi aveva messo in attenzione più volte, temevo di finire in mezzo alla foresta, ai lupi, al «niente pieno» della natura. Oppure in un posto tenebroso e allucinato come quel Tanacu dove cinque anni fa avevano crocifisso una suora perché posseduta dal maligno: qui Dracula e le sue ombre terrifiche sono sempre in agguato, soprattutto nella mente del viaggiatore eccitato e solitario. «È un lavoro lungo, difficile, ma lui è bravo e noi abbiamo tempo», sorride il monaco con cui dialogo in inglese dopo che avevano tentato di appiopparmi a un ragazzotto dalla barba e dai capelli rossi che era stato a fare il manovale in Italia. Il pittore dall’alto della sua impalcatura mi sorride ma non distoglie l’attenzione dal suo compito certosino, appeso lassù a quattro metri come un novello Michelangelo si impegna nella sua personale Cappella Sistina. Non conta dove sei, importa come fai il tuo lavoro, direbbe un buddista o anche un trappista. O uno di questi monaci ragazzi che ridono quando chiedo se possono sposarsi: «Quello lo fanno i preti di città, i pope, noi abbiamo fatto voto di castità», mi spiega gentile il mio Virgilio di quella terra sacra e un po’ fatata, che comunque non è fuori dal mondo. Infatti attacca una filippica sul problema del momento: i rom e Sarkozy. «Ci confondono sempre con loro, la gente in Europa non capisce che rumeni e rom sono due popoli diversi, anche noi non li sopportiamo, rubano, non lavorano, vanno in giro a far chissà cosa», dice senza tanti complimenti. Poi si ferma, mi guarda di sottecchi e chiede: «Non sarai mica un giornalista?». Cavolo, ma ce l’ho scritto in fronte? Anche lì, in mezzo alla foresta e ai prati verdi da pubblicità della cioccolata svizzera? Cerco di trovare un sistema per uscire da quella marcatura, ma lui sorride. «Tanto è lo stesso, chi vuoi che sia interessato all’opinione di un povero monaco di campagna che per giunta sta in un monastero di paese, piccolo, disperso». Di sicuro lui è un tipo simpatico che ha un tic: appena vede che sto girando per inquadrarlo con qualche macchina da ripresa lui se ne va, fugge, come fanno in India, dove credono tutti che tu, con una telecamerina, gli possa rubare anche l’anima. Se bastasse questo ci saremmo liberati da tanta di quella gente laggiù in Occidente…

Mi offre l’acqua del loro pozzo ma non la grappa che sicuramente fanno per sopportare un inverno che qui, appesi alla grande pianura bessarabica e sarmatica, sarà sicuramente duro e puro. Ogni tanto occhieggiano alcuni suoi confratelli, che continuano indaffarati a rassettare, a far legna, a pregare. Il mio Virgilio improvvisato a un tratto si illumina, ha finalmente da occupare questo guardone matricolato dopo che mi vede seguire con la bocca aperta un monaco che tamburella su un’asse cantandosela come se fosse un’arpa. «Aspetta, sono quasi le cinque». Un suo compare alto e segaligno s’inerpica sul campanile affrescato che sormonta la porta di legno d’entrata del monastero di Doroteia.
S’infila dentro e inizia una performance degna di un percussionista jazz che va avanti quasi dieci minuti. Tarappa titropta roptaratta tatattattta e via così in un crescendo rossiniano che potrebbe concludersi tranquillamente con il lancio delle bacchette modello concerto rock e invece parte la campana e mi si spiega che il segaligno ha fatto tutto con mani e legno, neanche uno xilofono aveva quello!
Ma s’è fatto tardi, io devo vedere qualche altro monastero e loro prepararsi alle preghiere della sera, quindi vengo accompagnato verso il portone d’entrata di quel piccolo castello fatato con l’ultima spiegazione: «Qui passò Ştefan cel Mare e fondò la chiesa di…».

Fatalità, serviva un’impronta leggendaria per dare lustro e storia anche al piccolo monastero di provincia che, evidentemente, aspira a vivere per secoli, come quello di Moldoviţa che pesco dopo una cinquantina di chilometri, strade sbagliate, richiesta di informazioni e il timore che arrivi presto la sera e mi colga impreparato e incasinato. «Dopo la rivoluzione sono sorti tanti monasteri, in Maramureş ce n’era uno solo e adesso saranno cinque o sei, lo stesso in Transilvania. Ma l’ondata di vocazioni è già finita, i giovani pensano ad altro, e questi posti restano vuoti, abbandonati. Preferiscono andare in città o all’estero, in Italia», fa la monaca. «Non sono suora, io ho fatto i voti, ormai più di trent’anni fa», dettaglia con il suo fare teutonico e una punta di perfidia questa florida sorella di Bucovina, tanto per far capire che loro lì sono le uniche vestali di quella tradizione e che bisogna diffidare delle imitazioni tipo i ragazzi del bosco di Doroteia. «Sotto il comunismo era difficile fare i monaci, ti costringevano a lavorare, io insegnavo in una scuola. Ma in seguito Ceauşescu iniziò anche a restaurare i monasteri, e poi la gente di qui si fidava di noi, non ci avrebbe mai denunciato come sobillatori o reazionari».
Il suo italiano è irto e solido ma lei sorride spesso, si vede che gli piace aver agganciato questa truppa di italiani raccogliticcia che, per vocazione al disordine, s’era infilata nel “suo” monastero sull’orlo della sera. Ci aveva visto vagare dispersi tra le mura possenti e gli affreschi affascinanti della chiesa dell’Annunciazione con bocca aperta e fare un po’ beota. C’era da capirci, davanti a pareti intere di storie rischi di avere il torcicollo per seguire i tanti passaggi della Bibbia e dei Vangeli dipinti mezzo millennio fa da monaci austeri e umili che non avevano lasciato il loro nome ai posteri. «Lavoravano per la gloria di Dio», sottolinea la nostra guida iniziando a raccontare della passione di Gesù dipinta in colori unici che arrivavano direttamente dalla natura, della sua ascesi e delle storie varie che scorrono tra terra e cielo soffermandosi su un episodio preciso affrescato solo in questo monastero (il canone ortodosso lasciava qualche spazio d’interpretazione): l’assedio di Costantinopoli da parte di Maometto, il conquistatore di quella che diventerà sotto i Turchi Istanbul.
Cannoni e cavalieri sono pronti a lanciare il loro assalto finale alle mura turrite difese da lance e balestre, il dramma sta per compiersi.
La paura di finire così, sommersi dagli Ottomani musulmani, da queste parti era palpabile in quel lungo Medioevo che finì solo nel XIX secolo, in pieno Romanticismo.

I colori brillanti – qui in Bucovina è stato inventato un blu naturale mai eguagliato – quelle scene mosse da scatti in due dimensioni, irreggimentate in un’algida narrazione, prepotenti spiegano secoli d’assedio e conquiste e lotte e battaglie tra due mondi che non riuscivano proprio a parlarsi, tanto che ora in queste terre le tracce del Turco sono minime e poco è restato anche della loro cultura. Sommersa dalla sconfitta dell’Impero solo qualche comunità è sopravvissuta ma senza minareti. In Gaugasia, la regione autonoma nel sud della Repubblica sorella – ma ex URSS – della Moldova, a trecento e passa chilometri da qui, l’unica traccia ottomana sono i baffoni che ancora ornano le facce dei contadini.
Il confine dell’Impero turco lambiva questi luoghi. Qui raccontano orgogliosi che Iaşi, il principale centro della regione a sette ore di treno da Bucarest, non fu mai conquistata dalle armate ottomane che si susseguirono nei secoli per tentare lo sconfinamento a nord e a ovest. Ştefan riuscì a unire i principi voivodi – «perché qua non ci sono mai stati re», altra sottolineatura che mi è stata fatta più volte – e a battere gli Ottomani con la tecnica privilegiata dai temporeggiatori di ogni epoca: bruciare le campagne, avvelenare i pozzi, fiaccare il nemico e poi coglierlo di sorpresa in qualche gola. Non per niente il condottiero del XV secolo che campeggia sempre orgoglioso a cavallo nelle piazze delle due Moldove viene paragonato a un altro capo balcanico, a quel Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skënderbeu) che nello stesso periodo bastonava il Turco in Albania.

È singolare che a salvare l’Europa cristiana allora furono un rumeno e un albanese, alfieri di popoli che oggi vengono accomunati dallo stesso destino reietto e dall’appellativo di «pericolosi, sanguinari e anche per sovrappiù svogliati». Un classico di chi si sente la terra sprofondare sotto i suoi tappettini da welfare e di chi non riesce a capacitarsi che il mondo di colpo, dopo il crollo del Muro e della Cortina di Ferro, s’è allargato fino a rischiare di farti ingoiare dalla Cina. Lo sguardo s’è aperto troppo in là, fino alla Grande Muraglia, e ha lasciato gli europei, neo e non, sbigottiti e impauriti. Hai voglia a spiegare che di albanesi in Italia ce ne sono 400.000, e i rumeni sono 800.000 (un milione e 300.000 con famiglie e bambini); lavorano tutti e tra loro i delinquenti sono pochi, fanno i lavori che tuo figlio – il ragazzo dello spritz e degli occhiali firmati – rifiuta; ti accudiscono il padre e il nonno che altrimenti non sapresti dove sbattere. Non l’hanno chiesto loro di venire in Europa e non hanno alcuna colpa se laggiù si fa la fame.

Maurizio Crema
(n. 3, marzo 2012, anno II)