Adrian Schiop, l'«altra letteratura» che non frequenta i salotti di Bucarest

Adrian Schiop è nato a Porumbacu de Jos (distretto di Sibiu, Transilvania) nel 1973. Si è laureato presso la Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione (sezione Pedagogia-Lingua e letteratura romena) dell’Università Babeş Bolyaj di Cluj, conseguendo in seguito, sempre presso lo stesso ateneo, anche un master in Linguistica. Dopo aver insegnato lingua e letteratura romena in un liceo di Cluj, decide di stabilirsi per un anno (2002-2003) a Auckland, in Nuova Zelanda, dove trova impiego come imbianchino. Di ritorno in Romania, si stabilisce a Bucarest, dove da subito inizia a collaborare per le sezioni culturali e di costume di vari quotidiani e pubblicazioni («Evenimentul Zilei», «Prezent», «România Liberă»), come pure per il canale televisivo RealitateaTV. Ha pubblicato in importanti riviste letterarie («Suplimentul de cultură», «Vatra», «Dilema», «Cultura»). Attualmente sta svolgendo la tesi di dottorato in antropologia presso la Scuola di studi politici e amministrativi di Bucarest (SNSPA) sul fenomeno musicale delle «manele» nella società romena. Un suo ampio contributo sul tema ha già suscitato parecchio scalpore in rete (si veda a riguardo qui). Ha debuttato come prosatore nel 2002 nella rivista «Fracturi» con un estratto da pe bune/pe invers, il romanzo con cui due anni dopo, nel 2004, farà il suo debutto editoriale presso Polirom (nel frattempo, nel 2003, un altro testo, il racconto Un threesome de weekend, viene pubblicato nella rivista «Vatra»); al primo romanzo ne ha fatto seguito un secondo, Zero gradi Kelvin, uscito nel 2009 sempre presso Polirom. Nello stesso anno è stato incluso nell’antologia 100towatch dei cento artisti romeni più promettenti, curata da Tom Wilson e Miloš Jovanović, nella quale è pubblicato un estratto da pe bune/pe invers in traduzione inglese (qui). Più recentemente un suo racconto, Travesti, è apparso, in originale e in traduzione francese, sulla rivista fiamminga online Citybooks (qui). Nel mese di maggio del 2012 verrà inoltre presentato sulla rivista svizzera «Hétérographe – Revue de homolittératures ou pas», dedicata alla letteratura GLBT (Gay Lesbo Bisex Trans, ndr), un estratto dal romanzo Zero gradi Kelvin. Adrian Schiop è stato membro del gruppo letterario (e rivista) di giovani scrittori «Fracturi».


Nota introduttiva al romanzo pe bune/pe invers (davvero/invertito)
Iaşi, Polirom, 2004


Adrian Schiop è una figura unica nell’attuale panorama letterario rumeno, forse l’anti-scrittore romeno per eccellenza. Fuori dalle cerchie esclusive ed elitiste del mondo letterario bucarestino, Adrian Schiop si sente meglio ai margini, preferisce osservare e frequentare la cultura non ufficiale, l’altra «cultura», quella urbana invisibile e relegata nei quartieri popolari e dei clan Rom, quella nel cui humus socioculturale stigmatizzato come subcultura trovano voce forme espressive guardate con fastidio e supponenza dall’establishment. Come, per esempio, il fenomeno delle «manele» e dei loro interpreti,  i «manelisti» – cioè quel fenomeno trash musicale definibile come una sorta di hip-hop gitano-popolare con tutti i suoi risvolti antropologici e socio-culturali – che è ora al centro delle ricerche di dottorato che ha intrapreso presso la NSSPA di Bucarest; già questo dato dà la misura della atipicità di Adrian Schiop: solo lui avrebbe potuto trasformare in oggetto di analisi antropologica quello che generalmente viene considerato come non-cultura, indegna di essere preso in considerazione. Ma da sempre Adrian Schiop s’intrufola nei meandri «oscuri» della realtà romena fino a immedesimarsene.

Il romanzo che qui presentiamo riflette esemplarmente la programmatica alterità di Adrian Schiop. pe bune/pe invers può essere salutato come il primo vero (mitico) romanzo apertamente gay della letteratura romena. Ma Adrian Schiop fa di tutto inconsciamente, perché insofferente agli schemi e ai rigidi incasellamenti di genere, per confutare questa impressione. Non abbiamo qui un Tondelli o un Busi romeno, quanto piuttosto un Pasolini in bilico tra acerbo erotismo e proclama di una sessualità rivendicata certamente come «anomala» ma non brandita, non mostrata come espressione di istanze personali, come messaggio di «lotta». A Schiop non interessa salire sulle barricate per piantare la bandiera arcobaleno della comunità gay ma si pone placidamente a scandagliare dentro di sé, in solitudine, i propri fantasmi gay erotico-sessuali; citiamo un passaggio chiave del romanzo che illustra questo punto:

«In effetti nel mio caso era più complicato – da alcuni anni dicevo che l’omosessualità è il genere di sessualità che mi esprime ok (…). Alla fine, non avevo trovato nessuno e quella omosessualità virtuale – di omosessuale senza esperienze omosessuali – cominciava a pesarmi: tutti aspettavano una conferma basata su fatti concreti, ma io tardavo a darla. Dato che tutta la mia sessualità deviante si svolgeva inside, all’interno del mio grande cervello, da fuori non risultava altro che un comportamento onanista ortodosso, che non poteva convincere nessuno».

Non gli interessa la sovrastruttura «ideologica» dei temi GLBT. Anzi, ne è insofferente o distaccato o semplicemente le ignora: non si poteva certo pretendere che nella Romania degli anni ‘90 tali tematiche fossero già assimilate e il libro di Adrian Schiop mostra in un certo modo questa loro embrionale ricezione. Difatti non ci risulta, salvo essere smentiti, che ci siano stati altri esempi letterari degni di nota che siano andati oltre. Ciò che risalta poi nel romanzo è la capacità di Adrian Schiop di cogliere i personaggi nella loro ambiguità: quando si cala negli altri, l’io narrante, con la sua sessualità «deviante», si sottrae a ogni schema sessuale, oscillando fra impulsi ora eterosessuali, ora omosessuali, ora anche al limite della pedofilia, ma assolutamente senza la connotazione negativa che permea questo termine. Si vedano per esempio le scene di seduzione erotica tra l’amico Nicu Popa e il ragazzino Romică, quattordicenne, al Delta del Danubio, scevre da ogni pruriginosità di fronte alle quali non ci viene proprio da aggrottare la fronte, anzi, ci paiono momenti di grande dolcezza; e dove s’instaura la sincera e naturale espressione emotiva di intimi momenti erotici vissuti in complicità con l’altro, il frutto di una disarmante e confessata ingenuità (pare di scorgere qui un’eco dell’episodio con Stavro in Kyra Kyralina di Panait Istrati).

Il libro può non convincere perché non va fino in fondo, perché troppa ambiguità alla fine lascia l’impressione di qualcosa di non espresso apertamente. Tuttavia è un libro coraggioso, pionieristico, ancora isolato, che ha fatto da spartiacque nell’ambito della letteratura romena contemporanea.

Il libro non è strutturato secondo un romanzo classico, ossia non c’è una trama con un suo filo narrativo, ma si dipana in 15 capitoli (preceduti da una lunga, sorprendente dedica in forma, si potrebbe dire, di canzone rap) all’intero dei quali Adrian Schiop narra a ruota libera. Non sono capitoli a compartimenti stagni, non isolati cioè l’uno dall’altro, tutt’altro: essi sono circolari, nel senso che i personaggi, le situazioni, gli elementi narrativi che sostanziano il libro si tengono assieme, acquisendo in definitiva un’unità intrinseca. Se non è un romanzo nel senso stretto del termine, che cos’è allora? È una sorta di diario, di resoconto, di terapia di gruppo, se si vuole, in cui l’autore mette dentro il proprio vissuto e chi attorno a lui orbita: in primo luogo la propria cerchia di amici (Glava, Mircea, Cristina, Bujan, Ovidiu e molti altri) di cui tratteggia vizi e virtù, e con cui interagisce, con una scrittura assolutamente non-convenzionale, diretta, senza falsi pudori o autocensure (un fatto anche questo di rottura linguistica e stilistica rispetto alla prosa artistica tradizionale), illustrandone da dentro anche le peculiarità, le storie personali, anche i piccoli conflitti, le antipatie, le idiosincrasie. Il tutto è calato in una fase particolare della vita dello scrittore, quella coincidente con il periodo della naia e degli anni postuniversitari, senza però incorniciarla per rigide tappe cronologiche. Uno dei temi ricorrenti nel libro, ovviamente, senza che esso però arrivi a monopolizzarlo, è l’omosessualità latente, il suo essere pe invers («invertito») più o meno di dominio pubblico tra gli amici, ma ambigua, sottaciuta, nascosta ma non tanto, ma anche straripante, evidente, dell’io narrante. Una omosessualità di cui ora il narratore, attraverso la scrittura, può «fruire», tirandola fuori, sperimentandola attraverso la finzione che non è finzione, è  fiction pe bune («(per) davvero»).

Il libro s’iscrive in un clima culturale ben definito, quello della Romania dei tumultuosi anni’ 90 (i temi politici sono del tutto esclusi dal romanzo), sulla scia della (sub)cultura grunge, hip-hop, post-punk, post-hippie con frequenti riferimenti musicali (Korn, Kurt Cobain-Nirvana, il gruppo del fenomeno rap romeno B.U.G. Mafia ecc.), cinematografici (Train spotting, Natural Born Killers), letterari (Mann, Dostoievski, Salinger ecc.): un tipo di cultura quindi alternativa a quella alta, «imposta» dall’establishment colto, sguainata e rivendicata dall’autore quale «esponente» dotato dei crismi della marginalità. Altra caratteristica del libro sono le «dotte» note esplicative inserite a piè di pagina dall’autore, parentesi di pensiero che suggellano un’idea evocata nel testo.  
Il linguaggio usato dall’autore riflette perciò questa particolare visione: è una lingua che abbonda di colloquialismi (slang giovanile), di anglicismi (o dell’inglese tout-court: so, anyway, friendly ecc.), di espressioni idiomatiche, con un vocabolario diretto (sboccato, direbbe qualcuno), che utilizza abbreviazioni tipiche dello stile veloce degli sms o della chat (per esempio, la preposizione ‘per’ è resa spesso con pt (in rom. pentru), avvicinabile al ‘x’ dell’italiano, o prof per profesor ‘professore’ ecc.). Non a caso la collezione «EgoProza» della Polirom, in cui debuttavano giovani scrittori come Adrian Schiop, Ioana Baetica (Fişă de înregistrare), Ionuţ Chiva (69) o Claudia Golea (Vară în Siam) sdogava questo tipo di linguaggio molto esplicito e crudo, che spudoratamente abbonda nei loro libri.
Come chiosa finale vorrei citare ciò che ha detto Adrian Schiop stesso sul suo romanzo: «Il mio libro parla dei miei amici. Non parla né di dio, né del male assoluto, né di un tipo umano specifico, né della Romania profonda. Niente di politica, di intellettuali paralizzati per l’incapacità, di dilemmi morali ecc., niente di tutto ciò».


Mauro Barindi


Adrian Schiop, davvero/invertito

midlife crisis:

dopo le vacanze, una volta ritornato in caserma, le cose hanno smesso di filare lisce. Avevo spremuto il posto di ogni significato, e da quel punto di vista in poi la monotonia si è fatta realmente omicida [1]. E dato che le disgrazie non vengono mai da sole, avevo la cosciente, ossessiva idea di aver raggiunto i venticinque anni; facendo un rapido calcolo, mi erano rimasti all’incirca quindici anni effettivi di vita, perché, dicevo io, quello che comincia dopo i quarant’anni è, in fin dei conti, un simulacro, una vita di merda: (1) vivi secondo una logica che procede in discesa, ogni giorno scopri con malinconia che un organo non funziona più, che il Titanic è sprofondato di un altro metro; e (2) che le cartilagini si calcificano in modo definitivo, l’acutezza sensoriale diminuisce e che la realtà penetra in te dall’esterno con crescente difficoltà. Orbene, di quei quindici anni che mi erano rimasti da vivere, mezzo anno lo stavo trascorrendo, come un vegetale, sotto la naia senza fare niente, lasciando che la vita mi passasse accanto.
Arrivavo in caserma tristissimo, «fatto a pezzi». Mi ci volevano due giorni per riprendermi, durante i quali non parlavo con nessuno e facevo secchi in modo crudele tutti quelli che imprudentemente cercavano di attaccare bottone. Ogni tanto facevo qualche battuta: «Oh, Raul, vuoi qualcosa di dolce? Sì? Io ci metto sopra lo zucchero e poi tu me lo succhi», ma non faceva effetto su nessuno. Non riuscivo a leggere, non andavo più in giro a strizzare amichevolmente l’occhiolino, passeggiavo apatico nel cortile della caserma, dove andavo a caccia dei corpi delle spine, cioè delle reclute, che inseguivo finché svanivano dentro qualche edificio. Astenicamente pensavo che io non avevo nessun corpo a disposizione da portarmi a letto e che la libertà è tutto, che l’essenza e la dignità dell’uomo consiste nella libertà. Non mi andava più di delirare per far sganasciare gli altri e, per questo, nel momento in cui Minică mi ha dato un Diario collaterale della naia, «Hei, Schiop, noi abbiamo cominciato questo diario di merda per darlo a te durante la naia», mi ci sono tuffato con avidità. Ma, fatta eccezione per alcuni corpi lubrificati di negri da scopare «di notte», non sono riuscito a ricavarci altro. Da un lato. Dall’altro, c’era quella mia voglia di ragazzi e di narratività che urlava e che faceva un casino della madonna.

Per cui mi sono messo a scrive Il racconto dal finale strappalacrime.
Quando ho cominciato a scriverlo, sebbene ne avessi in mente abbastanza chiaramente la struttura epica, non avevo ancora delineato Gaboru come personaggio II – esisteva puramente una struttura inquadrata attorno a un personaggio del genere Minică, ma che si esprimeva a livello fisico, come gli hip-hopper con i loro balli scalmanati, fortemente figurativi (mentre il personaggio I era il mio personaggio riflettore, un miscuglio nel quale c’ero io, Minică e la faccenda dei quarant’anni).
Ciò che m’interessava allora era semplicemente scrivere un racconto in terza persona; in effetti non mi sentivo a mio agio nel Diario, era una cosa troppo ibrida e minică-nizzata, non c’era uno spazio dove potessi esprimermi artisticamente. Io, difatti, era tagliato per davvero per la narrativa, con un narratore e la ricollocazione narrativa. Innanzitutto volevo un testo che mi tirasse fuori da me stesso e dallo spazio in cui vivevo e che mi situasse in un mondo completamente autonomo, un mondo-fico, in quella voragine a tenuta stagna in cui non ci sia il pericolo d’infiltrazioni d’acqua.  
Anche se non avevo esperienza in materia di scrittura narrativa (c’era stato un unico tentativo, fallito miseramente, di ca. quattro pagine al III anno), avevo in mente un racconto «professionista», che, prima di essere sperimentale, con le sue cose voodoo, si potesse leggere da un punto di vista narrativo: «decente». E, ovviamente, «parodistico», ma entro i limiti sensati dell’ironia di un Thomas Mann. Ma, ripeto, insistevo in primo luogo con la storia della decenza, non volevo esperimenti, ma volevo prima di tutto produrmi sul serio nel mio numero letterario. In questo senso, in quello della letteratura intesa sul serio, ero attratto perfino dalle suggestioni mitologiche del racconto (avevo preso da Culianu il mito gnostico della Sofia), nonostante avessi sempre detestato da quando sono nato i racconti ammantati da schemi mitologici. In realtà, a dire il vero, la faccenda dello schema mitologico mi forniva realmente un sentimento di essere uno scrittore professionista, mi vedevo già stendere tutti a kappaò con il mio testo.

E ora parliamo di Gaboru: fra tutti i corpi di cui andavo a caccia nel cortile della caserma, il suo si era distinto da subito per essere il più interessante. Non ha senso che m’inventi un episodio in cui lui mi sia saltato agli occhi, sarebbe stupido; semplicemente lo osservavo quando ci radunavamo e scorrendo lo sguardo fra le reclute, mi ha attratto il suo aspetto. Mi piaceva perché era basso, vicino al limite consentito (1.60) e perché aveva una faccia da bambino, con gli occhi neri e le ciglia molto lunghe. E quella sua statura compatta: anche se era basso, aveva un corpo paffutello, che avvertivi solido, «eretto», sotto i vestiti. Poi, osservandolo, alla fine ero stato attirato piacevolmente anche da altre sue cose. Aveva per esempio qualcosa di orientale, gli zigomi rotondi, gli occhi stretti, incisi «come due fessure», e le labbra grosse, carnose. Aveva uno strano aspetto in qualche maniera, non aveva lineamenti da bianco, bensì qualcosa di misto che in un certo modo mi era familiare: mi sembrava di averlo già visto altrove. Il pischello aveva dei baffetti kitsch, che si dannava a far crescere ma che erano rimasti solo allo stadio di peluria; conoscevo quel genere di baffetti, così come conoscevo il suo modo di tenere le mani in tasca, affondate «fino ai gomiti», o il suo taglio di capelli fuori moda, del tipo heartbreaker Rodolfo Valentino, impomatati e pettinati all’indietro.
Ebbene, nelle mie condizioni, senza nessuna voglia di comunicare «con i miei compagni», e non potendo leggere, ciò si è convertito nel mio divertimento più produttivo (facile + accessibile) [2]: seguirlo tutto il giorno nel cortile della caserma, senza tentare di abbordarlo, studiarlo da lontano spedendo i sensi in perlustrazione a raccogliere informazioni che usavo per immaginarmi che tipo di persona fosse, intuendone la psicologia in base a quello che i sensi avevano raccolto fuori. Ebbene, ciò che saltava agli occhi in lui erano la sua mobilità e la «capacità di relazionarsi». La mobilità perché lo vedevo sempre muoversi, addirittura durante le adunate, quando faceva lo scemo con i commilitoni, e la socievolezza perché aveva fatto un sacco di conoscenze fra i caporali e i sottoufficiali (lo vedevo spesso nel cortile in loro compagnia, quelli camminando a larghi passi e lui correndogli accanto). Ne deducevo le social skill non solo in quei momenti ma anche dalle battute con cui lo accoglievano i suoi commilitoni (una volta ho sentito qualcuno che gli diceva: «ehi, minchietta, ci sei a casa?») o dalla familiarità con cui toccava tutti, quelle cose da ragazzi dove si mollano pugni a una spalla, ci si schiva, si appoggia la mano sulle spalle dell’amico vicino, abbandoni la testa sulla sua schiena ecc.
Passo seguente: mi sono messo a raccogliere in giro informazioni su di lui durante i momenti liberi, lavorando ai ferri interminabili supposizioni come dei calzettoni metafisici. Lo vedevo spesso in cucina, mentre serviva ai tavoli o sbucciando patate ecc. Ho fatto quindi amicizia con lo sguattero della compagnia, e quello mi ha detto che l’heartbreaker si chiama Ludovic, ma che tutti conoscevano come Gaboru, xché è «gabor», termine con cui in Transilvania si indicano gli «zingari ungheresi». In quel momento mi si è accesa la lampadina: gli zingari ungheresi sono quei tipi con baffi imponenti, pantaloni neri e larghi e cappello. I baffetti kitsch li avevo visti portare dai loro pischelli, e quella maniera di tenere le mani nelle tasche era un altro marchio della specie che si doveva alle tasche laterali e, probabilmente, fonde. Vero. Gli zingari gabor sono bassi di statura e compatti, e hanno una carnagione un po’ più chiara rispetto agli altri: era questo che mi aveva portato fuori strada. Per il resto presentava le caratteristiche della specie, con occhi grandi e ciglia lunghe, labbra più grosse e il viso più tondo.
Ma, sebbene fosse zingaro, non veniva discriminato dai suoi commilitoni, al contrario, credo che ne avessero fatto la propria mascotte, un giocattolo che si scambiavano tutto il giorno; durante l’adunata era un continuo dargli gomitate o gli nascondevano il berretto. In base al tipo psicologico che avevo intuito in lui, possedeva un modo speciale nell’infilarsi sotto la pelle: non c’era modo di sottrarsene, era amichevole in modo perverso sotto certi aspetti: toccava tutti e ciò nonostante non aveva l’aria di essere un libidinoso, nessuno si sentiva aggredito [3].
Passo 3: mi sono messo a raccogliere informazioni sugli zingari ungheresi. Ho scoperto che sono i più evoluti fra tutti gli zingari della Transilvania, che, pur conservando la loro haute cultura tradizionale, si sono integrati nell’economia di mercato, «trafficano con automobili portate dall’occidente, con l’oro, lavorano in Ungheria, praticano l’usura». Me li ricordavo dietro a Central, a trafficare oro, o nei cortili di lussuose case kitsch nella zona del ghetto di Cluj, venendo da Iris, dove si trovava il loro quartiere. Avevano in effetti un aspetto più urbanizzato, con uno stile simile a quello dei borsaneristi, diverso da quello dei contadini come quelli delle mie parti, o degli sniffatori di colla, come quelli degradati culturalmente di Bucarest, ma del genere tamarro, con la faccia tosta e l’aria tronfia.                         
Da lì, dai tamarri, aveva origine quindi la faccia tosta del tipo, la sua mancanza di complessi. Mi ricordo un episodio che mi ha confermato quella sua mancanza di complessi. So, insieme all’amico di Cuoricino (un soldato addetto alle cucine, così soprannominato perché soffriva di una malattia al cuore), faceva a chi era più alto con Genu, uno dei miei colleghi di plotone – uno spilungone imbranato. La scena era spassosissima, con Genu imbarazzato e preso alla sprovvista che si faceva prendere per i fondelli da quelle due spine che avevano invaso la sua intimità. Quelli, con la loro faccia tosta gli si erano messi di fianco perché si convincesse della differenza d’altezza; gli davano gomitate perché guardasse in giù, mentre loro alzavano in su la testa fin quasi a spezzarsi il collo, come se Genu fosse stato pazzescamente alto. Alla fine, sono scoppiati a ridere come degli invasati, senza alcun ritegno.

Passo 4, non so quanto sia rilevante: il contatto. Ero troppo timido per farmi notare da lui, sicché, alla fine, è stato lui a prendere l’iniziativa. In fondo, era lui quello con la faccia tosta. Si è accorto che ce l’avevo con lui e mi ha avvicinato, e non per domandarmi, come fanno i tamarri, «ragazzo, c’è qualche problema?», ma per chiedermi una sigaretta. Così, con la sua faccia tosta pragmatica da zingaro, che approfitta di tutto, addirittura di situazioni dubbiose, come quella in cui un tizio ti fissa stranamente per qualche minuto con interesse e in silenzio, con lo sguardo smarrito. Lo ha fatto senza inibizioni o complessi per via del fatto che ero un soldato a termine ridotto – i nostri mondi erano separati in modo spietato, era raro che qualche soldato a termine completo si azzardasse a fare l’ibrido abbordando un soldato a termine ridotto.
In seguito abbiamo cominciato a salutarci, a ridere, a scambiarci rapide battute, «come va, bambino?», «sembrerà a te, ma non sono bambino» e così via, ogni volta che ci incontravamo, «come va, bambino», «sembrerà a te, ma non sono un bambino». Una volta l’ho visto scendere al galoppo le scale, con un asciugamano sulla spalla, anche lui mi ha visto, «non vieni a fare la doccia?» mi ha chiesto, con un tono del tutto naturale, come se ci trovassimo in città e mi avesse invitato a prendere una birra insieme.
Alla fine, ho preso il coraggio a quattro mani e l’ho invitato a fumarci una sigaretta – lui stava salendo le scale dopo il rancio, io ero uscito apposta per vederlo salire. Ci siamo fatti la sigaretta nel lavatoio, altro posto dove andare non avevamo. All’inizio c’era poca gente, ma subito lo spazio ha cominciato ad affollarsi e questo m’impediva di sciogliermi. Ce ne stavamo accovacciati contro la parente e mentre chiacchieravamo, seduti per terra, in quella posizione scomoda, lui ha appoggiato in modo naturale e familiare la coscia contro la mia. Mi sono sorbito senza batter ciglio la sua storia: che ha una sorella sposata in Austria, che ha lavorato lì per guadagnare un po’ di soldi, che ha corrotto un dottore dandogli mille marchi per evitare la naia, ma che un amico lo ha denunciato, «il suo miglior amico», geloso di lui per via di una tipa, e così si è ritrovato sotto la naia.
Quello è stato il momento in cui ho deciso che «era lui», gli ho accordato lo statuto di amante virtuale, nonostante le conseguenze: quei dolori al plesso solare, cui replicavo con scene di seduzione a lungo termine, pensate a puntino nei minimi dettagli (ma che ovviamente rimandavo a scadenze imprecisate), poi, ancor più lontano dalla realtà, i fantasmi erotico-sessuali (dal momento che Gaboru aveva più di diciotto anni, non facevo distinzioni), nei quali io mi prendevo cura di lui, lo portavo con me nella 16, gli davo da mangiare, lo lavavo, lo pettinavo, lo amavo, lo invitavo fuori a bere vodka con Minică & Co. Anyway,  con quel sapore di esclusiva virtualità o con le sue latenze compensatorie, anche quell’episodio si trasformava in una sorta di esercizio narrativo; ciò che lo separava dal racconto a cui stavo lavorando erano un uno o due percento di pornografia che, per il resto, venivano dilatate dalla stessa sostanziale inconsistenza.
Per cui, malgrado il contesto, vivevo dei bei momenti, mettevo a punto strategie di seduzione, secernevo sentimenti e fantasie, raccoglievo con impegno pezzi di fatti che tesaurizzavo in un’opera d’arte, e il mio racconto aveva trovato finalmente un protagonista. Non avevo fretta, c’era tempo per ogni cosa, avevo ancora cinque mesi a disposizione. Solo che il mondo non era generato interamente dal mio lobo parietale sinistro; al suo interno e oltre la mia testa solipsista, vigevano addirittura delle leggi, e la gente era composta di sostanza reale e dotata di potere decisionale. Tuttavia è stato ingiusto quello che sarebbe accaduto nella zona destra del mio lobo parietale sinistro: a febbraio Gaboru, senza alcun preavviso, ha avuto il congedo. La mattina, durante la radunata, quelli erano vestiti in civile, con le valigie in mano. Sul serio, era ingiusto, mi sentivo come preso in giro, il sogno solipsista si trasformava in incubo. Mai mi sarebbe passato per la testa che Gaboru potesse essere congedato prima di me. Era ridicolo (kunderiano – m.n., Claudiu Gaiu) quello che mi era accaduto: il mio oggetto erotico-sessuale ha levato le ancore prima ancora che io potessi sentirmi realmente coinvolto, prima che potessi, in pratica, legarmi a lui e avere ragioni per soffrire; perché, per la miseria, tutta la nostra storia era durata appena tre settimane.
L’oggetto della mia narrazione aveva alzato i tacchi, volatilizzandosi, come se non fosse mai esistito, e assieme a lui, si sono volatilizzati, come in un mondo gonfiabile, tutti i miei progetti più o meno artistici. Uno strano sentimento questo, svegliarsi così, nella notte, «nel deserto»; solo dopo che se n’è andato, mi sono reso conto quante cose mi legavano a lui. Durante tutto il periodo in cui scrivevo il mio racconto, mi ero edificato su di lui, era lui che «mi aveva dato senso» – mi era entrato nei riflessi, nel sangue, lo cercavo continuamente con lo sguardo nel cortile della caserma. Con la sua scomparsa, ho dubitato se continuare il mio racconto. Dopo due giorni di blocco, mi sono deciso, per quanto assurdo potesse sembrare, di andare avanti, di continuare a costruire il feeling erotico-sessuale, anche se il punto di riferimento non c’era più. Continuare a vivere nella stessa logica e pensare, per esempio, che, dopo la naia, nulla avrebbe potuto impedirmi di andare a cercarlo. Mi sono spinto così tanto nel mio racconto fino a procurarmi addirittura il suo indirizzo: Ludovic Baranka, comune di Vărgata, villaggio di Lunca, n. 6, distretto di Mureş. Potrebbe essere l’indirizzo che figura nella sua carta d’identità: Gaboru mi diceva che abitava a Tîrgu Mureş. Forse non mi stava mentendo.                            

NOTE

1. È nota come sindrome da deprivazione informativa e si manifesta quando si sta troppo a lungo in un posto. È uguale e costante dal punto di vista fisico alla fame o all’astinenza sessuale.
2. Se le persone potessero vivere in cavi ottici, connessi al continuo flusso di informazioni, dimenticherebbero di moltiplicarsi. Ma, poiché sono troppo esposti allo stesso ambiente, nel tentativo di tenere la mente occupata con qualcos’altro, finiscono per amarsi e moltiplicarsi. Per questo motivo, per esempio, in prigione gli etero finiscono per innamorarsi di altri etero che si innamorano di altri etero ecc., mentre i soldati intrattengono intensi scambi con squinzie racchie: amare è, fino a un certo punto, come guardare Discovery o chattare. Tutto è più di niente: «Benvenuta illusione/Rimani, durerà ancora per poco».
3. Da tenere in considerazione i lati hippie del buon selvaggio: qui il buon selvaggio è provvisto del cazzo; con dolce incoscienza, lui ci gioca tutto il santo giorno, lo stimola fino all’erezione, lo mostra agli altri, «guardate cosa mi è cresciuto qui» ecc.

Traduzione dal romeno di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2012, anno II)