Una post-società ai margini della modernità: Ciprian Măceșaru e la Romania dei nostri giorni

Affresco tragicomico, e verosimile, della vasta Romania di provincia, nascosta e sprofondata nelle viscere del tessuto sociale lontano dal baluginio e dalla frenesia delle grandi città, Trecutul e întotdeauna cu un pas înaintea ta (Cartea Românească, Bucarest 2016, pp. 138), agile romanzo di Ciprian Măceșaru, classe 1976, diverte e stupisce facendo abbozzare sulle labbra del lettore sorrisi dal gusto tra l’amaro e l’agrodolce, facendogli provare sentimenti tra l’indignazione e l’incredulità, calandolo in situazioni surrealiste e altre spietatamente reali.
Ambientato in un immaginario e apocalittico villaggio, Strâmbeni – e già il nome evoca, suggerisce che vi è insito qualcosa di «strambo» –, popolato da una variegata e variopinta fauna umana, che un regista visionario alla Fellini avrebbe sfruttato (o potrebbe sfruttare) per girare un «Amarcord» attuale tutto romeno, l’autore passa in rassegna i «nuovi mostri» di una post-società incarnita in schemi comportamentali e mentali che sono, da un lato, il riflesso dei vizi antropologici di una comunità che vive ai margini della modernità e, dall’altro, specchio deformato e deformante che filtra il peggio della società urbanizzata, lontana e irraggiungibile, ma elargitrice di pratiche e riti collettivi non proprio edificanti – dalla violenza domestica all’ingiustizia sociale, dal menefreghismo dei politicanti alla fatalità della vita eretta a totem esistenziale inamovibile – che, si badi, farebbero da sfondo anche alla vita sociale di altre nazioni dei nostri giorni.
Narrato a volte con un (voluto e curioso) andamento narrativo sfasato o «a eco» e strutturato in brevi capitoli (venti in tutto, nei quali abbondano i dialoghi, resi in maniera realistica secondo la verve specifica e colorita tipica dello stile orale), con i personaggi che emigrano da un capitolo all’altro, ognuno latore di un episodio ad hoc che si lega a distanza più o meno ravvicinata al filo narrativo degli altri, l’autore dispiega tutta la sua fantasia inanellando succosissime storie in una panoplia di figure umane che vivacizzano il pacchiano mondo di Strâmbeni: da Timofte, il calciatore sfiorito e sfortunato che sogna ancora una vita di gloria sportiva, a Balaban, il sindaco, quintessenza del politico arraffone e incompetente, da Pompilică, lo svitato del villaggio (ma, come sempre, il personaggio più umano e onesto di tutti) – sempre a cavallo della sua inseparabile bicicletta –, alla dottoressa dell’ambulatorio, Ileana Petrescu, la «bruttina stagionata» indotta al suicidio perché vittima della violenza machista di quattro energumeni locali, dal vecchio e tragico Arghir, padre adottivo di Pompilică, a Zicu Roș, il rocker, detto il Pantera, che, tra una schitarrata e l’altra, legge Nietszche e ambisce a diventare nientemeno che un Übermensch. A fare da coro greco a questa umanità squinternata c’è la «gente» del villaggio, giudice e osservatrice morali dei suoi comportamenti, appostata in osteria o «la poartă».
Fra i capitoli più gustosi segnaliamo «Ubu Dubu» e «Mozaic»: la curiosità dei lettori sarà ricompensata pienamente grazie alla scrittura e allo stile efficaci e azzeccati di Ciprian Măceșaru che dimostra inoltre di essere un fantasioso e acuto osservatore e, superfluo sottolinearlo, un prosatore di talento.
           

Mauro Barindi



L’incarnazione del dio Cruyff

Quando Timofte entrava in campo, dimenticava tutto. Aveva una missione, al pallone dava del tu. A casa, Miruna borbottava ficcando il naso nelle pentole. Magari ce l’avesse ficcato solo lì... Lui entrava in campo scaldandosi le gambe.
Il macellaio ciccione avvolgeva la carne di maiale per Miruna in carta di giornale e sorrideva. Lei contraccambiava tutta vergognosa, più spesso con gli sguardi. Una donna seria.
Timofte entrava in campo e si dimenticava di tutto. Non era più una giovane speranza. Aveva avuto una gran sfiga.
Il macellaio regalava spesso della carne a Miruna. Miruna accettava.
Due attaccanti della Dinamo a Timofte avevano fatto a pezzi un ginocchio. Era come se glielo avessero stretto in una morsa. Operazioni, bustarelle ai medici, favori. Tutto inutile. Timofte pensava che il ginocchio alla fine si sarebbe aggiustato da solo, che quegli interventi non avrebbero fatto altro che rallentarne la guarigione.
Miruna lanciava sguardi al ciccione, dalle grandi vetrine si vedevano passare le macchine e la gente, qualche volta si metteva a piovere, altre volte a nevicare, nella macelleria, solo loro due e i mucchi di carne.
Timofte magari ce l’avrebbe fatta a giocare per una grande squadra di Bucarest. Un attaccante purosangue. Non ci stava a pensar su tanto: quando prendeva palla, la calciava subito.
Il macellaio invitava Miruna a prendere un tè nella stanzetta del retro. Miruna rifiutava, ma il ciccione le entrava sempre più in simpatia. Fino a quando avrebbe dovuto aspettare Timofte?! Quando avrebbe messo la testa a posto quello? Timofte aveva già compiuto trent’anni, aveva perso il treno ormai. Lei: appena ventisei. Era ancora bella. Andava dal macellaio, si sbottonava un po’ la camicetta. Il macellaio deglutiva rapito. Aveva dei gran bei seni, appetitosi. Il ciccione incartava il pezzo di maiale e le rinnovava l’invito.
– Un’altra volta, diceva lei, poi si pentiva di quel momento di debolezza.
Una donna seria.
Timofte aveva i capelli biondi, ondulati, sulla punta della testa gli era uscita una piccola chiazza rosa. Sua moglie tornava a casa, schiaffava furiosa la carne in frigorifero. Pensava a come l’avrebbe posseduta quel simpaticone del macellaio, come l’avrebbe afferrata per i fianchi con quelle sue zampone, da tarantola. Chiudeva gli occhi eccitata.
Timofte continuava ancora adesso a insaccare tanti gol. Giocava nella Divisione C, per il Virtus Strambeni. In una partita arrivò a segnarne cinque, di cui uno con sforbiciata. Gli impresari chiesero di lui. La lama della ghigliottina però cadde inesorabile:
– Trent’anni.
– Peccato! Un gran talento.
Tutti erano venuti a conoscenza della faccenda. Avrebbe potuto giocare nell’Inter, magari anche nel Barcellona.
Miruna lavorava nella fabbrica di sacchi. Qualche volta, invece del salario, come paga riceveva dei sacchi. Ne aveva riempito la dispensa. Era andata al mercato, aveva provato a venderli. Lì si era incontrata con altri suoi colleghi. Tutti volevano disfarsene. Sacchi di rafia, di juta, di canapa, montagne di sacchi.
Dallo stadio Timofte si fiondava direttamente all’osteria nel centro del villaggio. Se aveva segnato, i compaesani gli offrivano da bere, era il loro eroe. Segnava quasi in ogni partita, e quelli lo facevano ubriacare quasi ogni settimana. Al pallone dava ancora del tu.
Miruna rampognava i figli. Ne aveva due: Maria e Ionel. Miruna faceva da mangiare, lavava, puliva in casa. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Si era stufata. Aveva buttato via la giovinezza. Timofte si lamentava di aver perso la sua grande occasione, ma a lei non pensava mai nessuno. Avrebbe potuto avere per marito uno come il macellaio.
– Quello sì che è un uomo!
Si era fatto su una casetta coi fiocchi, aveva già cambiato due macchine, due Volkswagen, ora aveva una Mercedes-Benz metallizzata. Quando passava per la strada principale del villaggio nella sua macchina lussuosa, tutti lo guardavo con un miscuglio di ammirazione e invidia. Soprattutto di invidia.
Miruna sognava l’amore. Si era presa una scuffia per i capelli biondi ondulati di Timofte. Un gran dongiovanni. Era adorato da tutte. Portava camicie fiorate, catenina d’oro al collo, masticava gomma americana, si credeva Johan Cruyff. Come se la tirava, per la miseria! Era solo una questione di tempo, prima o poi sarebbe entrato in una delle squadre al top della Romania, così pensava lui. Aveva diciannove anni, e un’eternità davanti.
Il macellaio era rimasto vedovo appena un mese dopo le nozze, sua moglie era stata incornata alla pancia da un toro.
Miruna avrebbe potuto prendere la maturità, avrebbe potuto iscriversi all’università. Invece è arrivata solo alla licenza media. Il Cruyff di Strambeni l’aveva soddisfatta, mettendola incinta.
A soli venticinque anni Timofte arrivò a giocare in serie A, in una squadra di livello medio. Gli uomini di Strambeni facevano la ressa all’osteria per assistere alle partite davanti ai due televisori a disposizione.
Timofte giocò tre partite. Nella prima non segnò, ma centrò la traversa con un magnifico calcio al volo. Nella seconda mise a segno una doppietta e pareva che niente avrebbe potuto più sbarrargli la strada. Nell’ultima fu buttato giù in area di rigore, conquistando il tiro dagli 11 metri. Quella fu la fine. La gente pianse l’infelice sorte toccata a questo grande asso, la squadra nazionale avrebbe avuto bisogno di lui, i tifosi ne erano più che convinti.
Il macellaio accompagnò al camposanto la moglie e si mise a tranciare come un matto maiali e vitelli, a venderne la carne nel comune e in città. Lavorava per dimenticare. La notte piangeva, piangeva tanto quanto era grande e grosso fino a strappare le lenzuola. Timofte tornò dalla moglie e dal figlio con la coda fra le gambe, si piazzò nell’osteria. Ora a Strambeni vivevano due uomini disgraziati. Ululavano come due lupi.
Il Cruyff di Strambeni era diventato un alcolizzato con le stampelle. La sera cavalcava la moglie e le chiedeva perdono. Lei taceva, lo amava, lo amava ancora, doveva superare quella disgrazia. Lo rincuorava, gli diceva che sarebbe guarito, e infatti lui guarì, calpestò di nuovo il rettangolo di gioco dopo quasi due anni. Il ginocchio si rimise in sesto molto rapidamente, ma fu dura per lui riacquistare la forma atletica. Infatti non la riacquistò più del tutto, ma aiutò la squadra locale a essere promossa dalla serie regionale alla serie C. La gente allo stadio non si stancava di raccontare quanto avesse brillato Timoftinho in quelle tre partite di A. Scandivano il suo nome. Lui si emozionava, poi correva in osteria a festeggiare. Un giorno entrò il macellaio e tutti piombarono in silenzio.
– Ehi, disgraziato, guarda che tua moglie ha partorito!
L’aveva vista per strada piegata in due dal dolore e l’aveva accompagnata all’ospedale. Nessuno osò affrontare il macellaio, ne avevano tutti paura. Se ti mollava un cartone, eri bello che stecchito.
Fu in quel modo che venne al mondo Ionel, un bimbo rachitico con certi denti da cavallo, un po’ ritardato. Non si sa né come né perché, ma da allora Miruna si invaghì del macellaio.
– Quello non è un uomo, ti prendo io, mi prenderò cura io dei tuoi figli. Vedi, non mi manca niente, ma a che mi serve se a casa non c’è nessuno?
– Ci penserò, rispose lei, pentendosi però subito dopo per quel momento di debolezza.
Una donna seria.
La gente si era messa a spettegolare. Timofte andò dal macellaio.
– Senti, lascia mia moglie in pace, gli urlò.
– Sarà solo lei a deciderlo, disse con calma il macellaio e, paf, tranciò con la mannaia una coscia di agnello.
Timofte era furioso.
– Lei ha deciso di no!
Il ciccione lo guardò dritto con quei suoi occhi neri e risoluti:
– Me lo deve dire Miruna, non te.
Timofte entrava in campo, dava ancora del tu al pallone, anche quando si tirava una sbronza prima della partita. La squadra era approdata di nuova alla serie regionale. Lui riusciva ancora a insaccare ogni due, tre partite. Aveva compiuto trentaquattro anni e in molti ormai lo prendevano in giro, gridandogli che era meglio che abbandonasse il calcio e che corresse a strappare la moglie dalle braccia del macellaio. Alla fine Miruna aveva accettato l’invito a prendere un tè, aveva dei figli da crescere. Ma non voleva divorziare. Una donna seria. Provava pietà per Maria e Ionel.
– Lascia che crescano ancora un po’, le diceva il ciccione e lui capiva, sospirava, ma capiva.
Arrivò la partita d’addio. Lo stadio era stracolmo. Prima del fischio d’inizio, il sindaco consegnò a Timofte un diploma, dei fiori e una coppa. Si vociferava che gli avrebbero conferito addirittura la cittadinanza onoraria. Lui cercò con lo sguardo Miruna e i figli, ma i loro posti erano vuoti. Strinse i pugni e giocò come un vero asso, inducendo molti a domandarsi se la sua decisione di ritirarsi non fosse stata troppo affrettata. Lui sognava di stare al Bernabeu, al Camp Nou, al Maracanã, al San Siro, vedeva le tribune balzare fino al cielo con migliaia di persone che scandivano il suo nome. Infilava gli avversari uno dopo l’altro come perline, era diventato la personificazione del dio Cruyff, un atleta perfetto.
La Mercedes metallizzata si dirigeva verso città, con Miruna che guardava dal finestrino mentre sentiva le grida di tripudio che si riversavano dallo stadio. Il grande biondo aveva dribblato quattro terzini per poi sparare dentro la palla all’incrocio dei pali.


Campagna elettorale

Nel comune di Strambeni solo il viale principale era asfaltato. Il sindaco Balaban aveva ottenuto dei fondi dalla Comunità Europea, eppure le strade secondarie erano rimaste da asfaltare. Aveva messo i cartelli con il nome di ciascuna e ci aveva gettato qualche camionata di ghiaia. E basta. Chi poteva controllarlo?! Il suo partito allora era al potere. Mandava i soldi ai piani alti e finiva così, in pace e armonia. Gli abitanti? Dei cretini! Erano bravi a parole solo all’osteria o seduti sulla panchetta davanti casa.
– Al diavolo, tutti rubano.
– Che rubino pure, ma almeno che facciano le cose, diceva la gente e tirava dritto.
Poi fu eretto il monumento al milite ignoto.
La gente? Orgogliosissima!
– Ecco, abbiamo anche noi qualcosa di speciale nel comune!
E giù a mugugnare, all’osteria e davanti casa.
– Con quei soldi magari ci faceva qualcosa di più utile.
Solo dopo che il sindaco aveva asfaltato una delle strade secondarie che finiva dritta davanti alla sua villetta, la gente uscì in strada a protestare.
– Buuh, buuh, buuh!
Il sindaco allora distribuì i prodotti che gli abitanti avrebbero dovuto ricevere da un pezzo, aiuti provenienti dallo Stato, dei secchi di plastica, un chilo di zucchero e uno di farina, una bottiglia d’olio… Gli animi si placarono.
– Baciamo le mani!
– Eh, le nostre strade sono così da sempre, e non è mai morto nessuno per questo. I romeni sono amici della natura. È così che siamo sopravvissuti ai secoli, diceva Popescu, grande appassionato di storia. Ci siamo tenuti le nostre strade sterrate e abbiamo resistito. Sono arrivati i turchi, gli ungheresi, i russi… Noi sempre qua stiamo. Abbiamo sofferto per il benessere di altri. Ci siamo opposti ai tartari e agli ottomani evitando che invadessero l’Occidente. Li abbiamo affrontati a petto nudo. Quelli in Occidente hanno costruito cattedrali, e ora si vantano di essere civilizzati. Sul naso aquilino Popescu portava degli occhiali con lenti spesse così. Aveva due occhietti da talpa. Due puntini neri. Sul bavero, infilato con uno spillo, portava un nastrino col tricolore romeno. Celibe, viveva da solo nella casa che aveva ereditato dai genitori. Aveva compiuto cinquant’anni. Era l’uomo di Balaban. Il suo uomo segreto. Il suo informatore. Quando scoppiava qualche disputa, si infiltrava in mezzo ai più recalcitranti, inoculandogli negli orecchi quello che desiderava Balaban. Era convincente. Aveva la lingua sciolta. Leggeva i libri di Pavel Coruț. Era a conoscenza di tutte le cospirazioni mondiali. Ovviamente era pagato dal sindaco. Specie in quel momento in cui Balaban aveva bisogno di sapere che cosa la gente pensasse di lui, dato che il suo mandato stava per finire. Voleva vincere anche il secondo. Il suo controcandidato, Radu Stăncioiu, lo tallonava pericolosamente. Il suo slogan era: «FACCIAMO LE COSE DRITTE A STRAMBENI!».
– E con i dossi come facciamo?! esclamavano i più burloni.
– Cosa vuole la gente? domandava Balaban a Popescu.
– Strade, fognature, corrente elettrica in tutto il comune…
– Ma dove si credono di essere, eh?! A Parigi?! Ma che andassero a farsi fottere!...
– Capo, qualcosina gliela devi dare, sennò…
– D’accordo, ma non strade illuminate, e asfaltate!... Le fogne poi! A questi gli manca proprio il senso della realtà.
Per gli elettori l’argomento decisivo a favore di Balaban era comunque un altro: il fatto cioè che era nato a Strambeni, che era uno del posto, per così dire. Non come Stăncioiu, che veniva da Movilița, una località di là delle colline, anche se si era stabilito a Strambeni da più di dieci anni, da quando cioè si era sposato con Arina, la figlia di Dumitru, il ferracavalli.
– Stăncioiu è un presuntuoso, come tutti quelli di Movilița, come se Movilița fosse il centro del mondo. Senza contare che tratta male la nostra Arina, lo sanno tutti che non vive bene con lui, dicevano i sostenitori di Balaban.
Neanche la moglie di Balaban era di Strambeni, ma di Rovina, un villaggio distante un centinaio di chilometri, per questo nessuno si preoccupava tanto se il sindaco la picchiava prendendola a pugni e a calci. Molti conoscevano Balaban fin da quando era bambino, come non ci si poteva sentire affezionati a lui?! Non a caso il suo slogan era: «SONO UNO DI VOI!»
– È una scansafatiche, per questo la gonfia di botte. È ingrassata come una palla di lardo. Non la vedi una sola volta a passare la scopa in cortile o a stendere i panni. Come si fa a non dargliene quattro?! Al contrario, Balaban è un tipo gentile, una persona dall’animo buono, perché noi di Strambeni siamo fatti cosi, dei fessi buoni. Eh, se era mia moglie, gliela facevo vedere io... Vedevi come buttava giù la ciccia, come ci dava di gomito con lo spazzolone, come sgobbava tutto il santo giorno, come mi aspettava con il cibo pronto in tavola e mi lavava, mi stirava, gliela facevo vedere io, ve lo giuro. E mi metteva al mondo anche i figli, come no. E sì, perché è anche per questo che la bastona per bene il sindaco, perché è sterile come una capra insulsa. Gliene avrei date tante che di figli me ne avrebbe messi al mondo un reggimento intero, uno dopo l’altro, perché, si capisce, io sono anche ben dotato, se mi capita una donna fra le mani, un attimo dopo già c’ha il pancione, che c’ho tanta di quella potenza io…, diceva Avădan all’osteria.
– Ma va là!, gli ridevano dietro gli altri.
Quando Balaban si costruì la villetta, la gente lo stramalediceva a ogni ora, ma lo difendeva anche:
– È sindaco, volete mica che abiti in una catapecchia?!
La stessa cosa pensarono quando davanti alla villetta spuntò un Grand Cherokee:
– Volete mica che vada in giro col carretto o con una Dacia scassata?! Ci farebbe spernacchiare.
Lo invidiavano con ammirazione.
– È un ragazzo sveglio Balaban!
Lo rispettavano. I suoi amici d’infanzia non gli potevano più dare del tu.
– Buongiorno, signor sindaco!
– I miei rispetti, signor Balaban.
– Si ricorda ancora quando andavamo insieme al pascolo con le mucche?
Al che il sindaco sorrideva imbarazzato e rispondeva dicendo:
– Hai bevuto di nuovo.
La lotta politica si era fatta aspra. Alcuni preferivano Stăncioiu. Aveva promesso acqua corrente ed elettricità dappertutto, e strade asfaltate.
– Ma da dove prenderà i soldi per fare i lavori?! controbatteva Balaban. Son tutte balle. A parole siamo bravi tutti a dare. Ma neppure io che sono il vostro sindaco lo so, quindi chi lo può sapere?! Non ci sono soldi. Punto! Quello che ho potuto fare, l’ho fatto. Con enormi sacrifici e suppliche. Stăncioiu va in giro a fare solo promesse elettorali. È convinto che voi siete dei gonzi. Oh, Stăncioiu, la gente di Strambeni non si fa mica prendere per i fondelli.
Molti degli abitanti di Strambeni si sentivano crescere dentro l’orgoglio, si sentivano raddrizzare sulla schiena:
– Dice bene il signor sindaco, noi non siamo fessi! Tornatene alla tua Movilița di merda.
Tuttavia non erano pochi quelli che avrebbero concesso a Stăncioiu una opportunità. Popescu però sondò il terreno dell’avversario, a Movilița, e scoprì che Stăncioiu era stato sposato due volte, sicché le sue possibilità come controcandidato andarono in fumo, le vecchiette alzarono gli occhi al cielo, sputarono in segno di disprezzo, e si fecero vari segni della croce.
– Quale uomo serio si sposa tre volte?! dicevano. Solo uno senza Dio.
Perfino gli uomini si fecero più scettici:
– Ha qualcosa in testa che non lo fa andare d’accordo con nessuna; guarda, neppure con Arina si intende. Come potrebbe uno come lui stare alla guida del comune? Balaban baciò Popescu sulle guance, muah, muah!, e gli disse:
– Ti nomino vicesindaco.
– Grazie, capo!
Da un cassetto della scrivania tirò fuori una bottiglia di grappa e due bicchierini. Si guardarono negli occhi umidi di commozione.
– Alla salute, Popescu!
– Alla salute, capo!


(Traduzione dal romeno di Mauro Barindi)

(febbraio 2017, anno VII)