Dopo 86 anni, una nuova traduzione della novella «Alexandru Lăpușneanu» di Costache Negruzzi

A 86 anni dalla prima traduzione in italiano di uno dei capolavori della letteratura romantica romena, Alexandru Lăpușneanu di Constantin (Costache) Negruzzi (1808-1868), novella «programmaticamente» a fondo storico ed espressione quindi delle teorie letterarie della generazione pascioptista, pubblicata sul primo numero di «Dacia Literară» (Iași, 1840), rivista fondata da Mihail Kogălniceanu, capofila e teorico del primo movimento letterario romeno moderno, «Orizzonti culturali italo-romeni» ne propone una nuova traduzione a cura di Mauro Barindi, pubblicando i primi due capitoli in questo numero, cui faranno seguito gli ultimi due nel prossimo.
La versione italiana fu pubblicata nel 1931 dalle storiche edizioni di G. Carabba (Lanciano), editrice che dalla prima metà degli anni ’20 fino agli anni ’60 del secolo scorso si era distinta come una vera e propria vetrina della letteratura romena in italiano, pubblicando grandi autori romeni (Rebreanu, Caragiale, Sadoveanu), e si deve a Maria Bulciolu, verosimilmente un’allieva (sarda) del filologo e linguista Giulio Bertoni: così si evince infatti dal loro breve carteggio (conservato presso la Biblioteca Estense-Universitaria di Modena) nel corso del quale la scrivente, in alcune lettere, spedite tra il 1930 e il 1931, chiede all’illustre professore consigli e giudizi sulla sua tesi di laurea. Oltre alla novella in questione, il volume contiene anche questi altri scritti di Negruzzi: Sobiezky e i romeni, Scene contemporanee, Nero su bianco, Dalle lettere a un amico. (*)
Sempre Maria Bulciolu l’anno seguente, il 1932, e sempre per i tipi G. Carabba, tradurrà il romanzo di Lucia Mantu (pseudonimo letterario di Camelia Nădejde, 1888-1971), Cucoana Olimpia (sottotitolo; Tipuri și moravuri, scene din viața de provincie) 1924, col titolo Gente moldava.
Eseguendo una ricerca in rete e nei cataloghi delle principali biblioteche nazionali europee e di altri continenti per avere un’idea della diffusione e della notorietà del capolavoro negruzziano in traduzione, si scopre che la novella ha avuto più di una versione in tedesco (5: 1922, 1933, 1943, 1959 – due versioni nello stesso anno –), inglese (4: 1921, 1983, 2005, 2006) е russo (4: 1958, 1970, 1980, 1985); una in francese (1962), neogreco (2016) e ungherese (1951) – come in italiano –, e, un po’ a sorpresa, nessuna in spagnolo e portoghese, due lingue di ampie dimensioni in quanto a numero di parlanti nonché idiomi di grande cultura.
Ritradurre un classico è sempre una piccola sfida che il traduttore affronta con la consapevolezza di assumersi qualche rischio ma anche con il piacere intellettuale di misurarsi con un testo di riferimento, la cui, per così dire, «riverniciatura» non deve solo limitarsi o basarsi su un necessario aggiornamento di stilemi – sintattici, di stile e vocabolario – ormai un po’ datati e polverosi, ma di imprimergli in primo luogo un nuovo respiro che non sciupi o snaturi l’anima in filigrana di un testo, come quello di Negruzzi, dell’Ottocento letterario romeno.    
A mo’ di curiosità per il lettore e per un raffronto parziale e veloce con la nuova traduzione qui proposta, riportiamo l’incipit della novella nella «classica» versione di Maria Bulciolu:

I
«Se voi non mi volete io vi voglio…»
Iacob Eraclid, detto il Despota, era morto sotto la mazza di Stefano Tomscia il quale governava allora il paese. E Alessandro Lapusneanu, dopo la sconfitta subita in due scontri dalle soldatesche del Despota, si era rifugiato a Costantinopoli. Con le milizie turche, ch’era riuscito a mettere insieme, ritornava indietro per inseguire il rapace Tomscia e per riconquistare il trono che, senza il tradimento dei boiari, non avrebbe perduto. Egli era entrato in Moldavia con una scorta di settemila spahii e di circa tremila soldati raccogliticci. Aveva inoltre ordini imperiali per ottenere dal Kan qualunque aiuto d’armi richiedesse. Lapusneanu procedeva a fianco del vornic Bogdan; ambedue montavano stalloni turchi ed erano armati da capo a piedi. «Che ne pensi, Bogdan?» disse dopo un breve silenzio «riusciremo?» «La Grandezza Tua non dubiti», rispose il cortigiano, «il paese geme sotto l’oppressione di Tomscia. L’intero esercito si sottometterà se gli si prometta un maggior soldo. I boiari, quanti ne ho lasciati ancor vivi, son tenuti solo dalla paura della morte, ma quando vedranno che la Grandezza Tua si avanza con la forza, subito accorreranno e lo abbandoneranno». […]

(*) Per completezza di informazione, il terzo capitolo di Alexandru Lăpușneanu è stato parzialmente tradotto da M. Popescu (col titolo Il festino tragico) ed è presente in: S. Graciotti, M. Popescu, S. Karadgiov, F. Maspero, M. Ressuli, Antologia delle letterature del Sud-est europeo, Fratelli Fabbri editori, 1969-1970 Milano, pp. 135-139.

Mauro Barindi



Costache Negruzzi, Alexandru Lăpușneanu
(1840)


Capitolo I
«Se voi non volete me, son io a voler voi…»


Iacob Eraclides, soprannominato il Principe Despota [1], perì sotto i colpi di Ștefan Tomșa [2], il quale regnava all’epoca il paese, e Alexandru Lăpușneanu, dopo la duplice sconfitta patita per opera delle milizie di tale Despota, trovò riparo a Costantinopoli ove conseguì radunare delle truppe turche e donde fece ritorno per cacciare l’usurpatore Tomșa e riconquistare il trono, che non avrebbe perduto se non fosse stato tradito dai boiardi. Entrò in Moldavia, accompagnato da settemila spahi [3] e da circa tremila soldati di ventura. Oltre a questi, era in possesso di bolle imperiali indirizzate al khan dei tartari Nogai affinché gli venisse in soccorso con altre truppe ogniqualvolta lo avesse sollecitato.        
Lăpușneanu procedeva a fianco del vornic [4] Bogdan, entrambi armati da capo a piedi, a cavallo di purosangue turchi.
«Che pensi, Bogdan», disse dopo qualche attimo di silenzio, «riusciremo a conseguir la vittoria?»
«Non ne dubitate, Maestà», rispose il cortigiano, «il paese geme oppresso da Tomșa. L’esercito tutto si piegherà non appena gli verranno promessi più lauti ingaggi. Quanto ai boiardi, quanti fra di essi saranno rimasti ancora in vita, a trattenerli è solo il timore della morte, ma come vedranno che vostra Maestà s’avventerà con impeto, subito si daranno alla fuga, abbandonandolo».   
«Voglia Iddio che non vi sarà bisogno di fare quello che fece il voivoda Mircea [5] in Valacchia; ma come già ti dissi, conosco bene i nostri boiardi, poiché vissi in mezzo a loro».
«Sarà la vostra infinita saggezza a stabilirlo».
E così discorrendo, giunsero nei d’intorni di Tecuci, e lì s’accamparono presso una boscaglia.
«Principe», disse uno scudiero avvicinandosi, «alcuni boiardi giunti or ora chiedono il permesso a vostra Maestà di essere ricevuti».
«Che entrino!», rispose Alexandru.
Poco dopo s’avanzarono nella sua tenda, ove sedeva attorniato dai suoi, quattro boiardi: due più anziani, e due di più giovane età. Costoro erano il vornic Moțoc, il postelnic [6] Veveriță e due spătar [7], Spancioc e Stroici.
Appressandosi al voivoda Alexandru, si chinarono fino a sfiorare terra, senza però baciare, com’era usanza, le falde delle sue vesti.
«Siate i benvenuti, boiardi!» disse sforzandosi di sorridere.
«Salute a vostra Maestà», risposero i boiardi.
«Ho udito», proseguì Alexandru, «delle tribolazioni del paese e son giunto in suo soccorso; so che il paese mi attende con gioia».
«Non ne abbiate a male, Maestà», disse Moțoc, «ma il paese è tranquillo e forse vostra Maestà ha udito cose che non corrispondono al vero, ché così costuma fare il nostro popolo: far d’una mosca un elefante. Per tal ragione siamo stati inviati per dirvi che il popolo non vi vuole, né vi ama e che dovreste ritornarvene a…»
«Se voi non volete me, son io a voler voi», replicò Lăpușneanu, i cui occhi baluginavano come saette, «e se voi non mi amate, io amo voi e giungerò a destinazione con o senza il vostro permesso. Tornare indietro? Semmai sarà prima il Danubio a invertire il suo corso! Ah! Il paese non mi vuole? Siete voi a non voler me, se ben comprendo?»
«Ambasciator non porta pena», disse Spancioc; «noi abbiamo solo il dovere di riferirvi la verità. I boiardi son decisi a trovare rifugio in Ungheria, in Polonia e in Valacchia, dove hanno tutti parenti e amici. Faranno ritorno con eserciti stranieri e sciagurato sarà il nostro paese quando scoppieranno guerre tra noi e forse neppure vostra Maestà ne avrà alcun beneficio, poiché il principe Tomșa…»
«Tomșa! È stato lui a insegnarti a parlar con tanta spavalderia? Non so chi mi trattenga dal fracassarti i denti con questa mazza» disse strappandola dalle mani di Bogdan. «È stato quell’infame di Tomșa a insegnarti…?»
«Non può essere infame colui che è stato considerato degno di essere chiamato l’Unto del Signore», disse Veveriță.
«Perché non sono forse anch’io l’Unto del Signore? Non avevate giurato forse anche a me fedeltà, quando ero semplicemente lo stolnic Petru? Non siete stati a voi a eleggermi? Come è stato il mio regno? Ho fatto forse sparger sangue? Chi fra coloro che hanno bussato alla mia porta se n’è andato senza aver ottenuto giustizia e consolazione? Ciò nonostante, ora non mi volete, né mi amate più? Ha, ha, ha!»
Rideva; e ridendo sussultava in tutto il corpo, e i suoi occhi sbaluginavano irrequieti.
«Con il vostro permesso, Maestà», disse Stroici, «vediamo che la nostra patria sarà nuovamente calpestata dai pagani. Quando quest’orda di turchi avrà depredato e raso al suolo il paese, su che cosa regnerete, Maestà?»
«E con che cosa placherete la voracità di queste legioni di miscredenti che vi portate appresso?» aggiunse Spancioc.    
«Con le vostre ricchezze, non col danaro dei contadini che voi depredate. Voi spremete il paese, ma è giunta l’ora che sia io a spremere voi. Basta, boiardi! Tornate da dove siete venuti e dite a colui che vi ha inviato qui che eviti di incrociare il mio cammino, se non vuole che di sue ossa faccia pifferi e di sua pelle battitoia per tamburi».
I boiardi uscirono con mestizia; Moțoc invece non si mosse.
«Perché sei rimasto?» domandò Lăpușneanu.
«Principe! Principe!» disse Moțoc, buttandosi in ginocchio, «non ci punite per i nostri misfatti! Ricordatevi che siete figlio della nostra stessa terra, ricordatevi dell’insegnamento delle Scritture e perdonate coloro che vi hanno arrecato un torto! Risparmiate questa povera terra. Principe, cacciate quei pagani dall’esercito! Venite solo con i Moldavi che sono al seguito di vostra Maestà, e noi promettiamo che non vi sarà torto neanche un capello; e se avrete bisogno di soldati, formeremo un esercito con le nostre donne e i nostri figli, solleveremo il paese, insieme ai nostri servi e ai nostri vicini. Abbiate fiducia in noi!»
«Avere fiducia in voi?» disse Lăpușneanu intuendo i suoi propositi. «Tu credi che io non conosca quel detto moldavo che dice “Il lupo perde il pelo ma non il vizio?” Come se non vi conoscessi, e te maggiormente! Come se non sapessi che tu, pur essendo al comando delle mie schiere, non appena hai visto che ero sconfitto, mi hai abbandonato! Veverița mi è nemico da antica data, e non ne ha mai fatto segreto; Spancioc è ancora giovane, nel suo cuore alberga l’amore per la patria: traggo gioia nel vedere il suo orgoglio, che non si fa scrupolo di tener nascosto. Stroici è ancora un bambino, non è ancora smaliziato, né sa discernere l’adulazione dalla menzogna: a lui pare che tutto il bianco sia farina. E tu, Moțoc? Incattivito, uso a lisciar il pelo a tutti i prìncipi, hai venduto il Despota, hai venduto me, e venderai anche Tomșa. Dimmi, non sarei sommamente stolto se mi fidassi di te? Io tuttavia ti perdono per aver tu osato credere che mi avresti tradito ancora, e ti prometto che non insozzerò la mia spada col tuo sangue; ti risparmierò perché mi tornerai utile per affrancarmi dalle maledizioni del popolo. Son ben altri i fuchi di cui ci si deve sbarazzare nell’alveare.»
Moțoc gli baciò le mani, come fa il cane che lecca la mano invece di morderla a chi vuol picchiarlo. Era soddisfatto della promessa che gli aveva strappato; sapeva che il voivoda Alexandru aveva bisogno di un intrigante come lui. I messaggeri di Tomșa, qualora non fossero riusciti a far recedere Lăpușneanu dal suo proposito, erano stati istruiti a proseguire il loro cammino verso Costantinopoli, e lì ordire, tramite suppliche e profferte in denaro, il suo spodestamento. Ma Moțoc vedendo che il principe si fregiava niente meno dell’assenso della Sublime Porta, e non osando d’altronde far ritorno da Tomșa a mani vuote, aveva chiesto il permesso di rimanere per seguirlo. Questo era il suo piano al fine di poter stare alle calcagna di Lăpușneanu. E lo ottenne.   

 
[1] Iacobo Basilikos (Iacob Heraclid Despot) (1510?-1563), singolare figura di avventuriero ed erudita, originario dell’isola di Samo, come afferma egli stesso attraverso il suo biografo, Johannes Sommer Pirnensis. Scalzato Lăpușneanu dal suo primo trono con l’appoggio del nobile polacco protestante Albert Laski, fu l’unico principe riformato a regnare per pochi anni sul trono della Moldavia (1561-1563) col titolo di Ioan Iacob (Despot) vodă, promovendo a corte una politica culturale innovativa, ispirata a quelle delle corti occidentali.
[2] Ștefan VII Tomșa, ottiene il suo effimero trono regnando tra il 1563 e il 1564 dopo aver battuto e ucciso Ioan Iacob Despot nell’assedio di Suceava. Messo in fuga a sua volta dal principe Lăpușneanu, che rioccupa il trono per il suo secondo regno, si rifugiò in fine in Polonia dove venne decapitato per ordine del re polacco su richiesta degli ottomani.
[3] Soldati turchi a cavallo.
[4] Boiardo col rango di giudice          .
[5] Mircea V Ciobanul (? – 1559) salì sul trono della Valacchia in tre occasioni: dal 1545 al 1552, dal 1553 al 1554 e dal 1558 al 1559. È passato alla storia come un principe spietato e sanguinario, facendo uccidere anche lui durante un banchetto un gran numero di boiardi per timore che lo tradissero. Sposò la principessa Chiajna, figlia di Petru Rareș e nipote di Ștefan cel Mare, passata a fama letteraria, oltre a quella storica, grazie all’omonima novella scritta da Alexandru Odobescu.
[6] Ciambellano di corte, addetto al protocollo.
[7] Boiardo che portava la spada del principe. 



Capitolo II
«Ne dovrete render conto, signora…!»


Tomșa, sentendosi incapace di opporsi, era fuggito in Valacchia e Lăpușneanu non aveva incontrato alcun ostacolo sul suo cammino. Ovunque il popolo lo accoglieva con gioia e speranza, ricordandosi del suo primo regno, durante il quale però non aveva avuto tempo di palesare il suo abietto carattere. I boiardi però tremavano. Due erano gli aspetti che maggiormente li preoccupavano: che il popolo li detestava e che il principe non li amava.
Non appena fu giunto, Lăpușneanu ordinò che tutte le fortezze della Moldavia, tranne quella di Hotin, fossero stipate di legna e che vi se appiccasse il fuoco, volendo in tal modo distruggere i covi degli scontenti, i quali molte volte, al riparo delle mura, ordivano complotti e sobillavano rivolte. Al fine di sottrarre ogni influenza ai boiardi e di estirpare ogni sacca di feudalità, li spogliò con vari pretesti delle loro ricchezze, privandoli in tal modo dell’unico mezzo con il quale potevano ancora irretire e corrompere il popolo. 
Ma non considerando sufficienti tali provvedimenti, di tanto in tanto li faceva uccidere. Al minimo fallo nel loro esercizio, alla minima lamentela che gli venisse rivolta, ai colpevoli veniva mozzata la testa e appesa sopra il portone della corte, accompagnata da un foglio sul quale era riportato il loro errore, presunto o reale che fosse, e non faceva in tempo a decomporsi che già un’altra ne prendeva il posto. 
Nessuno ardiva parlare contro di lui, e men che meno ordire alcunché. Un folto stuolo di mercenari albanesi, serbi, magiari, cacciati via a causa delle loro nefandezze, avevano trovato ricetto presso Alexandru, il quale, foraggiandoli per bene, se li era arruffianati, mentre teneva lontane le milizie moldave, sotto gli ordini di condottieri di sua nomina, delle quali però aveva ridotto il numero, avendo dato licenza a parte dei soldati di tornare alle loro dimore.
Un giorno si aggirava da solo per le stanze del palazzo principesco. Aveva tenuto un lungo incontro con Moțoc, nel quale aveva di nuovo riposto la sua stima, e si apprestava a uscire dopo avergli presentato il piano per un nuovo tributo. Sembrava irrequieto, e mentre parlava da solo e si intuiva che stava meditando qualche altra uccisione o scelleratezza, si aprì una porta laterale dalla quale fece il suo ingresso la principessa Ruxandra.
Alla morte del padre, il buon Petru Rareș [1], il quale – come riferiscono i cronisti – con gran cordoglio e mestizia di tutti fu sepolto nel santo monastero di Probota, che egli aveva fatto erigere, Ruxandra, essendo ancora in tenera età, fu affidata ai due fratelli maggiori, Iliaș e Ștefan [2]. Iliaș, succeduto al padre sul trono, dopo un breve e dissoluto regno, partì per Costantinopoli, dove abbracciò la fede maomettana e al suo posto sul trono salì Ștefan. Questi agì peggio del fratello; incominciò coll’obbligare gli stranieri e i cattolici ad abiurare la propria religione, e parecchie famiglie ricche, ivi stabilite da tempo, fuggirono per causa sua dal paese, impoverendolo e facendone scemare i commerci. I boiardi che, in tanti, erano imparentati coi polacchi e i magiari, montarono in collera, e in combutta con i boiardi esuli, decretarono la sua morte. Forse avrebbero indugiato ancora a porre in atto il loro piano, se la sua dissolutezza non avesse contribuito ad accelerarlo. «Nessuna nobildonna, se avvenente, sfuggiva alla sua cupidigia», dice lo storico nella sua ingenuità. Un giorno, mentre si trovava a Țuțora, i boiardi che stavano con lui, non volendo più attendere l’arrivo di quelli esiliati, per non lasciarselo sfuggire, tagliarono le funi della tenda sotto la quale egli si trovava e, saltatigli addosso, lo uccisero.     
Della famiglia dei Rareș rimase quindi solo Ruxandra, e i boiardi assassini avevano stabilito di farla convolare a nozze con un certo Joldea [3], prescelto da costoro come principe. Ma Lăpușneanu, designato dai boiardi transfughi, affrontò Joldea sul campo di battaglia e lo sconfisse, e dopo averlo fatto prigioniero, gli tagliò il naso e lo costrinse a monacarsi; e per farsi ben volere dal popolo presso il quale ancora non s’era spento il ricordo di Rareș, prese in isposa la di lui figlia.
Fu così perciò che la delicata Ruxandra andò in sorte al vincitore. 
Quando entrò nella sala, era vestita in tutto lo sfarzo degno di una moglie, figlia e sorella di prìncipe.  
Sopra la tunica di panno tessuto con filo d’oro, indossava una mantellina di velluto azzurro foderato di zibellino, con le maniche cascanti dietro; era cinta ai fianchi da una cintura d’oro, chiusa con grandi fermagli di diaspro spruzzati di pietre preziose, mentre più giri di perle le adornavano il collo. Il copricapo di zibellino, posto un poco di lato, era impreziosito da un pennacchio bianco sostenuto da una grossa fibbia di smeraldi. I suoi capelli, secondo la foggia di allora, con la scriminatura in mezzo, scendevano sciolti sulle spalle e sulla schiena. Il suo volto possedeva quella bellezza per la quale un tempo erano rinomate le donne rumene e che ora è rara da trovare, degenerata com’è per la mescolanza con altri popoli stranieri. Lei tuttavia era triste e afflitta, come un fiore esposto all’arsura del sole, senza poter trovare riparo all’ombra. Lei aveva visto morire i propri genitori, poi un fratello rinnegare la propria religione e l’altro finire assassinato. E prima ancora, per volontà dell’assemblea del popolo, era stato deciso che lei diventasse la moglie di Joldea (che lei neppure conosceva), poi sempre dalla medesima assemblea, che disponeva del suo cuore senza che mai le chiedesse prima un parere, era stata costretta a concedere la mano al voivoda Alexandru, che venerandolo e sottomettendosi a costui come si confà nei confronti di un legittimo marito, avrebbe anche desiderato amarlo, se solo avesse trovato in lui un briciolo di umanità.    
Avvicinandosi, si inchinò e gli baciò la mano. Lăpușneanu la cinse per la vita, e sollevandola come fosse un fuscello, se la sistemò sulle ginocchia.   
«Quali nuove, mia diletta signora?» disse baciandola sulla fronte; «che cosa ti ha spinto, oggi che non è neppure giorno di festa, a lasciar da parte i fusi? Chi ti ha destato dal sonno così di buon’ora?»                        
«Le lacrime versate al mio uscio dalle vedove che invocano castigo a Iddio e alla Santa Vergine per il sangue che tu spargi.»
Lăpușneanu, oscurandosi in volto, sciolse le braccia; Ruxandra cadde ai suoi piedi.
«O, mio buon signore! Mio prode consorte!» seguitò lei, «Basta! Basta con tutto questo spargimento di sangue, con tutte queste vedove, con tutti questi orfani! Rifletti, Maestà, tu sei troppo forte e dei poveri boiardi non ti possono arrecare alcun danno. Che cosa ti manca ancora, Maestà? Non sei in guerra con nessuno; il paese è tranquillo e sottomesso. E solo Iddio sa quanto ti amo! E i tuoi figli son così belli e giovani. Rifletti: dopo la vita viene anche la morte e tu non sei eterno e dovrai renderne conto un giorno! Perché edificando monasteri il sangue non viene riscattato, anzi, così agendo provochi e sfidi Iddio, e ritieni che facendo erigere chiese tu lo possa ammansire, e…»
«Stolta donna!» gridò Lăpușneanu balzando in piedi e la sua mano, per l’abitudine, afferrò il pugnale che portava alla cintola; ma subito, contenendosi, si chinò e sollevando Ruxandra da terra, le disse:
«Mia signora!, non ti sfuggano più di bocca simili parole dissennate, perché, vedi, non so che cosa potrebbe accadere. Ringrazia il grande martire miroblita Dimitrie, santo patrono venerato nella chiesa da noi fondata a Pîngărați, che mi ha trattenuto dal commettere peccato, rammentandomi che sei la madre dei nostri figli.»           
«Non posso tacere pur sapendo che mi puoi ammazzare. Ieri, mentre stavo per entrare a corte, una nobildonna madre di cinque figli si è precipitata alla mia carrozza per fermarmi e mostrarmi una testa appesa al portone della corte, “Ne dovrete render conto, signora!”, mi disse, “poiché permettete che vostro marito ammazzi i nostri genitori, mariti e fratelli… Guardate, signora, quello è mio marito, il padre di questi figli, ora rimasti orfani! Guardate!” e mi indicava il capo insanguinato che mi guatava terrificante dall’alto! Ah, Padrone! Da allora non smetto di avere davanti agli occhi quel capo e ne ho continuo terrore! Non riesco più a trovar pace.»
«E che cosa vuoi?» domandò Lăpușneanu abbozzando un ghigno.
«Voglio che tu non sparga più sangue, che cessi di uccidere, non voglio più vedere teste mozzate, non voglio che il cuore mi sussulti più in petto.»
«Ti prometto che da domani l’altro non ne vedrai più», rispose il voivoda Alexandru; «e domani ti darò un rimedio contro la paura.»
«Come? Con ciò che cosa intendi dire?»
«Domani lo vedrai. Ora, cara signora, va’ e curati dei figli come si addice a una brava donna di casa e predisponi un banchetto, ché domani voglio offrire ai boiardi un sontuoso desinare.»
La principessa Ruxandra uscì dopo avergli baciato di nuovo la mano.
Il marito la accompagnò fin sull’uscio.
«Ehi! Hai predisposto ogni cosa?» domandò, dirigendosi in fretta verso il suo bargello che era appena entrato.
«Tutto è pronto.»
«Ma verranno?»
«Verranno.»



[1] Figlio naturale di Ștefan cel Mare, salì al trono della Moldavia in due occasioni: la prima negli anni 1527-1538, la seconda negli anni 1541-1546. Fra le chiese e monasteri da lui fondati, menzione particolare merita il monastero di Probota (Suceava), dove è sepolto (come ricorda Negruzzi), e risorto a nuovo splendore grazie ai lavori di restauro (1996-2001) dopo anni di abbandono; è incluso nel gruppo degli otto monasteri affrescati della Moldavia del nord (Arbore, Humor, Moldovița, Pătrăuți, Probota, Suceava, Sucevița e Voroneț), protetti dall’UNESCO in quanto patrimonio universale dell’umanità.
[2] Iliaș Rareș regna dal 1546 al 1551 succedendo al padre. Abdica a favore del fratello Ștefan, che regnerà solo fino all’anno dopo, il 1552. Iliaș ha fama doppiamente compromessa: per essersi convertito all’Islam e “ribattezzato” col nome di Mehmed-beg (nei quadri votivi in cui è raffigurato – a Probota, Baia e Humor – il suo volto è stato annerito e il suo nome raschiato, mentre in altre chiese addirittura devastato per sempre) e per aver posto al di sopra dei suoi doveri di regnante i piaceri della carne (con entrambi i sessi).    
[3] Il boiardo Ioan Joldea detiene il record del regno più effimero di Moldavia, due o tre giorni: in realtà non ebbe neppure il tempo di essere incoronato con tutti i crismi, sicché la sua fu più che altro un’intronizzazione a metà. Affrontato e sconfitto dalle truppe di Lăpușneanu nel settembre del 1552 a Șipote, dove Joldea, asserragliato con i suoi all’interno della residenza signorile del boiardo Luca Arbore, e dove un paio di giorni prima era stato proclamato nuovo principe della Moldavia, fu umiliato e, con il taglio (della cartilagine) del naso (la «rhinotmeza», pratica risalente già a epoca bizantina), punito a farsi monaco forzatamente, trattamento riservato ai pretendenti al trono non di rango nobile o agli usurpatori: in questo modo venivano graziati da una sicura condanna a morte.

         


(cura e traduzione di Mauro Barindi)

(ottobre 2017, anno VII)