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    Anteprima: «Immigranti» di Ioana Baetica Morpurgo 
       
     
     Ioana Baetica Morpurgo,  nata nel 1980, dopo la laurea alla Facoltà di Lettere di Bucarest, ha seguito i  corsi del Master di Antropologia Culturale della SNSPA (Scuola Nazionale per  gli Studi della Politica e dell’Amministrazione). Nel 2004 si è iscritta al  dottorato presso la Exeter University (Gran Bretagna) – università dove ha dato  anche un seminario sulle «Società  contemporanee» – il cui  oggetto di ricerca è la cultura della transizione nella Romania postcomunista.  Ha al suo attivo numerosi articoli su temi letterari e socio-culturali  pubblicati nelle maggiori riviste letterarie romene ed estere. Ha debuttato  come prosatrice nel 2004 con il romanzo Scheda  d’iscrizione (Fişa de înscriere,  Polirom), che è stato selezionato per il premio all’opera prima della rivista «Romania  Literara». È presente inoltre con suoi racconti e saggi nei volumi collettivi Il libro dei nonni (2007), The Review of Contemporary Fiction (2010), Erotographos 50+1 (2010). Attualmente risiede nel sud dell’Inghilterra, dove, oltre  a coordinare un progetto sull’edonismo delle idee intitolato «Lectures on Everything», si dedica alla scrittura e a impartire lezioni  di pianoforte.         
       
      In questo nuovo romanzo  di Ioana Baetica Morpurgo, la giovane scrittrice dà una prova maiuscola delle  potenzialità della prosa romena contemporanea in quanto a originalità e a  stile, facendone uno degli esempi più felici che siano usciti dalla penna di  una delle attuali leve di scrittori della Romania e un fulgido risultato della prosa  europea moderna.  
      Il romanzo è  costruito attorno alle storie di cinque personaggi, ognuno per ciascun  capitolo, tutti e cinque diversissimi per estrazione, ambiente, vocazione,  professione, stile di vita, frequentazioni, che si sfiorano appena lungo la  narrazione, inseriti dall’autrice nei capitoli degli altri in rapidi flash, ma  tutti e cinque accomunati da una stessa doppia condizione: essere romeni  emigrati in Inghilterra per varie ragioni (per studiare, per lavorare, per  motivi coniugali, per indigenza) e abitare a Londra.    
      Il romanzo si  apre con il capitolo Răzvan. È uno  studente gay (innamorato di Ravi, un semplice ragazzo hindi di umili  origini  – altro immigrante – che vive in  segreto la propria omosessualità per timore di essere scoperto dalla famiglia,  ma già vittima predestinata di un matrimonio combinato, secondo tradizione),  dottorando, giornalista di sinistra, paladino dei diritti umani, anti-americano  (indaga sulle black sites, le  prigioni della CIA per i detenuti di guerra aperte segretamente in alcuni paesi  d’Europa, tra cui la Romania); l’ambiente che frequenta è quello del mondo  degli intellettuali londinesi, in cui eccentrici letterati snob più o meno  anti-Sistema (si veda la figura dominante del poeta radicale Martin  Boswell-Harper, che deciderà di suicidarsi lasciando una lettera-testamento agli  amici più vicini, fra cui Răzvan) si mescolano a vari artisti, come Julian  (l’ex di Ravi), più frivolo e su posizioni politiche più conservatrici. È su  questo colorito sfondo umano e letterario e di passione politica che s’intesse  l’impossibile storia d’amore tra Răzvan e Ravi, ma in cui fanno capolino anche  le altre storie sentimentali rievocate e vissute in Romania ma arenatesi  inevitabilmente (come quella con Mircea, ora sposato e futuro papà).    
      Maria è sposata  con Dorian Holt, un facoltoso mercante d’arte, che viaggia per lavoro in tutto  il mondo; anche Maria è legata al mondo dell’arte, è una pittrice, ma di scarse  qualità ed essendone cosciente vive questa sua, per così dire, menomazione con  fastidio e con malcelata rassegnazione. Integrata nel più tipico entourage dell’agiata middle class londinese, che mal  sopporta, Maria scarica la sua solitudine scrivendo in un diario le sue impressioni  e osservazioni  quotidiane che rivelano,  in ultima essenza, il proprio vuoto esistenziale e affettivo. Durante un fine  settimana rivede a Londra il suo ex, Alex, che le rinfaccia di aver preferito  sposarsi per i soldi di Dorian invece di continuare a stare con lui. Una verità  che le scoppia in faccia ma che lei si ostina a nascondere a se stessa. In  questo sua compiaciuta esistenza, nella quale ha scelto la sicurezza materiale  rispetto a quella affettiva, il suo orizzonte non spazia oltre o, al massimo,  termina appena oltre il giardino dei vicini di casa, detestati per i continui e  debordanti lavori di sistemazione della casa, che minano la loro privacy, e  alle quali lei reagisce, assieme al marito, con geniali e gustosissime azioni  di boicottaggio, in una vera propria guerra dei nervi. Altrettanto gustoso è  l’excursus nella sua infanzia e adolescenza, dai primi giorni di scuola fino al  primo rapporto sessuale, in cui Maria regredisce in questa sua catarsi anche  nella forma, con errori ortografici e con un linguaggio pasticciato tipico di  una ragazzina. E, una volta ritornata alla realtà, alla sua vita insignificante  e di poco spessore, deve trovare il modo di dire (con timore?) a Dorian che è  incinta…        
      Traian lavora come broker nella City, un  lavoro che gli assicura una vita benestante ma che non lo compensa nel suo  intimo poiché ciò che doveva essere l’occasione professionale della sua vita,  si trasforma in un incubo della solitudine. È circondato da colleghi insipidi e  arroganti che non trovano di meglio che affibbiargli un nomignolo tanto  fastidioso quanto scontato, visto il suo paese d’origine: il Vampiro. Ma anche  lui ha un epiteto degno per i suoi colleghi: li definisce CV. Traian è reduce  da una vicenda personale che l’ha sconvolto psicologicamente – e che spiega il  suo sentimento di abbandono: solo un mese dopo il suo matrimonio con Simona,  lei gli chiede divorzio. Non è più disposta a seguirlo a Londra: le hanno  offerto un lavoro cui non può rinunciare, scoprendo d’un tratto che quel  matrimonio era stata una pazzia. Lui sospetta che non sia questa la causa della  rottura, ma che ci sia un altro uomo. Sbandato e con un matrimonio-lampo  fallito, solo e sperduto nella metropoli londinese, Traian cerca di fuggire da  se stesso in lunghi viaggi o per ritrovare se stesso, come la volta in cui,  all’improvviso, cambia il biglietto per la Polinesia Francese con uno per  Bucarest per rivedere i suoi amici. Una notte, poi, decide di fissare un  appuntamento con una escort in un bordello di lusso: enorme sarà la sua  sorpresa nel trovarsi di fronte la sua amichetta del cuore dei tempi  dell’infanzia. 
      Sabina fa la  badante a casa di un anziano, il signor Ferguson, malato di cancro in fase  terminale; il figlio, Oliver, è appena uscito dal carcere dopo aver scontato  quattro anni per tentato stupro ai danni di una minorenne e conosce Sabina per  la prima volta quando torna a casa: il padre non gliene aveva parlato nelle  lettere che gli spediva al carcere. Sabina è una donna semplice, provinciale,  molto religiosa, ex infermiera in un ambulatorio della profonda Moldavia  rurale. Ha lasciato in Romania un figlio, Andrei, affidato alle cure dei nonni.  Nei mesi in cui sta a casa dei Ferguson, Sabina s’integra nel menage familiare,  tanto che, dopo che il signor Ferguson soccombe alla malattia, lei decide  comunque di rimanere in Inghilterra e come se non bastasse lei e Oliver  s’innamorano e si sposano. Nel testamento il padre lascia tutto in eredità a  Sabina e non al figlio, una decisione che lascia attonita Sabina dato che il  signor Ferguson era simpatizzante di un partito nazionalista, noto per le sue  posizioni xenofobe. Sabina viene fatta emergere in questo capitolo in tutta la  sua ingenuità di donna provinciale, con i suoi lati da beghina, ma  profondamente umani, che si esprime in un linguaggio dallo schietto registro  dialettale di notevole coloratura espressiva – cui sembrano seguirla adeguandosi,  il signor Ferguson e il figlio, in un processo inverso per cui la lingua dei  «dominatori» si stempera in quella dei «dominati» e non viceversa come avviene  normalmente; 
      Gruia è uno zingaro dalla Transilvania,  della città di Brașov. Seguendo l’esempio del fratello partito per la Spagna  (aveva venduto un rene per procurarsi un passaporto falso), finito poi in  carcere per furto di automobili, tenta anche lui di arrivare nell’opulenta Europa  (ci arriva salendo clandestinamente nell’Orient Express che fa tappa a Brașov  nel 2006), con il violino lasciatogli dal nonno, con cui si guadagnerà da  vivere suonando prima per strada e poi in un ristorante tipico balcanico, «Balkan  Star»), e con una moneta d’oro, ricevuta dalla nonna, che nasconderà sotto  terra in un parco di Londra, e che sarà dissepolta per pagarsi una notte  d’amore con una prostituta, di cui si era innamorato, e che ucciderà  strangolandola durante l’agognato amplesso. Sullo sfondo di questa vicenda dal  sapore quasi di tragica fiaba, emerge invece la triste e avventurosa storia di  Gruia – raccontata parzialmente in forma di intervista –, colta dalla sua  infelice infanzia, cresciuto senza affetto in una famiglia rom marcata  dalla miseria e confinata ai margini della  società, al suo clandestino approdo a Londra, vivendo alla giornata per  sopravvivere e arrangiarsi in una società altrettanto ostile quanto quella  lasciata in Romania.       
      Nel breve Post-scriptum finale l’alterego della  scrittrice (che si definisce come The  Great Puzzler e si firma con un altisonante pseudonimo, Uther Pandragon)  passa in rassegna i cinque personaggi, illustrando che ne è stato di loro in  seguito, interagendo con loro come se fossero delle persone reali, commentando  le loro richieste, giudicando il loro comportamento, venendo a patti con loro  su cosa togliere o lasciare nel romanzo che li vede coinvolti, e decidendo  della loro sorte.      
             
      Il romanzo si fa  apprezzare per il suo linguaggio espresso in uno stile che cattura  immediatamente il lettore grazie al suo carattere diretto e brioso, e che varia  a seconda dei personaggi e delle situazioni (dal tipo standard, a quello più  colloquiale e informale), con alcuni momenti surrealistici e onirici; l’autrice  gioca, come accennato sopra, anche su sottilissimi richiami interni dei cinque  personaggi: in questo senso è una narrazione che stimola e sorprende il lettore  lungo la sua lettura. In un paio di occasioni, nel capitolo su Gruia, l’autrice  ricorre all’artificio dell’intervista tra il protagonista e l’alter ego della  narratrice. Altra peculiarità sono le note sparse qua e là, a piè di pagina –  fittizie o esplicative – e, specie nel primo capitolo, alcuni testi in inglese,  senza traduzione. I personaggi sono delineati con precisione e acume psicologico,  un aspetto questo che eccelle in special modo nei capitoli su Sabina e Gruia. È  un romanzo che si legge con trasporto e viva curiosità, senza mai stancare.  Sono quasi 400 pagine scritte con originalità e bravura. 
      I cinque brevi estratti che qui proponiamo, ciascuno  per ogni protagonista, tratti dal romanzo, danno subito al lettore la cifra dei  rispettivi profili psicologici e di vita, che potrà percepire con immediatezza  e immedesimarvisi grazie a una scrittura che glieli restituisce con spiccata  efficacia, una scrittura che l’autrice sa dispiegare con acume adattandola alla  realtà e alle circostanze in cui si muove ogni singolo personaggio. Sono cinque  quadri di un’umanità variegata e singolare che rispecchia, oltre al loro essere  emigrati in un paese straniero, l’Inghilterra, anche ciò che questa condizione  fa ripercuotere sul loro orizzonte esistenziale. Dall’incomunicabilità e dalla  difficoltà di interagire e di relazionarsi delle persone nella società moderna  – nella quale l’immigrato figura qui come metafora delle nostre esistenze a  compartimenti stagni –, al  sistema di  controllo dell’informazione da parte delle grandi potenze e allo scarto  socioculturale che diventa abissale da un paese all’altro, da un continente  all’altro del globo, questo romanzo ne traccia e ne sonda con intelligenza e  varietà espositiva la realtà trasfigurandola attraverso cinque  personaggi-simboli che «casualmente», potremmo dire, sono romeni ma che potrebbero  essere perfettamente di altra nazionalità perché sempre portatori di un  messaggio nel quale riconoscersi e su cui riflettere.
    
  
      răzvan 
    Not   weapons. Conscience. 
        That will suffice. 
      (Martin  Boswell-Harper) 
    (1) 
      seaford,  maggio 2009: is it true that salmon swim  
  back  up their stream? 
    Ti ricordi del  tizio in Non bussare alla mia porta?  che arriva in quel buco del mondo dove tutto il suo passato – i figli, la  madre, la donna amata – continua la propria fantomatica esistenza sganciata  dalla sua? Una spina staccata dalla presa. Questo sono. A Londra ho la  sensazione di sentirmi in qualche modo più a casa mia. Il buzz del centro mi anestetizza le emozioni. Invece, il mare, le  colline qui attorno nel Dorset me le intensificano, tanto da sentire  direttamente nel cuore la necessità di amare, come un’impellenza. Come quando  hai disperatamente bisogno di sesso e ti passano continuamente davanti agli  occhi tutti i tipi più strafichi e i muscoli sotto l’addome ti si contraggono  fino a farti venire un’erezione così feroce da far male. Più o meno è così che  mi sento adesso, con il cuore in… erezione. Sento come il torace mi si sta rattrappendo  e come presto comincerà a farmi male. 
      Sting passa da  un pezzo all’altro nel cd player con una voce pop gracidante, fastidiosa,  adolescenziale, che canta I love you come se volesse rimproverarti qualcosa, o spingerti davanti a un plotone  d’esecuzione. Al tavolo di fronte è seduto un signore anziano che si è già  versato dieci bustine di zucchero nel tè e ora sta contemplando gli autobus  multicolori che sfilano davanti al finestrone. Alla mia destra c’è una  carrozzina con dentro un bambino addormentato. La carrozzina è stracolma di  compere, un numero impressionante di buste di plastica Morrison, piene di non so cosa, agganciate all’impugnatura. Uno dei  ragazzi del bar, quasi simpatico, sta spazzando il linoleum giallo, con aria  assolutamente svogliata. Quanto al resto… giochi elettronici le cui lucine ti  fanno ricordare la morte. Proprio… – come si potrebbe dire? – un mondo postnuclerare  in cui non esiste nient’altro se non un deserto di rovine e alcuni marchingegni  come questi che emettono le loro lucine colorate nel buio più pesto. E la voce  di prima – I love you, love you, love  youuuu…    
      Devo ingannare  il tempo per altre due ore. Fino all’una, quando Ravi ha la pausa per il  pranzo. Una grassona con indosso una camicetta rosa attillata e delle zeppe  vertiginose, spinge la carrozzina fra i tavoli per uscire dal bar o dalla  tavola calda, o quel diavolo che è. Svanisce fra gli autobus e le automobili  parcheggiate nell’autostazione. Una di queste – una Mercedes rossa – è  parcheggiata proprio davanti al finestrone di là del quale sono seduto io. Una  tipa giovane dai tratti asiatici e un tipo con i capelli tagliati corti alla SS  discutono accesamente seduti all’interno. Stanno litigando. Ovviamente non ho  modo di sentirli. La tipa gesticola in modo troppo esagitato, probabilmente  tenta di farsi capire nel suo inglese stentato. Il tipo – di quelli ben  conservati, muscoloso, sui cinquant’anni – sta perdendo la pazienza e  controbatte sbraitando alle sue spiegazioni, con un’espressione della faccia i  cui muscoli sembrano in preda a un attacco convulsivo. È il genere di individui  che ha dato la stura ai movimenti femministi. A parte il viso, l’intero suo  corpo sembra essersi fissato in una posizione statica, d’impassibilità, di  totale rilassamento, con un braccio appoggiato sul volante. Ma ecco che il suo  cellulare si mette a squillare proprio nel bel mezzo della discussione. Lei  gira la testa dall’altra parte, cioè verso dove sono io, di là del finestrone  del Café Royale. Non mi vede. Non vede niente. Gli occhi le si riempiono di  lacrime. Le lacrime si riempiono di rimmel. Dopo alcuni minuti, il nazista  mette giù il cellulare e lei si soffia il naso. Non litigano più. Non parlano  più. Entrambi guardano da qualche parte nel vuoto, ognuno nel proprio vuoto,  lei abbattuta, lui incazzato. Rimango sorpreso nel ritrovarli nella stessa  identica posizione quando torno dal bagno. Alla fine il nazista gira la chiave  nell’accensione ed entrambi si dileguano nel traffico insieme con il loro  dramma. È ora che me la svigni da questo caffè (ambiente stile Edward Hopper),  mi sta mettendo tristezza. 
      È sabato,  attorno a mezzogiorno, e a Seaford è il giorno del mercatino. Ciabatte di  plastica, una bancarella di delicatesse francesi, antiquariato quasi autentico, vetrine con paccottiglia zen, celtica e  new age, vestiti vintage, dolci  locali, Friends of the Earth,  un’orchestrina militare, verdure con o senza fertilizzati chimici, tazzine  spaiate, ottonerie, fazzoletti, arnesi per il giardino, pseudo arte e tanta  gente. «Di quante cose al mondo posso fare a meno!», mi sembra dicesse papà  Socrate. Tuttavia, su uno dei tavoli sistemati fuori in strada davanti a un  negozio di libri usati («Wild and Homeless Books» – bel nome per un posto che  vende libri usati, no?) prendo per Ravi un’edizione speciale di Terra desolata. È meno dieci. Devo  avviarmi verso il Taj Mahal.  
    «Non ho voglia  di niente. Non ho poi tanta fame.» 
      Ravi invece si  abbuffa sopra un piatto stracolmo di curry, un po’ nervoso, un po’ insicuro di  sé, un po’ perplesso – una combinazione di umori che mi ha sempre attratto in  lui perché ogni suo movimento viene avvolto in qualcosa che ispira delicatezza.  Grazia.  
      «Che ci fai qua  a Seaford?» mi domanda senza alzare gli occhi dal curry.  
      «Sono venuto a  trovarti, ovvio. Cosa credi che ci sia venuto a fare qui…?» 
      Pausa di  tensione.  
      «E anche per  darti questo».  
      Gli porgo T.S.  Eliot sopra il pane naan rigonfio  come una vescica. Anzi no, come un’enorme placenta. Che proprio in quel momento  lui sta prendendo a morsi. 
      Ravi apre il  libro e lo sfoglia per un po’ mentre mastica la placenta.  
      «Ah…»   
      «Dicevi che, se  vuoi capire un mondo straniero, il modo migliore per cominciare a farlo è  quello di leggerne la poesia», gli dico nel tentativo di fargli ricordare una  conversazione che avevamo avuto in un bar di Londra un anno prima.                
      Ravi aveva dato  il ben servito a Julian quel mattino. Lo invitai a casa mia quella sera stessa,  ma lui preferì che ci rifugiassimo al Corinthian, a Soho, a parlare di poesia.  Me ne pentii amaramente. Ma mi ricordo quello che diceva. Diceva che la poesia  è una specie di sistema di trasporto sotterraneo, come la metropolitana, che ti  porta da un angolo all’altro senza che tu debba distogliere l’attenzione dai  piccoli dettagli della superficie. E che ogni poeta è come una linea di  metropolitana che ti conduce in una determinata direzione dentro una cultura,  intersecandosi inevitabilmente con altre linee in fermate essenziali… la morte,  l’amore, la natura… bla bla bla.  
      Ravi ha  appoggiato la forchetta sul bordo del piatto e mi ascolta. 
      I suoi occhi  incredibilmente profondi si sono fissati sulle mie mani, che stanno  stropicciando una salvietta.  
      «E che l’intera  rete di linee, cioè di poetiche, copre per quanto possibile tutto il territorio  di una cultura».  
      «Sì, mi ricordo  di quella conversazione, risponde. Ma, a parte questo, perché sei venuto?»    
      «Per implorarti  di non sposarti». 
    La spiaggia sembra  una cartolina illustrata. Passeggio in lungo e in largo in una cartolina  illustrata che dista, a piedi, massimo una mezz’ora dal mercatino affollato di  questa mattina. Da migliaia di anni le imponenti coste a strapiombo vengono  erose dal flusso e il riflusso del mare. Da sotto la loro pelle verde affiora  una polpa molle, vecchia, fatta di una melma violacea e ispessita. Un enorme  pene di cemento si protende infelice sull’acqua. Il promontorio, voglio dire.  In un chiosco di lamiera una vecchia signora anemica e azzimata vende tè e  gelati. 
      Ravi l’ho  conosciuto all’inizio dell’estate dell’anno scorso. Durante il mio primo anno  di dottorato, per la precisione. A una festa. Ci era venuto con un inglese  stile dandy, un tale Julian, studente di Belle Arti, sempre all’UCL, come me.  Ricordo che allora con questo Julian abbiamo conversato sull’argomento della  sua ricerca – il numero aureo dagli antichi greci ai postmoderni. Una cazzata  di argomento. Gli inglesi stanziano fondi per ogni tipo di ricerche imbecilli.  Ravi è rimasto immobile, reggendo in mano un bicchiere di vino rosso e senza  pronunciare una sola parola per tutto il tempo in cui il suo fidanzato si è  lanciato in complicate spiegazioni. Era come l’ombra muta e oscura dell’altro.  Ogni tanto, quasi in modo meccanico, il corpo vivo, cioè il lì presente Julian,  toccava leggermente la spalla alla sua ombra con una mano, come a consolarlo di  qualcosa che non aveva detto. O come per assicurarsi che fosse ancora lì. Che  non aveva smarrito la propria ombra, come Peter Pan. Avevo già perso la logica  della teoria del numero aureo e di quali equazioni si devono applicare per  scoprirla nelle istallazioni di Damian Hurst e facevo di tutto per adocchiare  Ravi senza essere notato. Indossava un’ampia camicia di lino con il colletto  alla coreana e dei jeans neri piuttosto stretti. Sul suo volto riluceva quel  tipo di sorriso che si condensa intorno agli occhi, lasciando decontratti i  muscoli facciali e le labbra. Alto, quasi tanto quanto me, ma sembrava molto  più fragile. Mi sarebbe piaciuto vederlo muoversi, fare qualche passo nella  stanza satura del fumo di sigarette, di voci, di cocktail e di dottorandi.  
      «Anche Ravi è un  prodotto umano dello stesso numero aureo», disse Peter Pan e gli scostò sulla  fronte una ciocca di capelli neri, con un sorriso «a doppio senso», credeva lui  – «da fesso», avrei detto io. 
      Che fu l’unica  cosa detta da Mr. Golden Number che mi parve innegabile nel corso dell’ultima  mezz’ora in cui m’intrattenne a conversare.  
      Ravi abbassò lo  sguardo sui motivi persiani del tappeto – sembrava un tappeto piuttosto costoso  – schiacciando con un piede senza pietà un acino d’uva. Non notò nessuno quella  cosa all’infuori di me. Julian stava mezzo girato di spalle. Il padrone di casa  gli stava presentando una fag hag che  non so cosa diamine stesse organizzando alla Tate Modern. 
      Ricordo di aver  trascorso tutta la serata cercando di raccogliere il maggior numero di dati su  Ravi. Venni a sapere che aveva venticinque anni – eravamo coetanei quindi – e  che era arrivato in UK alcuni anni prima assieme ai genitori, a quattro sorelle  e a uno zio. Peter Pan l’aveva agganciato in uno dei cinema gay di Soho.  Stavano insieme da alcuni mesi. Ma non per molto ancora.   
      (…) 
       °°° 
      maria 
    Everywhere an excess of  dreams, 
        of forebodings,of art  forms… 
        (Ben  Okri) 
    (3) 
      L’infrangitore  di sogni 
    20 agosto 2009 
    Oh, Gesù, che  vicini simpatici abbiamo qui in Exhibition Road. È già tanto se ti salutano,  quando capita, sventolandoti un hello con la mano girati di spalle, come l’estremità di una sciarpa di cachemire. In  cambio li senti ininterrottamente martellare, piallare, sbatacchiare,  rumoreggiare, battere chiodi, sfasciare pareti costruendone di nuove, rifare  l’intonaco dentro e fuori, cambiare le tegole del tetto, smontare finestre,  mettendone delle altre al loro posto, spostare la serra da una parte all’altra  del giardino, passare il tosaerba, spruzzare insetticidi. Ti verrebbe da  pensare che la loro unica forma di vita sia un continuo lavoro di  ristrutturazione. Si sono trasferiti qui da un anno e da allora, quasi ogni  fine settimana, decorano il loro nido. Di loro non sappiamo granché. Tranne che  lui è un direttore PR a Waitrose, e che fa soldi a palate, e che lei ancheggia  in non so quale casa di produzione cinematografica come make-up artist, probabilmente facendo sempre soldi a palate. E  quello che guadagnano lo spendono in decorazioni d’interni e in romantici fine  settimana in paesi caldi e assolati, dai quali fanno ritorno felici e  abbronzati. Insomma, questo è quello che suppongo io, perché per saperlo non lo  so con certezza, dato che da loro come unico riscontro ricevo solo mazzate alle  pareti quando meno te lo aspetti o l’estremità di una sciarpa. 
        [È la sindrome  di coloro che hanno perduto qualsiasi controllo su ciò che accade al loro  intorno e non gliene importa un fico secco, perché comunque sia l’arte, sia la  politica, sia i problemi sociali a loro non riguardano direttamente. Quindi  hanno scoperto che possono attivare il proprio istinto di controllo applicando  la quantità di potere di cui dispongono nel proprio universo domestico, nella  loro tana middle class che perforano  con il trapano, alla quale applicano decorazioni e che smontano fino a far  disperare i propri vicini.] 
        Il PR e la  sciampista avevano appena finito di ingrandire la cucina, che già quelli in  fondo al cortile si erano messi a costruire un gazebo a vetri. Almeno con  questi ogni tanto ci si scambiava una o due parole da sopra la staccionata,  anche se, visti gli ultimi avvenimenti, credo che batteranno in ritirata.  Avranno sui quarant’anni, entrambi al secondo matrimonio, con figli già  indipendenti e con una loro famiglia. Lei ha un centro di  relax/meditazione/tantrismi e altre coglionerie, lui lavora alla Toyota. Non  avevamo niente da ridire su questi, anzi, mi erano pure più simpatici dei  vicini che stanno dall’altro lato, fino a quando si sono messi in testa di  costruire quella porcheria di gazebo e, invece di tirarlo su rispettando certi  criteri, al livello del suolo, che t’inventano? L’hanno poggiato su dei piloni:  lungi da loro, certo, l’idea di dover scendere tre, quattro scalini dalla loro  cucina, quando possono far strusciare comodamente sulle piastrelle di ceramica  luccicante le loro pantofole da casa, senza incontrare ostacoli, transitando direttamente  dalla cucina al gazebo… 
        Dorian ha detto  loro: «Abbiamo anche noi diritto al nostro spazio privato. Se lei mi colloca  quel cubo di vetro al livello della staccionata del nostro giardino, la nostra  intimità va a farsi friggere». Pensate che al Toyota sia importato qualcosa?  No. Ha fatto come ha voluto lui. Ora quel gioiellino è stato portato a termine.  In questi giorni sono stata in agguato, perché la finestra del mio studio dà  sul giardino. E non appena li ho sorpresi mentre entravano nel loro cubo come  dei pesciolini in un acquario sospeso sopra la nostra intimità domestica e si sono  seduti beati sulle poltrone di raffia attorno al tavolino di raffia con le loro  tazze di tè, ho messo in atto il mio piano. Sono uscita in giardino, ci ho  collocato in mezzo una sedia, mi ci sono seduta sopra rivolta verso di loro.  Loro mi hanno guardato, perché non mi potevano non notare. Da quell’altezza,  attraverso le pareti di vetro, più della metà di ciò che è visibile è la  superficie del nostro prato. Poi ho tolto con comodo i tappi dal binocolo che  ero andata a prendere in casa e l’ho puntato su di loro finché se ne sono  accorti e hanno alzato i tacchi prendendo su le loro tazze di tè e facendo  ritorno in cucina. To’, ve la do io l’intimità! V’insegno io che cos’è.       
        (…)
        
     
    °°° 
      traian 
    And I’m like someone standing in the  Judean desert 
        looking at a sign “sea level”. 
        He cannot see the sea, bu he knows. 
      (Yehuda  Amichai) 
    (1) 
      opuscoli 
    (…) 
      La pioggia si  era già asciugata sui tetti e sui marciapiedi quando sette ore più tardi la  sveglia di Traian si mise a suonare. Fa una doccia. (Purtroppo, ha chiuso la  porta del bagno, sicché – pausa…) Ora apre l’armadio e tira fuori il completo  grigio e la camicia blu Armani. Poi però li rimette al loro posto sull’appendiabiti,  nell’armadio. Si è ricordato della mail spedita dalla tipa delle PR che  circolava ieri nelle inbox di tutti  gli impiegati della Luxembourg Exchange e probabilmente, in diverse variante,  di tutti gli uomini d’affari della City. 
    Dear All, 
        Guess what! Tomorrow – 1st  April – although it’s Wednesday and you are not going to play cricket or take your  partner for a shopping trip, you may, nevertheless, show up at work dressed  casually as if you did. There’s a green protest announced to take place in the  City ant it is advisable to look as un-business as you can bare. This is not an  April’s Fool sort of thing, it’s serious! 
        Don’t get used to your  trainers though, it’s only lasing for a day. 
    Un paio di  Adidas quindi. Una camicia a quadretti senza cravatta. E i jeans. E perché no,  anche l’apparecchio Canon, just in case. 
      Tutta la sponda  settentrionale del fiume parallelo alla City pullula di gente. Ragazze hippie  con gonne colorate a frange, dreadlocks e  piercing alle labbra, attivisti con cartelli: Change your ways, not  the climate! 
    Vote for the planet! 
    NO BUSINESS WITHOUT A PLANET! 
    Ecc. Giornalisti  con microfoni e telecamere, alcuni gazebo e tavolini con informazioni, tanto  rumore per nulla. Per nulla, perché comunque Traian percorre imperturbato il  suo solito tragitto passando tra i manifestanti, con il laptop a tracolla, con  indosso gli occhiali da sole, entrando come sempre nell’edificio a cinque  piani, prendendo il solito ascensore, augurando come sempre good morning ai colleghi d’ufficio  vestiti in uniforme da weekend e aprendo come sempre il file della borsa valori  internazionale. Un giorno come un altro. Dalle finestre laminate e antisole non  si sente né si vede nulla. Il rumore esterno di quei perdigiorno non penetra  dentro il Luxembourg Exchange. 
      «Ehi, Vampiro,  stai meglio vestito casual che in  completo», butta là qualcuno di passaggio mentre trasporta una pila di  cartelline piene di dati.  
      «Vampiro» è il  nomignolo che gli hanno affibbiato in ufficio fin dalla prima settimana di  lavoro. I colleghi sapevano tre cose della Romania, anzi, quattro: 1. che le  romene sono belle e facili, 2. che c’era stato qualcosa chiamato comunismo a un  certo momento, molti anni fa, 3. gli zingari e i bambini degli orfanotrofi e 4.  che lì c’era l’headquarter del Conte  Dracula. Traian ha accettato il nomignolo, da un lato, perché era stato  sorpreso in qualche modo dall’aggressività del cliché e, dall’altro, perché  voleva arruffianarsi i colleghi dalla prima settimana. Inoltre, con il tempo,  quel nomignolo risultò essere l’unica cattiveria che fu costretto a ingoiare in  quel contesto. Per il resto con lui si comportano con la stessa indifferenza che  usano tra di loro. Che batta sulla tastiera del computer per ore di seguito di  fianco agli altri per cinque giorni alla settimana o che si trovi in non so  quale viaggio d’affari all’estero o che trascorrano le serate in gruppo nei  club o al bar, lui è avvolto da una solida armatura che lo isola dagli altri.  Ognuno sa dell’altro tanto quanto il contenuto di un CV: che studi hai fatto,  dove hai lavorato, quali qualifiche e che età hai, se sei sposato o single.  Alle volte le colleghe sanno anche quanti minuti dura l’atto sessuale con  determinati ragazzi dell’ufficio. Ma nient’altro. 
      «Con me neppure  dieci minuti… cinque al massimo! E pensare che ce l’ha anche bello grosso,  peccato per l’arnese!» (E ridono.) 
      Durante la pausa  per il pranzo, scendono a mangiare in una caffetteria lì vicino, dove su un  enorme schermo trasmettono una partita di calcio qualunque. Traian è rimasto in  ufficio per terminare di leggere un rapporto di marketing di una compagnia  giapponese, mordicchiando uno Snikers. Quando si alza dalla sedia per  sgranchirsi la schiena, nota che all’esterno, sotto di lui, un gruppo di  giovani si è messo a ballare. Non riesce a sentire la musica, però i loro  movimenti gli sembrano particolarmente interessanti. Una sorta di danza  sperimentale, eseguita con una certa professionalità. Gli viene in mente di  azionare lo zoom in con la sua  macchina fotografica per vedere meglio e per alcuni minuti segue una tipa con  indosso dei calzoni alla zuava verdi e una maglietta arancione mentre si  contorce ai suoi piedi, e balla con le braccia in alto attorno a loro agitando i  suoi capelli lunghi. A Traian piacerebbe stare lì, vederla più da vicino,  sentire la musica al ritmo della quale la ragazza si sta muovendo così bene,  per starle tanto vicino da sentire il suo respiro affannato per via dello  sforzo fisico, per sentire anche il suo leggero odore di sudore. «Hey, you, back to work! Occupati di  quella compagnia giapponese!» 
      Questo mondo  globalizzato, multiculturale e dalla mente aperta è scisso nel suo stesso  nucleo di libertà. Non si può comandare al computer shut down, neppure hybernate e prendere l’ascensore per scendere in strada e ballare con quella tipa con i  pantaloni alla zuava verdi. E neppure lei può venire quassù, al quinto piano, per  ballare fra i rapporti di marketing. Nessuno dice che non si possa fare, non  c’è nessuna legge che impedisca a Traian di prendere l’ascensore in questo  momento per arrivare in strada e mettersi a ballare. È semplicemente un divieto  talmente tenace e ben radicato nella natura della realtà che non lo si può  ignorare. Una sorta di and so it goes,  così stanno le cose, con la sua dose di finalità presa da Mattatoio n. 5. Un dogma assolutamente necessario per il buon  andamento della realtà scissa. 
      «Un apartheid  trasparente» avrebbe detto Traian qualche anno fa. Ora però la sua mente è completamente  vuota.  
      La pausa pranzo  è finita e i CV ritornano, commentando qualcosa circa la partita di calcio. A  uno di loro viene la geniale idea di offrire agli ecologisti in strada la sua  variante della storia: 
      «Dài, facciamo  veder loro com’è la realtà», suggerisce questi. 
      E in quattro e  quattr’otto tutto il quinto piano lo segue. Aprono le finestre e cominciano a  sventolare ai manifestanti delle banconote da dieci e da venti sterline  disposte a ventaglio. 
      «Dài, Vampiro,  che fai? Tira fuori anche tu il fascio di soldi!» 
      Traian non si è  unito a loro. Non perché non avesse dei contanti con sé né perché non avesse  avuto tempo di pensare che cosa potesse significare sventolare dei soldi dal  quinto piano di un edificio d’affari verso una folla di gente che protesta  contro il consumismo. Si tratta semplicemente di una paralisi. Alle volte si  lascia invadere da una paralisi che lo lascia senza reazione. Talvolta  addirittura in momenti decisivi. E poi ne esce fuori, afferrandosi al primo  gesto attivo che la gente rivolge alla sua persona.  
      «Va’ e mostra a  quei fottuti che cosa conta realmente a questo mondo!» 
      Il tipo gli  porge alcune banconote. 
      «E vedi di  darmele indietro poi!» 
      Dalla sua fitta  nuvola di nebbia nella quale respira e attraverso cui osserva il mondo da un  po’ di tempo a questa parte, afferra i soldi. Li sventola anche lui alla  finestra, finché quelli giù cominciano a scandire in coro: 
      «Jump! Jump! Jump!» 
      (…) 
      «Bravi, ragazzi!»  gridò un CV, lo stesso che aveva prestato a Traian il ventaglio fatto di  biglietti da venti sterline. «Ben gli sta, che imparino questi comunisti  ridicoli! Vampiro, questi sembrano come quelli dalle tue parti, dall’Europa  dell’Est, anticapitalisti». 
      Traian sta quasi  per rispondergli che l’Europa dell’Est non è più comunista da un pezzo e che, a  ogni modo, la libertà di protestare come fanno quelli a voce spiegata e  nell’ombelico della capitale c’entrano come i cavoli a merenda con il  comunismo, però si trattiene. Risponde tuttavia a un’altra osservazione. E  cioè: 
      «Che vogliono  questi? Sono tutti della middle class,  non hanno problemi», ha continuato lo stesso. 
      «E se anche fossero  della middle class significa che non  hanno ragione? Non sei anche tu della middle  class?» 
      Con il salario  che percepisce nella City, anche le donne di servizio sono della middle class. Ha ragione. Inoltre, gli  inglesi sono ossessionati oltre ogni limite dall’appartenenza di classe e  questa è una delle prime cose che Traian ha capito due anni fa quando è arrivato.  
      «Tu non hai idea  di quello che vogliono quelli. Sai cosa vogliono? Che tu non salga più  comodamente in aereo per fotografare la tua bella aurora boreale quando ne hai  voglia, che tu non usi più la macchina bensì la metropolitana e i loro sudici  autobus, che tu ti mangi i funghetti raccolti nei campi con le tue stesse manine  e non l’arrosto al forno perché le mucche sono tutte delle fottute – ruttano e  scoreggiano e il diossido di carbonio assottiglia lo strato d’ozono. Vogliono  che tu non ti mangi le fragole dalla Spagna perché vengono portate ai  supermercati in aereo, che tu non usi più l’elettricità perché non proviene da  fonti eoliche e neppure il petrolio perché inquina e le riserve sono agli  sgoccioli – allora non ti resta che mangiare merda al buio delle cavità degli  alberi, ti piacerebbe? Fanculo a ‘sti progressisti…» 
      A Traian non  piacerebbe, certo. Non a caso ha trascorso l’infanzia sotto il comunismo.  Sicché non gli replica più. (…)  
       
       °°° 
      sabina 
      
    Il respiro è una decisione assolutamente  personale 
        Che ogni tanto regola il silenzio 
        con un clic. 
      (Răzvan  Ţupan)  
    (1) 
      per  chi ha votato, signor ferguson? 
    Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato  il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo, così  in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e liberaci dai nostri peccati  come noi li perdoniamo ai nostri debitori. E non c’indurre in tentazione ma  liberaci dal male. Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli dei  secoli. AMEN 
      «Per  confessarmi, non posso confessarmi, perché mica so come si fa in inglese. Non  posso. Non mi viene. Magari più avanti, quando sarò più pratica della lingua».  
      Sabina in cambio  accende delle candele: una per la Madre del Signore (che bacia pure), una per i  morti (per l’anima dei cari defunti che sono parecchi – Sabina ha tutta una sua  tecnica per tenerli a mente: Maria Geta mamma Veta / Gheorghe Mirea Pătru Silea  / papà caro, mammina e zio Ghiţă) e un’altra per i vivi (fra di loro rammenta  anche Sănducu, anche se non se lo merita). E poi via a casa, perché questo  pomeriggio arriva Oliver. Oliver però non è venuto direttamente a casa di suo  padre. Prima è passato dal barbiere per tagliarsi i capelli anche se erano già  corti. Sabina ha avuto tempo per fare una torta alle mele su suggerimento del  signor Ferguson. È giorno di elezioni. In tv non la finivano più questi con  tutte quelle ciance sulla politica. I Labour, con l’attuale primo ministro alla  guida, perderanno dopo essere stati tredici anni consecutivi al potere.  
      «Per chi voterà,  signor Ferguson?» 
      Non è che  capisca granché del programma politico conservatore, Lib-Dem o Labour o che  gliene importi in qualche modo. Neppure al suo paese le interessava cosa  votare. Erano tutti della stessa risma. Ma, così, era solo per il piacere di  chiacchierare e perché il signor Ferguson sembrava preso dalla faccenda delle  votazioni. Oggi si è svegliato di buon’ora e si è messo il completo buono, con  la cravatta, tutto a puntino, ha preso da bravo le medicine e, spinto sulla  sedia a rotelle da Sabina, è stato trasportato al seggio più vicino.  
      «Per quelli  dell’UKIP ho votato», le risponde. 
      «E chi sono?» 
      Qualcuno alla  porta ha suonato il campanello, il Figliol Prodigo.  
      La prima volta è  stato quando a Oliver è sfuggita di mano una fetta di torta facendola cadere a  terra. Allora sono cominciate le scuse. Accavallando e scavallando le gambe,  avrà chiesto scusa per tutto il pomeriggio almeno una ventina di volte e,  secondo Sabina, per motivi di cui meravigliarsi, cose alle quali lei  personalmente non ci avrebbe tanto badato, come, per esempio, che si era  dimenticato di togliersi le scarpe all’ingresso, anche se nessuno era mai stato  tenuto a togliersele all’entrata in quella casa, da quando cioè i Ferguson la  acquistarono negli anni ’70. O che non aveva avuto tempo di vestirsi in modo un  po’ presentabile; i capelli sì, se li era tagliati, ma i vestiti – lavati a  novanta gradi con detersivi aggressivi insieme ad altre decine di capi di altri  detenuti – erano sgualciti e scoloriti, a suo modo di vedere. Ma secondo  Sabina, quello era un particolare insignificante. Le sembrò che al figlio del  signor Ferguson fosse andato un po’ di volta il cervello durante quei quattro  anni trascorsi in carcere. Pareva che non riuscisse più a distinguere tra ciò  che conta e ciò che non conta, tra ciò che annoia e ciò che accende la  curiosità di una persona. A lei le lavatrici della prigione non interessavano  affatto. E tanto meno al padre di Oliver per lo stato in cui si trovava. 
      «Porta la sacca  di sopra… se vuoi. Zahbiina, lo aiuti tu? Ti ho fatto preparare il letto in  mansarda…»        
      Ovviamente  c’erano anche delle scuse che avevano un senso che le chiedesse. Per esempio,  per non aver mai risposto a nessuna delle quindici lettere spedite da suo padre  in tutto quel tempo. In questo caso, oltre alle scuse, doveva andare anche  delle spiegazioni: 
      «Non sapevo che  dirti, papà. Tutti erano contro di me e io continuavo a non capire in che cosa  avevo sbagliato. Neppure adesso a essere sincero non posso dire di aver fatto  qualcosa di male. E nelle lettere mi sembrava che tu stessi dalla loro parte… Mi  dispiace…» 
      Un’altra scusa.  (…)   
       
       °°° 
      gruia 
    I am a sightless  vagrand on the road 
        With not one  letter in civilization’s alphabet. 
        Meanwhile in my  own time I plant my trees 
        I sing of my  love. 
      (Mahmoud  Darwish) 
    (1) 
      nitrato  d’argento 
    Quando ti sei  avviato lungo l’argine del fiume, non avevi ancora in mente nessun posto  specifico. Dove si può scavare una piccola fossa nella più grande metropoli  europea, una fossa profonda quanto il palmo di una mano calda? Un posto  tranquillo, dove non ci costruiranno sopra degli uffici. Un parco, ovviamente,  relativamente lontano dal traffico e dal rumore, un rifugio sicuro della tua  storia. Non un materasso, né una banca, né una cassaforte. 
      Il caso ha  voluto che, per un mutamento di direzione spontaneo e istintivo, come guidato  da una cartina della città tracciata sulla mano di un bambino, tu sia finito in  una zona di musei e di gallerie d’arte, e non ti sembrava proprio il posto più  adatto. Ti sei avviato quindi giù per Exhibition Road, all’ombra dei mattoni  rossi degli edifici, fino alla stazione della metropolitana di South  Kensington. Qui no. Non va bene. Sei tornato indietro, hai percorso a zigzag  come il tracciato di un cardiogramma il West End, mentre con una mano tenevi  stretto in tasca l’involucro fatto con una salvietta e un sacchettino di  plastica in cui hai messo al sicuro il tuo segreto. Fino a Hyde Park. Hyde Park  potrebbe essere il luogo ideale. C’è molto verde e non c’è traccia di tassi o  di talpe che potrebbero, scavando e dissodando la terra, scoprire ciò che non  deve essere scoperto. Ma vediamo, non facciamoci prendere dalla fretta. Un-due,  un-due, come un soldato partito per una missione del tutto speciale. Senti che  la scarpa sinistra ti stringe un po’. Ti pieghi per scioglierne i lacci. Per l’inerzia,  il tempo passa e lascia alluvioni inopportune sotto le tue orme. L’ora di  pranzo, per esempio: è una di quelle alluvioni. Intempestiva, perché ti viene  fame e oggi non hai niente da mangiare. Non mangi da stamattina, ma è da questa  primavera che non mangi più di mattina, e questa è una cosa che non si prende  più in considerazione. Il pranzo però è tutt’altra questione. All’una e mezzo  non riesci a pensare ad altro. Vuoi un trancio di quella pizza che sta  addentando il ragazzino sui pattini. E un goccio di quel caffè che sta  sorseggiando la signorina. E quei Dixi che si sta sgranocchiando una bambina di  cinque anni. Soldi non ne hai, perché oggi non sei stato sul ponte di ferro a  strimpellare sul tuo violino. Oggi ti sei svegliato con un unico pensiero in  testa. Trovare un posto sicuro. È rischioso andare sempre in giro con quella  nella tasca del giubbotto. Se ti fermano i poliziotti e ti trovano senza  documentazione, e ti perquisiscono, e la trovano e dicono che l’hai rubata? Te  la confischerebbero. O se ti rincorrono i punk, e ti prendono, e ti fracassano  di botte e te la fregano? Così come ti hanno rincorso tre settimane fa in  Hackney. Per fortuna che non ti hanno acchiappato. 
      Ma torniamo a  noi. Hai visto, l’intestino brontola anche se hai dell’oro in tasca.  Paradossalmente. Più tardi, verso sera, quando apriranno i ristoranti  all’aperto, andrai a grattare un po’ le corde con il tuo archetto e allora  racimolerai qualche spicciolo per una minestra, o forse anche per un hot dog.  Per il momento fa’ finta di niente e resta seduto sulla panchina di Hyde Park.  Segui quello sulla panchina di fronte con indosso i pantaloni di nylon, le  scarpe da ginnastica rosse e il cappellino da baseball perché a quanto pare –  come definirlo? – non è un autoctono. Cioè sembra essere un tipo non abituato  alla pulizia degli spazi pubblici. È il genere d’individui che, a un certo  punto, potrebbe perfettamente, per puro istinto, gettare per strada una  bottiglia vuota di coca cola senza avere problemi di coscienza. Sono quei tipi  che potrebbero semplicemente lasciare un contenitore in poliestere con i resti  del take-away cinese proprio lì,  sulla panchina, dove hanno mangiato. Seguilo attentamente. 
      Signore, grande è il tuo potere e, sebbene le  tue vie siano in generale contorte, fa’ un semplice sforzo questa volta.  Nessuno ti chiede di trasformare l’acqua in vino o di riempire di pesci le reti  dei pescatori qui, nel centro di Londra. Fa’ sì almeno che quel tipo con i  pantaloni cascanti di nylon non si pappi tutto quello che c’è in quel  contenitore in poliestere, per prima cosa, e secondo, se la tua pietà è grande,  fa’ sì che butti il contenitore in quel cestino dei rifiuti distante tre metri,  a destra. Signore, rendi quella persona insensibile, irresponsabile rispetto alla  nettezza pubblica!  
      Il tempo passa,  lo stomaco brontola. (…) 
      Ma, vedi, Dio  esiste. Ti alzi lentamente dalla panchina e ti siedi tranquillamente, senza  essere notato da nessuno, sulla panchina da dove le scarpe rosse da ginnastica  si sono allontanate. Così, per caso. Tanto per dire che ti sei spostato su  questa panchina perché c’è più sole, per esempio. Ti avvicini al contenitore di  poliestere come se fosse una signorina straniera con la quale vuoi attaccare  bottone. Hello, beautiful! Ha i  capelli del colore della soia e i capelli di noodle le coprono gli occhi a mandorla,  da cinese. How are you  today? Fine? Good. What is that I want from you? Oh, but I want to eat you, of  course. May I?     
      Fatta! Per  fortuna che gli immigranti non hanno ancora scoperto a che servono I  cassonetti. Altrimenti molti stomaci a Londra continuerebbero a brontolare. 
      (…) 
A cura e traduzione  di Mauro Barindi 
      (n. 9,   settembre 2012,  anno II) 
 
     
        NOTE 
         
        [1] UK Independence Party, con un programma politico  nazionalista a favore dell’indipendenza della Gran Bretagna dall’Unione Europea  e con un rigoroso controllo sull’immigrazione (Le note sono dell’Autrice).  
        [2] Millennium Bridge.
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