«Amândoi», un sorprendente giallo di Liviu Rebreanu

«Duplice assassinio in via Speranza», questo potrebbe essere il sottotitolo dell’ultimo sorprendente romanzo – un giallo – di Liviu Rebreanu, pubblicato nel 1940 (Amândoi, Editura Socec, Bucarest), ambientato nella tranquilla e provinciale città di Pitești. È la storia di un efferato omicidio, quindi un romanzo poliziesco in piena regola, ricco di suspense, che regala un colpo di scena finale da togliere il respiro, ma che al contempo – come sottolineava la critica alla sua uscita – racchiude nella sua trama una garbata satira del genere stesso.

La vicenda, che si svolge nell’arco di una settimana, gira attorno al ritrovamento dei corpi senza vita degli anziani coniugi Mița e Ilarie Dăniloiu – benestanti ma avarissimi –, nella loro casa di via Speranza, uccisi da ignoti; vengono rinvenuti da Vasilica, moglie di Spiru, fratello del povero Ilarie, e dalla sua domestica Solomia.
Da giorni i due non si fanno vedere, un comportamento inconsueto per loro, ragione per cui la donna decide di andare a verificare di persona presso la loro abitazione, facendosi accompagnare da Solomia. La terribile scena dei due cadaveri riversi a terra che le si presenta alla vista appena varcata la soglia di casa le fa raggelare il sangue e avverte subito la polizia. In un baleno la notizia si diffonde in tutta la città, passando di bocca in bocca: in un piccolo centro cittadino come Pitești, dove tutti si conoscono più o meno, un fatto del genere diventa l’argomento principale di discussioni e di pettegolezzi.  Entra in esca a questo punto il protagonista, il giudice Aurel Dolga, il quale, elettrizzato, si cala nel suo ruolo poiché vede finalmente in questo caso misterioso e crudele l’occasione per mettere in pratica tutta la sua perizia da detective coltivata leggendo da gran appassionato i classici della letteratura poliziesca. Il merito di Rebreanu è quindi di aver confezionato un giallo un po’ sui generis, nel quale tuttavia, rispettandone i meccanismi e mescolando gli ingredienti tipici di un romanzo poliziesco, consegue a dar forma a una storia che non scimmiotta il genere scadendo nel superficiale, conducendola però con maestria, quasi ne fosse un consumato autore, al sorprendente epilogo, giocando ora sull’ironia (incentrata su Dolga, il giudice che conduce le indagini, pieno di sé, novello e ingenuo Sherlock Holmes), ora sul terreno della caratterizzazione sociale e psicologica dei protagonisti: da un lato «gli umili», come la domestica Solomia, il sacrestano Ciufu – entrambi di origini contadine –, e dall’altro il ceto della piccola borghesia cittadina come i membri delle famiglie Dăniloiu e Delulescu, colti nelle loro connaturate idiosincrasie e nelle loro miserie umane: sospetto nei confronti del prossimo, avidità, gelosia.          

Considerato in generale dalla critica come un romanzo minore all’interno dell’opera di Rebreanu, esso tuttavia si riscatta sul versante narrativo perché avvincente e continuatore in qualche modo degli stilemi che, come in altri suoi celebri capolavori – Ion, Pădurea spînzuraților, Răscoala [1] – costituiscono il marchio distintivo dell’arte romanzesca dello scrittore: acutezza psicologica, varietà caratteriale dei personaggi, linguaggio sostenuto e chiaro, minuzia descrittiva, affresco sociale analitico ed epico, tensione drammatica. È indubbiamente il suo romanzo d’evasione per eccellenza, ma fra le sue righe s’intuisce ancora chiaro e forte il magistero rebreaniano.
Tocca ora ai lettori andare a scoprire chi ha commesso il terribile omicidio…        

[1] Queste le rispettive traduzioni in italiano (dal database «Scrittori romeni in italiano» di Orizzonti Culturali Italo-Romeni): Ion, trad. di A. Silvestri Giorgi, Carabba 1930: nuova versione con il titolo La voce della terra, trad. di G. Serra, Edizioni Paoline 1965; La foresta degli impiccati, trad. di E. Loreti, La Nuova Italia 19301 ed Edizioni Paoline 19642; La rivolta, trad. di A. Colombo, Carabba 1964).



Frammento da «Amândoi»

Capitolo II
La padrona e la domestica


Prima che Solomia tornasse dal mercato e prima che mettessero sul fuoco le pietanze, si erano fatte quasi le nove. La signora Dăniloiu stava sulle spine. Aveva dormito peggio del solito rivoltandosi nel letto afflitta da pensieri sempre più neri nei confronti di Ilarie e Mița. I suoi presentimenti non la tradivano mai. Si era alzata all’alba e aveva rampognato più aspramente Solomia, la quale però non ci aveva badato più di tanto quasi vivesse in un altro mondo. Nel momento in cui si accingevano a uscire di casa, le fece un’altra osservazione che le sarebbe bastata per tutto il cammino:
– Solomia cara, che tu sia ragazza o donna o quel che sei, com’è che ti sei messa a portare la collana di monete d’oro anche durante il lavoro? Te l’ho vista ieri addosso e non ti ho sgridato, pensavo che ti sentivi… Sembri Bertoldo: per un anno non la porti affatto, poi di colpo non te la sfili più dal collo… Eri una ragazza posata e assennata e diligente che era un piacere. Ma da quando la sorte ti ha fatto conoscere quel Lixandru che ti ha fatto girare la testa, non c’è più modo di intendersi con te. Non vedi o non capisci che questo Lixandru ti ha traviato? Sarà per questo che il buon Dio l’ha fatto ammalare e ora è costretto a letto da tempo e si sta consumando…
– Signora, non se la prenda con il povero Lixandru che non ha nessuna colpa! replicò Solomia in tono sommesso evitando lo sguardo della signora Dăniloiu.
La neve fioccata sabato aveva avvolto l’intera città sotto una coltre bianca, rimasta ancora quasi intatta e candida. Solo lungo le vie principali e sui marciapiedi era stata sporcata dalle slitte e dai pedoni… La signora Dăniloiu procedeva a fatica e scivolava tanto che Solomia doveva sorreggerla. Per fortuna che fino a casa dei Dăniloiu, da via Rosetti, non c’era molta strada. Svoltarono in via dell’Astro, corta ma assai ripida e, nei pressi della fontana davanti alla casa del sindaco, attraversarono Piazza della Fonte dirigendosi verso via Speranza. Per strada non incontrarono anima viva, come se il gelo avesse tenuta tutta la gente incatenata in casa.
La casa di Ilarie Dăniloiu si riconosceva da lontano per via dell’alto steccato di assi, verniciato di nero con il catrame più a buon mercato. Dal marciapiede si vedevano solo le cime degli alberi del cortile messi lì quasi a bell’apposta per impedire che nessuno buttasse all’interno sguardi indiscreti. A valle, verso la casa della famiglia Secuianu, si ergeva un muro di mattoni, edificato un tempo dal defunto avvocato che era stato buon amico di Ilarie. Dall’altra parte, il muro divisorio dietro alla casa del macellaio Mitică Ionescu formava un vero e proprio scudo e si estendeva dalla strada fino in fondo al cortile.
Le due donne si fermarono davanti al cancello per riprendere fiato.
– Mi sono affaticata e mi è venuto un caldo che son tutta un sudore – disse la signora Dăniloiu in tono preoccupato. Mi manca solo di prendere freddo e buscarmi qualche malanno oltre a tutti gli altri che ho già…
Solomia non disse nulla. Dopo qualche istante, la signora abbassò la maniglia del cancello. La maniglia cedette, ma il cancello non si aprì: pareva fosse bloccata dall’interno. Prima ancora di rimanere sconcertata, se ne rese conto e spinse con più forza.
– Non è più entrato nessuno in cortile da quando è nevicato – osservò la signora Dăniloiu, aggiungendo in tono biasimevole: Su, ragazza, provaci un po’ anche tu che sei giovane, non lasciarmi a faticare io da sola! Si dev’essere congelata la neve e…
Il cancello girò sui cardini ricoperti dalla neve rappresa per il gelo, emettendo un cigolio. Nel cortile, sotto gli alberi dai rami imbiancati e fino in fondo fra le due ali della casa, si stendeva scintillante e intatto il manto di neve in cui i piedi sprofondavano fino alle ginocchia.
– Come si può mentire con tanta sfacciataggine? disse indignata la signora Dăniloiu, lasciando scivolare lo sguardo su quel biancore dolente. Chiudi il cancello, Solomia, e andiamo a vedere che cosa è accaduto davvero, che lo capisci anche tu quanto valgono le bugie di Ciufu!
La signora Dăniloiu avanzò. La crosta ghiacciata della neve scricchiolava schiacciata sotto i passi che la fendevano. Solomia si sforzava di infilare i piedi nelle orme lasciate dalla sua padrona per evitare che i rimasugli di neve le penetrassero negli stivaletti dato che anche così aveva i piedi pressoché congelati. La casa sembrava effettivamente deserta, disabitata. Vasilica guardò ovunque con molta circospezione, procedendo a passi sempre più lenti quasi per tenersi pronta per qualsiasi sorpresa. Ormai prossima alla porta della veranda, si voltò verso la domestica e le disse sussurrando:
– Avvicinati, dài, Solomia, ed entra tu in casa che sei giovane e…
Solomia era rimasta indietro di qualche passo. Le rispose da lì ma in tono così ostinato che la sua voce spazzò via bruscamente quel silenzio che premeva in maniera angosciante.
– Io non ci entro in questa casa, signora!... Mi può anche ammazzare, ma io non ci entro!... Ho paura e non mi va e non posso entrarci, signora!...
– Sta’ zitta, ragazza, zitta, non gridare che sennò ci sentono i vicini! disse la padrona sempre sussurrando e in tono blando, allarmata dalla sua improvvisa uscita. Ti vantavi di essere coraggiosa, ma se non lo sei, lascia fare a me che paurosa non lo sono!
La domestica, rimasta dov’era, continuò sempre più flebilmente, con un’ostinazione impaurita che andava scemando:
– Non ce la faccio, signora, non ce la faccio… non ce la faccio…
La signora Dăniloiu, quasi incoraggiata dal timore della domestica, aprì subito la porta della veranda e poi si mise a bussare alla porta del vestibolo. Impietrita, sempre dal punto in cui era rimasta, Solomia la vide avanzare all’interno. Avrebbe voluto avvicinarsi anche lei, ma si sentiva le gambe rigide. Seguì però la propria padrona con il pensiero e con l’udito. Sentì i suoi passi nel vestibolo, poi procedere sempre più fiochi nella stanza da letto. Passati alcuni istanti, il rumore cessò del tutto, segno che la signora Dăniloiu si era fermata davanti a una scena terrificante. Un momento dopo l’udito di Solomia teso fino al parossismo captò in maniera assai distinta un mormorio: «Gesù, zio Ilarie!... Sei lì?... Sei tu?...» Poi i passi, meno sicuri, si sentirono più in lontananza, nel salotto, in cucina, e di nuovo si fecero frementi. Dopo qualche secondo la voce della signora Dăniloiu si udì più chiaramente, anche se sopraffatta dal raccapriccio: «Oh, povera me, oh povera me!... Tutti e due!... »
Il terrore dentro la casa pareva si fosse riversato all’esterno attraverso le porte rimaste aperte, investendo Solomia e scuotendola nell’animo. Con gli occhi spalancati fissi sulla veranda, le sembrava che fosse passato un secolo da quando era entrata la sua padrona e che non ne uscisse più. Voleva chiamarla e non aveva più voce, come se la paura le avesse stretto un nodo alla gola. Ma le lacrime incominciarono a sgorgare subito così copiose da inondarle le guance. Scorse quindi di nuovo la signora sulla soglia della veranda, pallida come la calce e con l’orrore raggrumato sul volto come una maschera. Volle correrle incontro, contenta che non le fosse accaduto nulla. Ma frenò istintivamente il proprio slancio. D’altro canto la signora Dăniloiu, chiusa la porta del vestibolo, poi quella della veranda, stava tornando da Solomia, un poco vacillando sulle gambe.
– Qui è accaduta una terribile rapina… Li hanno ammazzati e derubati… Dobbiamo dare la notizia, Solomia!
Tirò alcune volte un profondo respiro come a voler espellere dal naso e dai polmoni l’aria stantia. Poi continuò con cipiglio, con un’energia che la invadeva sempre nei momenti decisivi:
– Tu devi andare al negozio a chiamare il padrone! Mi sta ascoltando, Solomia? Nel frattempo io andrò dalla polizia e al tribunale per dare la notizia di quello che è successo…
Vide il suo viso bagnato di lacrime e domandò perplessa:
– Ma perché piangi?... Che ti è preso?...
– Non lo so, signora – mormorò la domestica. Ho avuto tanta paura mentre stava dentro che accadesse anche a lei qualcosa di brutto…
– Oh, come sei sciocca, ragazza – rispose Vasilica commossa dalla sua ingenua apprensione. Ma che ti credevi, che i banditi si siano rintanati in casa, insieme alle vittime?... Hanno fatto il colpo e se ne sono andati chi là, chi qua… Solo la polizia potrà scovarli e consegnarli nelle mani della giustizia…
Quando giunsero al cancello, la signora Dăniloiu ci ripensò: non era pensabile che se ne andassero entrambe lasciando di nuovo vuoti sia il cortile sia la casa con i morti dentro… Ma alla fine uscirono. Lei però rimase sul marciapiede e mandò Solomia a chiamare il sergente che era di servizio alcune case più in là, all’incrocio con via Kogălniceanu.
– Non ti muovere da qui, ragazzo! gli intimò la signora Dăniloiu. Non lasciare che entri nessuno in cortile né tanto meno in casa finché non verrà il procuratore con la polizia, sai bene anche tu che cosa impone la legge… Fa’ attenzione che in casa ci sono due persone ammazzate…
– Oh, Gesù, signora! esclamò terrorizzato il sergente. Tutti e due?
– Tutti e due, ripeté Vasilica, annuendo. Sta’ con gli occhi ben aperti!
Le due donne si allontanarono insieme, poi, percorsi alcuni metri, la signora Dăniloiu attraversò di nuovo la piazza, da dove era venuta, mentre Solomia saliva di corsa via Grivița, passando accanto alla chiesa di S. Nicola, diretta verso la via principale che conduceva alla piazza. Il sergente le seguì per un po’. Conosceva Vasilica così come conosceva Ilarie Dăniloiu e Mița. La curiosità lo invogliava a entrare in cortile per dare una sbirciatina. Socchiuse appena il cancello, ma lo richiuse prontamente, avvertendo un lieve brivido corrergli lungo la schiena. Si sentiva turbato e impaurito. Era uno zingaro di Vieroși. Si mise a camminare su e giù davanti al cancello, sbattendo i piedi per riscaldarseli e per scacciare la tensione, come una sentinella zelante.
Dopo alcuni minuti Haralambie Săvescu, il veterinario del distretto, un uomo alto e robusto, mentre passava per il centro, domandò stupito al sergente a che cosa stesse montando la guardia. Il sergente rispose fiero:
– Il signor Ilarie e sua moglie sono stati uccisi da dei criminali!... È a loro che sto facendo la guardia finché arriverà la polizia…
Il veterinario esitò un po’: crederci, non crederci? Continuò per la sua strada mormorando:
– Ci voleva solo questa: un crimine di tal fatta a Pitești… Non ci facciamo mancare niente!... Che vergogna!...

     

Capitolo IV
La casa del crimine


Su suggerimento del giudice istruttore, il procuratore fece allontanare dalla casa sia Spiru Dăniloiu sia i coniugi Delulescu, dichiarando scherzosamente, per non offenderli:
– Prima che si scovino gli assassini, tutti quanti siamo sospettati, a iniziare proprio da noi stessi, che siamo gli inquirenti!
– Giustissimo! assentì il giudice Dolga con uno sguardo grave, sentendosi quasi l’eroe principale della rappresentazione che stava per incominciare.
Quando rimasero da soli, il primo procuratore pregò il giudice istruttore di dare inizio alle ricerche nei modi e nel senso che riteneva più giusti, poiché sarebbe stato lui a continuare l’indagine del caso fino alla scoperta dei criminali.
Aurel Dolga, transilvano, da poco era stato trasferito da Făgăraș a Pitești. Aveva suppergiù trentadue anni e un aspetto severo, che ben gli si confaceva per la professione di giudice istruttore che tanto gli piaceva e lo appassionava. Fin dal liceo era stato segretamente un fervente lettore di romanzi polizieschi e ammiratore di celebri detective generati dalla fantasia di non meno celebri romanzieri. Tuttavia a differenza dei detective che uniscono sempre la perspicacia e l’energia all’umorismo speciale dei grandi ingenui e che tutti posseggono inevitabilmente determinati tic o abitudini caratteristiche più una pipa che si spegne e si riaccende nei momenti più palpitanti, egli voleva conservare in primo luogo una dignità composta, adatta a un magistrato istruttore, che sarebbe diventata la sua dote distintiva quando avrebbe raggiunto la celebrità. Fino a quel momento non aveva avuto alcuna occasione per farsi notare da qualche parte. I casi che gli erano stati affidati a Făgăraș, come qui, erano semplici e ordinari, tanto che invano si sforzava di renderli più complicati ricorrendo alle sue reminiscenze dai libri…
– Se mi permette, signor procuratore – disse questi con l’importanza dovuta –, io proporrei due fasi per quanto riguarda le constatazioni che metteremo a verbale: innanzitutto precisare il luogo in cui è stato perpetrato il duplice crimine, descritto in ogni dettaglio, e in secondo luogo descrivere in maniera esatta lo stato in cui si trovano le vittime, dato che esso potrebbe contribuire a stabilire il momento in cui è stato commesso l’omicidio ed eventualmente portarci a stanare gli assassini… 
Il commissario si sedette con i fogli di carta al tavolo del salotto e aspettando che Dolga cominciasse a dettargli, redasse l’introduzione di prassi.
Mentre gli altri incominciarono a perquisire i due cadaveri, il giudice ispezionò dapprima con cura il vestibolo. La porta che dava sulla veranda pareva non essere stata oliata da tempo; quando tentò di chiuderla, le cerniere emisero un lieve cigolio simile a un sospiro. Ma la serratura aveva probabilmente la molla rotta o molto allentata, poiché il chiavistello non rimaneva incastrato nella fessura, sicché la porta restava solo accostata. Un’altra porta conduceva dal vestibolo a destra a una sorta di salottino simile a una stanzetta nella quale erano riposti tutti gli oggetti usati se non occasionalmente. La porta era chiusa e alla chiave era stato dato un giro. Dolga si limitò a sporgere la testa; era evidente che in salotto si entrava molto di rado e che, specie durante il crimine, nessuno ne aveva varcato la soglia. L’altra porta, a sinistra, spalancata, conduceva in primo luogo alla stanza da letto, e da qui in salotto e più in là in cucina… Sull’attaccapanni a muro, a sinistra, fra la porta della veranda e quella che conduceva alla camera da letto, erano appesi allo stesso piolo una carpa di circa due chilogrammi, completamente congelata, e un bastone dall’impugnatura a becco. Sul tavolino in fondo al vestibolo piuttosto buio era stato gettato un grande colbacco di pelliccia nera di agnello, mentre su una delle due sedie un cappotto alquanto frusto, con la fodera rosicchiata qua e là, era rimasto appeso solo per una manica, mentre il resto era scivolato affagottandosi dietro le gambe del tavolo come se qualcuno se lo fosse tolto e gettato lì in gran fretta…
– Signor commissario, scriva! gridò il giudice Dolga che incominciò a dettare lentamente e in tono imperioso.
Nella stanza da letto, due letti divisi ai capezzali poggiati contro la parete da un comodino. Fra le due finestre che davano sul cortile, munite di solide inferriate, un vecchio cassettone colmo di biancheria femminile, nuova, non ancora indossata, era sovrastato da una specchiera contornata da una possente cornice, dorata. C’erano altri due armadi agli angoli delle finestre, armadi semplici di due anziani, l’uno zeppo di biancheria da letto, l’altro di indumenti. A quello della biancheria da letto stava frugando Aretia nel momento in cui comparvero i rappresentanti della giustizia. La porta del vestibolo immetteva alla camera da letto a sinistra tanto che, aprendola, quasi sbatte contro l’armadio dei vestiti.
Fra i due armadi, prono, con il capo leggermente infilato sotto il letto dal lato della porta, con le gambe che sbucavano fuori tra i due letti fino alle ginocchia e con ai piedi dei vecchi stivali coperti da delle galosce rotte, giaceva il cadavere di Ilarie Dăniloiu. Sull’altro letto, verso il vestibolo, il copriletto di velluto grigio era sgualcito e con grosse macchie di fango secco, mentre la coperta sul letto verso la porta era stesa e tirata leggermente da un lato, dato che le dita della mano sinistra del morto si erano aggrovigliate alle frange… Il portellino della stufa di terracotta arancione, alta fin quasi al soffitto, con dei soprammobili sistemati sulla lastra di marmo, era spalancato come se qualcuno avesse voluto accendere il fuoco o solo gettarvi dentro qualcosa…
– Continuiamo, signore, con il verbale! ripigliò Dolga dalla soglia rivolgendosi al commissario di polizia prima di passare nel salotto, senza essere distolto dalle domande o dalle osservazioni degli altri, raccomandando loro ogni tanto di fare attenzione a non toccare nulla.
Il salotto era ampio, con un tavolo ovale e sei sedie rivestite di pelle, con due alte credenze di fattura vecchia piene di ogni sorta di stoviglie e bicchieri. Il giudice guardava con attenzione attorno alle credenze, tastò il tavolo e d’un tratto disse rivolto al commissario che continuava a scrivere:
– Un momento, signore…
Il commissario si fece da parte e Dolga sollevò il copritavolo. Sotto di esso scoprì svariati oggetti d’oro infilati nelle scanalature e nelle fessure del tavolo in tal modo che non fossero visibili. Ruotò leggermente il coperchio e, dentro una specie di cassetto segreto, rinvenne un mucchietto di monete d’oro e svariate d’argento risalenti a prima della guerra. Per un attimo il commissario rimase impietrito per lo sbigottimento, poi disse:
– Ma qui c’è un tesoro, signor giudice!
Dolga pregò il procuratore di fare l’inventario delle monete, dopo di che ritornò nella stanza da letto per ispezionare negli armadi, sebbene avesse voluto farlo per ultimo. Ma dopo la scoperta nel salotto rifletté che fosse più pratico terminare le ricerche anche lì. In effetti, nell’armadio pieno di indumenti trovò una federa sporca, sospetta. Palpeggiandola e poi aprendola, constatò che era piena di banconote romene, infilate dentro apposta perché non dessero nell’occhio, comunque ben nascoste.
– Ehi, caro Dolga, vedo che fa incetta di soldi, mica bazzecole! disse il procuratore stupito. Si farà l’ora di pranzo a contarli tutti!
La porta della cucina era aperta come le altre. L’ampia cucina serviva anche da lavanderia e persino da bagno nei rari casi in cui i due anziani si decidevano a chiedere alla signora Secuianu la tinozza per lavarsi più a fondo. A destra della porta c’era la stufa per cucinare, grande quanto un forno, con alcune pentole poste sopra i cerchi, nelle quali l’acqua si era trasformata in ghiaccio. Davanti alla porta, nella parete davanti, una finestra dava sulla parte posteriore del cortile, dove si potevano vedere ricoperti dalla neve della legna tagliata e una catasta di rami comprati da poco. A sinistra della finestra su un tavolo lungo di abete, c’era un filone di pane ancora intatto e una brocca di creta, dipinta a fiori, rovesciata, vuota, e sotto il tavolo alcune pile di vecchi giornali. Accanto alla parete verso il salotto, in un armadietto rudimentale si trovavano accatastati pentole, tegami, padelle, e coperchi di tutte le dimensioni. Fra questo armadietto e la porta del salotto, su una solida cassapanca, c’era un mastello per il bucato che sembrava essere stato svuotato a metà; alcuni asciugamani erano finiti a terra, più sporchi che puliti, mentre quelli rimasti nella tinozza si erano ghiacciati insieme al resto dell’acqua torbida. La porta della parete verso il cortile era chiusa a chiave dall’interno.
Il cadavere della signora Dăniloiu giaceva su un fianco, a sinistra, fra il tavolo della cucina e la cassapanca con il mastello del bucato. Un asciugamano umido le avvolgeva bocca e naso tutt’intorno il viso, ma gli occhi vitrei quasi usciti dalle orbite guardavano verso il salotto con tale orrore che parevano quasi vivi.
– Se permette, signor procuratore, dapprima terminiamo la perquisizione minuziosa del posto! disse Dolga con fierezza, tornato in salotto. Poi prenderemo nota degli oggetti di valore e alla fine, con l’aiuto del medico, la posizione e lo stato fisico dei cadaveri!
Si sentiva sempre più padrone. Il caso pareva essere di particolare gravità e in ogni caso nascondeva incognite e misteri; finalmente qualcosa che suscitava la bramosia delle sue ambizioni di detective in formazione.
Dopo aver dettato con enfasi al commissario quanto constatato in cucina, insieme al medico e all’agente di polizia passò nella camera da letto per esaminare più da vicino il cadavere di Dăniloiu.
– Un momento! gridò Dolga rivolto al medico che stava per rimuovere il cadavere fra i due letti.
Con cautela spinse leggermente in là il letto che dava verso il vestibolo abbastanza da far emergere la nuca della vittima. I capelli bianchi, molto radi, sembravano incollati al cranio come della vecchia pergamena. Il collo, sopra il colletto della camicia grigia, presentava segni da strangolamento praticati con un filo sottile di ottone, annodato dietro e avvolto più volte fino a penetrare in profondità nella pelle rugosa. Le due estremità del filo terminavano in occhielli come se servissero per essere appesi a un gancio.
– Che strano! mormorò il giudice.
Chinandosi sul morto, notò un capello castano scuro su una spalla e un altro quasi biondo sul colletto della camicia sgualcita, che pareva essere stata premuta con un ginocchio o un piede.
Il dottor Popescu, seguendo l’esempio di Dolga, ritenne più pratico lasciare il cadavere dove si trovava e di scostare i letti per avere spazio sufficiente per eseguire un esame corretto. Il procuratore, curioso, venne anch’egli a vedere il morto, non scordando di portarsi dietro il commissario scrivano caso mai fosse tentato di violare la federa piena di banconote.
– Qui devono aver agito degli assassini molto esperti! disse Negel particolarmente impressionato, vedendo come il medico s’industriava a sciogliere il filo assassino dal collo.
– O dei principianti inesperti! osservò Dolga pensieroso.
Il filo era lungo più di un metro…
Dopo aver districato le frange della coperta dalle dita del morto, il dottore girò l’anziano a faccia in su. Pareva vivo, con gli occhi aperti che guardavano quasi sereni, senza traccia di terrore, appena un po’ attoniti. Solo il naso era leggermente storto e sporco della polvere che copriva l’assito come anche la fronte e la barbetta ingrigita, rasata, incolta, simile a un pennello da barba dalle setole morbide.
– Non voglio pronunciarmi in modo ufficiale prima dell’autopsia – disse il medico Popescu con un tono di voce in qualche modo velato di perplessità –, ma potrei scommettere che il povero anziano è morto subito, senza soffrire, non tanto per effetto della stretta del filo, anche se a provocarne la morte sarà stato proprio questo in definitiva, quanto piuttosto per lo spavento, uno choc che gli ha compresso il funzionamento del cuore…
Ilarie Dăniloiu aveva l’aspetto di un ometto mingherlino, smilzo, l’ombra di colui che con il suo lavoro e la sua energia aveva sbalordito Pitești.
Quando il medico terminò di esaminarlo, Dolga domandò:
– Dottore, potrebbe darmi una qualche indicazione riguardo al momento del decesso?... È stato uno, due, tre giorni fa?...
– Con una certa approssimazione direi di sì – rispose il dottore con poca convinzione. Due, al massimo tre giorni, o piuttosto tre!... Vale a dire sabato… Ma vediamo anche l’altro cadavere…
La signora Dăniloiu, oltre alla pezza che gli bloccava la bocca, aveva anche le mani legate dietro le spalle sempre con una pezza umida, ora ghiacciata, mentre al collo un filo di ottone quasi uguale a quello che era servito per ammazzare suo marito. Anche questo era annodato e attorcigliato dietro la schiena, ma senza che fosse penetrato nella pelle.
– Forse la signora Mița non è neppure morta strangolata – osservò di nuovo il medico dopo aver sciolto il filo e tolto la pezza dalla bocca e dal naso e la vestaglia da notte che era servita per immobilizzarle le mani. Credo che sia deceduta addirittura molto più tardi, forse dopo alcune ore, asfissiata dal bavaglio sulla bocca e sul naso. È possibile che le sia toccato di vedere come veniva ucciso il marito, senza che gli assassini si rendessero conto che era ancora in vita…
– Questo sarà appurato più tardi, nel corso dell’inchiesta, disse Dolga interrompendolo con una punta di disprezzo.
– Probabilmente, se gli assassini avranno avuto la curiosità di preoccuparsi di fare simili osservazioni! rispose il medico ugualmente in tono beffardo.
Il giudice non insistette oltre. Era sicuro di sé. I suoi occhi avevano registrato molte più cose di quelle consegnate nel verbale, tutti particolari di cui più tardi avrebbe potuto aver bisogno.
Dopo essersi consultati brevemente, dato che non sussisteva alcun dubbio circa la causa della morte e per non aumentare l’orrore del doppio crimine tagliuzzando inutilmente i cadaveri di persone così rispettate, decisero di rinunciare all’autopsia e di autorizzare la famiglia a dare loro sepoltura.
Mentre il medico redigeva la dichiarazione e il procuratore faceva l’inventario del contenuto della federa, il giudice Dolga uscì in cortile, accompagnato dal poliziotto Ploscaru, per completare le sue osservazioni. L’altra ala della casa era vuota e chiusa a chiave. In fondo al cortile c’era una rimessa alquanto diroccata con alcune botti, un barilotto riempito di verza in salamoia, varie zappe, arnesi arrugginiti e usati… Dietro alla rimessa il muretto che dava dalla parte dei Secuianu continuava fino all’altro vicino, il macellaio Ionescu.
– Senta, signor giudice, ci ha capito qualcosa? domandò il poliziotto accendendosi una sigaretta e inspirando profondamente. Se i banditi avessero lasciato la loro carta da visita, sarebbe stato più semplice…
– E forse l’hanno lasciata! disse Dolga in tono severo. Ma non tutti riescono a leggerla!
– Se sa leggerla lei, siamo a cavallo! Saremo felici di applaudirla! fece il poliziotto scettico e con un pizzico di ironia.


A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 6, giugno 2014, anno IV)