Un tributo al mondo femminile nel romanzo «FEM» di Magda Cârneci

Libro-confessione, biografia spiritual-sentimentale, libro di ricordi, diario intimo, libro epistolare, poema in prosa: tutte queste definizioni – forse parziali, insufficienti, limitative – del romanzo FEM (Cartea Românească, 2011) di Magda Cârneci non rendono appieno l’idea di fondo di questa sua prima incursione nella prosa che scandaglia l’intimo universo della scrittrice, un universo che vola da episodi legati all’infanzia, rievocata in immagini che sembrano trasfigurarsi in veri e propri riti di passaggio, a quelli da donna adulta, con la scoperta della sessualità, descritta senza puntare sullo scabroso o con frasi a effetto, alla sua (fallita) storia d’amore (il libro è infatti anche un dialogo tra la voce narrante e l’ex amato), ai fantasmi femminili debordanti che popolano, si potrebbe dire, fellinianamente il suo vissuto. La scrittrice ricostruisce situazioni sospese tra il sogno e il fantastico, tra il metafisico e l’imponderabile, puntando su una scrittura evocativa, giocata su un’espressività stilistica che, pur nella sua semplicità, non perde nulla della sua densità, e che, pur nella sua, a volte, ripetibilità – un artificio questo, un effetto eco, nel quale comunque sembra voler nascondersi una sua valenza intrinseca – trasmette al lettore emozioni e sensazioni forti e calde, poetiche e personalissime. Questo libro va anche inteso come una testimonianza in prima persona che si trasforma in un tributo al mondo della corporeità e della specificità femminile, e in questo senso esso vuole essere un viaggio introspettivo e al contempo illuminante dentro le viscere della femminilità vissuta e incarnata dall’autrice, la quale in tal modo si sofferma, indugia con voluttà su immagini, flashback, sensazioni – tra l’autobiografico e il fittizio – coinvolgendovi chi legge, rendendolo partecipe, come un libro aperto, degli eventi narrati, immergendolo nelle sue particolari esperienze. È un libro addirittura preveggente, come nel capitolo Mandala, nel quale la figura impensabile e provocatoria di un maschio incinto preannuncia i casi odierni di persone transgender che, passate dal genere femminile a quello maschile, hanno portato a termine delle gravidanze grazie all’inseminazione artificiale. 
Scritto lungo un arco di dieci anni e oltre, la passione visionaria che si condensa in queste pagine dà conto dello scavo interiore che ha tenuto occupata l’autrice come un continuo rovello, il cui risultato è ora dispiegato in questo libro esemplare a cui il termine «romanzo» va forse un po’ stretto, perché in un certo senso lo travalica.
La lettura di FEM è un’esperienza che rapisce e che lascia il segno, ed è uno dei romanzi romeni pubblicati in questi ultimi anni che alla sua pubblicazione ha maggiormente destato l’attenzione della critica con recensioni assai positive. Un libro senz’altro da consigliare.



Frammento da «FEM»


La prima illuminazione

1

Ho quasi 13 anni. Mi trovo in una colonia scolastica estiva della Transilvania, è un caldo mattino d’agosto, leggermente caliginosa. Noi scolari siamo tutti radunati nel vestibolo dell’edificio centrale della colonia, c’è un brusio assordante prodotto da centinaia di voci di bambini e bambine, poi entriamo nell’aula di musica per provare i canti corali per la festa finale. Di colpo sento uno strano peso sul petto, come se lì avessi qualcosa di pesante e denso, una palla da cannone. Un vuoto allo stomaco e una sorta di sudore freddo mi riempiono di panico. Sgattaiolo subito fuori dall’aula prima che arrivi il nostro professore di musica, calvo e tarchiato. Scappo via per andare a nascondermi da qualche parte, nel piano interrato, magari in palestra.
Sospetto quello che mi aspetta. Per un’ora, con la precisione di un orologio invisibile, come mi accade a ogni inizio di mese da circa metà anno a questa parte, sarò in preda ad atroci dolori nella parte bassa del ventre, a causa dei quali a volte temo di morire, altre volte semplicemente di impazzire. Ma poi dopo un’ora, come se niente fosse, i dolori cessano.
Le preoccupanti pressioni sono già cominciate. Ho paura di non fare in tempo a scendere giù, nell’interrato. Corro giù per la grande scala di pietra, ma il colpo al ventre esplode tutto a un tratto, in modo ineluttabile. Un pulsare ritmato, come un metronomo spietato e caldo, sale lentamente dal pube. Vengo attraversata da un’ondata di calore e di sudore. I dolori salgono piano piano, come un fiume invisibile, attraverso i tessuti porosi dell’addome. D’un tratto mi si annebbia la vista, mi trovo immersa nel buio. Mi trovo da qualche parte in profondità, non so dove sono, né so più chi sono, la mia coscienza è tutta concentrata su un punto intenso, colmo di panico. Penso solo a quel punto, in modo ossessivo, per poter sopportare il dolore lancinante, che avanza ritmicamente, a ondate, come una piccola marea che raggiunge il suo apogeo proprio al centro del mio corpo, per poi ritirarsi, facendo una pausa, e poi tornare di nuovo. Il dolore si avvicina come una forza maligna, nemica, attaccandomi, assediandomi nel mio punto di coscienza concentrato su sé stesso nel ventre, quasi cercasse di annientarlo. D’un tratto mi sento chiusa dentro una caverna profonda, in una galleria sotterranea non illuminata, all’interno della quale devo superare una prova barbara, devo resistere a qualcosa di difficile, di doloroso come una crocifissione, come una trafittura di freccia, o altrimenti morirò, mi disintegrerò. Il dolore avanza a dense, buie ondate. Mi concentro disperata sul dolore, nel suo punto più intenso, nell’alveo interno del ventre. Avverto che devo pensare il dolore, fissarlo con la mente, visualizzarlo davanti agli occhi chiusi, altrimenti non sarò in grado di sopportarlo. Foggio nella mente con la sua sostanza vischiosa e orripilante ogni tipo di forme contorte, bizzarre, sfere e tubi, batteri e virus, come quelli osservati al microscopio durante le lezioni di biologia, grovigli di materia molle, di un cupo rosso-caffè. Larve e serpi, coccodrilli e ornitorinchi, ogni sorta di esseri striscianti mi sfilano davanti nella mente, li modello con il pensiero, poi li schiaccio con odio, con disperazione. Lucertole, otarde, ratti, poi mammiferi voraci, carnivori, tigri e leoni e pantere che attaccano pecore, mufloni e giraffe, le loro forme aggressive, o ridicolmente delicate, le faccio a pezzi con la mente. C’è un bagno di sangue e di odio nella mia mente. La mia mente è una caverna tenebrosa, nella quale ha luogo una barbara, spietata carneficina. Allo stesso tempo, sento come la mia pelle sia completamente madida di sudore, fuori.
Poi di colpo mi trovo in un mare agitato, pieno di una materia umida e viscosa, di color caffè-rossiccio. Vedo uno scoglio brullo e appuntito fra le onde pesanti e agitate. Sullo scoglio di metallo freddo, aspro, mi rifugio con tutta la mente, con tutta la forza di volontà. Da lì, con una lucidità sempre dolorosa, vedo un piccolo punto luminoso, che s’intravede da qualche parte, in lontananza. Dalle acque pesanti, magnetiche, il punto si dirige veloce, veloce verso di me. La sua luce si fa sempre più intensa, più brillante, e, come un sole minuscolo, entra nel mio ventre impazzito dal dolore e lo calma. D’un tratto mi vedo dall’esterno. Vedo come, dirigendomi di corsa verso il piano interrato, cado sulla scala di pietra e come il mio corpo scivola mollemente sui gradini a testa in giù, con la gonna tirata su, in disordine, Sono accanto al corpo, accanto a me, e un po’ sopra. Guardo con attenzione come lui, il mio corpo adolescente tormentato, sta scivolando sui gradini all’ingiù, come una bambola buffa, disarticolata, e gli sussurro calma, decisa: «Tieni la testa dritta, sennò ti rompi l’osso del collo! Tienila dritta!»
Mi ritrovo in fondo alla scala di pietra. Sono tutta raggomitolata, tengo le ginocchia strette vicino alla bocca, sembro quasi un feto bluastro, espulso brutalmente da un utero freddo e spietato, ampio quanto il piano interrato in cui mi trovo. Il dolore si acuisce lentamente, leggermente, e, come un fiume nero-torbido ora ammansito, rifluisce come un’onda tiepida e salata, al punto del ventre da dove era esploso. Sfinita come dopo una lotta accanita contro una forza terribile e implacabile, mi domando smarrita: perché, per quale motivo? Perché ho dovuto soffrire così terribilmente? Che tipo di prova ho dovuto superare anche questo mese? Mi sembra di essere morta e di essere resuscitata, mi sembra di essere caduta in una bolgia e di essermi sollevata, mi sembra di aver sconfitto una forza selvaggia e immane. Ora sono più leggera e più pulita. Poi avverto che una piccola sfera, rossa e caldissima mi abbandona sotto, fra le gambe.

2

Sono uscita dall’edificio principale della colonia, ho preso per il lungo vialetto, verso i bungalow di legno che ospitano i dormitori. Sono stanchissima, devo assolutamente stendermi, riposarmi. Devo attraversare un pezzo di strada piuttosto esteso, sotto alti abeti bui che delimitano il lungo vialetto, lastricato e diritto. Ho freddo, e il mormorio lontano dei rami degli abeti mi mettono i brividi, infondendomi una specie di ansietà. Nell’azzurra lontananza del vialetto scorgo una sagoma sottile e allampanata che si sta avvicinando. È un ragazzo, la qual cosa di colpo mi riempie di una sorta di nervosismo. Questo perché ultimamente, stando accanto a un qualsiasi ragazzo, sento una specie di energia maligna, negativa, che mi sale lungo le gambe e le braccia, facendomi tremare senza motivo. Mi faccio coraggio, in fin dei conti devo solo passargli accanto senza guardarlo, facendo finta di non vederlo, così come mi comporto di solito. Prendo un lungo respiro. La sagoma si avvicina, veste qualcosa di bianco, credo sia un maglione di lana soffice. Non posso fare a meno di sbirciarlo con la coda dell’occhio quando mi passa accanto, facendo finta anche lui di non vedermi. È un ragazzo alto, allampanato e bruno, con baffetti corti e neri, che contrastano alla perfezione con il candore del maglione.
E all’improvviso mi accade qualcosa. Mi sembra di essere sfiorata in testa da una lieve folgorazione. Avverto una specie di tepore mite e luminoso che mi invade attraverso la testa e scende giù fulmineo fino alla punta dei piedi. Per un attimo, mi sembra di non poter più muovermi. Mi sembra di svegliarmi da una specie di sonno, di torpore, e mi vedo molto meglio, più chiaramente. Mi vedo tarchiata e leggermente grassoccia nel mio corpo di adesso, che non mi piace, che non mi piace affatto, mentre sto immobile con l’aria ridicola, come colpita da un fulmine, in mezzo al vialetto, tentando di capire che cosa mi è successo. Il ragazzo è già passato oltre, sento chiarissimamente i suoi passi che si allontanano decisi e lenti sul ghiaino sottile. Ma io non riesco a muovermi perché vedo e sento tutto con una nitidezza, con una intensità allucinata. Scorgo ogni singolo sassolino per terra, nelle sue svariate sfumature, che vanno dal bianco, al grigio, e dal rosa al rossiccio e al nero, con puntini argentati, dorati, dalle forme irregolari, ma che ora mi sembrano – come posso dire – assolutamente eloquenti, con le esili ombre fra i loro spigoli e le loro gobbe, ombre piene zeppe di una strana specie di pulsazione e di vita. Anche gli abeti attorno mi paiono d’un tratto vivi e attenti, sono una specie di presenza verde, frusciante in modo espressivo, che vibra da un parte all’altra della strada; sembra che ogni abete sia una persona unica e silenziosa, di una nobiltà particolare, che cerca di trasmettermi qualcosa, i movimenti dei suoi rami tracciano in aria un messaggio intelligente e misterioso. Anche il mio odore si è svegliato, ha un’esistenza a se stante, intensa, e gode da solo della resina inebriante dell’abete, del profumo dolcemente lieve dei fiorellini bianchi, minuti, lungo il ciglio della strada, dell’afrore di pietra secca e riscaldata dal sole. Il mio udito capta ancora con chiarezza lo scricchiolio sempre più labile del ghiaino prodotto dai passi che, quieti, si allontanano. Sono tutta qui, sul vialetto, in questo momento strano e dilatato, che mi ha imprigionata nella sua sfera trasparente, nella sua bolla invisibile ed ermetica. Non riesco a pensare a nulla, sono tutta attenta, sono tutta cosciente di ciò che mi accade, e avverto quel calore luminoso che persiste ancora nel mio corpo tarchiato e ridicolo, che si vede per la prima volta.
Nell’abisso del mio istinto appena liberato dal dolore al ventre, so però, in un modo che non ha parole, che questo stato va collegato alla sagoma or ora dileguatasi.

3

Nei giorni successivi, avrei incontrato parecchie volte il ragazzo allampanato, vestito sempre con il suo maglione bianco e soffice. Si chiamava Radu ed era di una città di provincia diversa dalla mia. Era più vecchio di me di circa due anni e mi sembrava il più alto dei ragazzi della sua compagnia perché lo avvistavo sempre molto facilmente e da qualsiasi distanza, in qualunque posto si trovasse. E ogni volta che mi pareva di scorgerne il maglione bianco, inconfondibile, in qualche gruppetto di ragazzi, il mio cuore si metteva a battere all’impazzata. Lo sentivo battere sotto il torace in modo così atroce da temere che scoppiasse. Ogni tanto si verificava una sincope che mi faceva quasi svenire. Stavo male, avevo la nausea, e un terrore atroce mi gelava il sangue nelle arterie e nelle vene, nel mio petto che cominciava a indolenzirsi e a irrigidirsi, cominciava ad allagarsi. Sembrava che qualcosa in me fosse preso da un panico mortale solo a vedere la sua sagoma allampanata. Sembrava che qualcosa di ignoto in me si opponesse con furia a qualcos’altro che cominciava a crescere dentro. L’energia che mi trasmetteva alla sua vista sembrava troppo intensa, troppo diversa, per i miseri miei organi interni e membra in fase di sviluppo, in trasformazione, impauriti dalla sovrabbondanza di un flusso elettrico insostenibile.  Se dovevo passare accanto a Radu, lungo qualche vialetto o nella mensa, avevo la sensazione che sarei caduta, che sarei semplicemente sparita quando lui mi avrebbe rivolto lo sguardo, quando mi avrebbe osservato, quando mi avrebbe visto – anche se poi alla fine non accadeva mai nulla, e lui non mi calcolava neppure.
Avevo cominciato invece, com’era da aspettarsi, a parlare in versi e a scrivere poesie. Mi ritrovavo a declamare rime alle mie compagne di camerata, che fino ad allora mi conoscevano per essere una ragazza taciturna. Mi veniva l’ispirazione soprattutto di notte. Dopo che le altre ragazze si erano messe a letto, io aprivo la finestra della camerata, mi appollaiavo sull’ampio davanzale di quercia, guardavo le stelle attraverso i palmi delle mani uniti a cannocchiale e mi mettevo a canterellare pian pianino – spesso senza sapere bene che stessi dicendo, anzi, a volte mi pareva di proferire frasi che non mi appartenevano, tanto erano sorprendenti, come di un altro essere che si fosse destato in me, un essere più intelligente, più capiente. Cantavo il sole e i pianeti, il nostro sistema solare e la Via Lattea, quello insomma che avevo studiato a scuola, eppure, e non so come, in un altro modo, con un’altra comprensione, con un’altra passione, mi sembrava di riempirmi di qualcosa di vivo e di vasto, che mi liberava da me stessa, gettandomi, in qualche modo senza margini, al di fuori dei limiti del mio corpo.
Una notte, dopo che tutte le ragazze si erano addormentate, sono sgusciata per benino dalla finestra della camerata e sono salita sul tetto. Avevo scoperto che la botola della soffitta non era chiusa e attraverso una scaletta di legno, corta e ripida, si arrivava senza fatica sul tetto leggermente inclinato del bungalow. Sdraiata mollemente sulla lamiera ancora calda dei raggi di sole del giorno appena trascorso, guardavo nel vuoto la notte e le stelle, l’ammasso di stelle simile a polvere di vetro pressata. Non pensavo a nulla. Guardavo il buio. Il solo fatto di essere salita fin lassù, dove nessuno mi poteva trovare, dove potevo starmene sola soletta, con me stessa e con il cuore ridestato alla vita, mi riempiva di un sentimento colmo di libertà, di vastità, di una gioia profonda. Avevo la mente svuotata dai pensieri, dissolta nell’oscurità molle, vellutatamente nero-azzurra, pallidamente rischiarata dalle sparse stelle e costellazioni, attraversata dall’ombra di un uccello notturno, solcata da qualche stella cadente.
È notte fonda, fa caldo. Nessun rumore sale fin su da me, non si sentono più stormire gli abeti, né frinire i grilli. C’è un silenzio tranquillo, immenso, pieno di pace. D’un tratto sto attenta alla densa presenza del silenzio, quasi piena di qualcosa di infinito, vivo e contemporaneamente attento. Mi sento in qualche modo nutrita da questo profondo silenzio quasi intelligente. Qualcosa di etereo, delicato, come una pioggia di minuscole particelle, si insinua sotto la pelle e penetra nelle mie vene e arterie. Mi sento perfettamente isolata dal resto del mondo, avvolta in un bozzolo di eterea ovatta, mi trovo perfino quasi nel centro magico del mondo e al contempo dissolta nella dolce tenebra, tutt’una con la notte infinita. E d’un tratto, lentamente, comincio a sentire una melodia, una musica. Una musica strana, appena intuibile eppure limpida, cristallina. Mi sollevo appoggiandomi sui gomiti, mi guardo intorno. È una sorta di melodia semplice ma armoniosa, mi ricorda quei carillon a molla, pieni dei loro suoni ingenui, fanciulleschi. Ma ciò che sento ora è una musica vasta, da un carillon grande tanto quanto il paesaggio da cui sono circondata, o tanto quanto il mondo intero. Sembra provenire da tutte le direzioni, sulle onde della brezza notturna, o forse scende dalle stelle. Qualcosa di dolce e di cullante, suoni di campanelli d’argento, risuonante all’unisono per poi smorzarsi e inerpicarsi insieme su stordenti vette sonore, precipitando poi in cascate esuberanti, in vortici gravi, vibranti, per poi di nuovo salire insieme verso culmini di tintinnii risplendenti, risuonanti all’unisono come un coro composto da migliaia di voci sussurranti di fate, streghe e folletti, scemando di nuovo negli accordi ramificati di un immenso organo invisibile. Qualcosa di mite e al contempo avvolgente cala sulla terra, qualcosa pieno di una bontà vasta, amorevole, incomprensibile. 
Sembra che la melodia provenga da una torre con orologio a carillon; mi viene da pensare, mentre me ne sto immobile ascoltando attenta e meravigliata, che magari nelle vicinanze c’è uno di quei vecchi orologi, medievali, con buffe figure meccaniche che cominciano a muoversi rigidamente, ad angolo, su una melodia banale e monotona, ogni mezz’ora o ogni ora. Solo che nella nostra colonia non ci sono torri con orologi. Poi penso che forse la facciata dell’edificio centrale della colonia ha qualche grande orologio di porcellana bianca con meccanismo musicale. Finora non l’avevo visto né sentito, ma, chissà, forse stanotte qualcuno l’ha azionato. Ma subito mi rendo conto che simili orologi a carillon emettono melodie patriottiche, valzer o marce noti a tutti. La melodia che sento io non mi è affatto nota, ma la sua armonia è perfetta. È rappacificante e limpida e non sembra fluire da una direzione molto precisa. Si sente provenire chiaramente da ogni parte, è come una sudorazione sonora della notte, la sua soavità calma e infinita sembra provenire da un tempo remoto e lontanissimo, eppure da vicino a me, da molto vicino. Mi avvolge, mi copre come un abbraccio cosciente della volta celeste estiva, mi dico nel pensiero, in realtà viene detto dentro di me, è una sorta di brusca comprensione nella mente divenuta calma e cristallina, come uno specchio terso su cui si riflette tutta la notte che sta intorno, come in un nuovo organo di percezione. Ma si tratta di musica, è effettivamente musica, è una melodia armoniosa, non è il soffiare del vento, né il fruscio delle foglie, né il frinire di insetti. E non è neppure l’immaginazione, perché mi vedo, sono sveglia, sono sul tetto, mi tengo stretta fra le braccia un po’ infreddolita.
C’è qualcosa di beatificante in questa melodia sorprendente. Mi sembra di esserne impregnata, le sue diafane armonie mi riempiono la mente con l’immagine di un enorme orologio celeste, pieno di rotelle, cordicelle, sfere e molle, che in realtà sono le galassie, i sistemi solari e i pianeti, con satelliti, meteoriti e comete, che roteano tutti in cerchi ed elissi, scivolando, salendo e scendendo su piani vertiginosamente inclinati, in complicate spirali e producendo i suoni armoniosi che ho udito. Ascolto insaziabile, esaltata. Poi pian pianino, come una brezza leggera, come un riflusso di vibrazioni che si ritirano lentamente nella calda matrice dell’oscurità, la musica eterea si spegne poco a poco, terminando. Dopo una breve febbrile attesa, con le orecchie che mi fischiano per la tensione, rinuncio a continuare ad ascoltare, cedo alla stanchezza e scendo adagio dal tetto.
Il giorno dopo ho domandato alle compagne del mio gruppo se avessero sentito qualcosa la sera prima dalla finestra aperta della camerata. Non avevano sentito nulla. Domando alla professoressa che è la responsabile del nostro gruppo se ci sia qualche torre con orologio a carillon nella colonia. Non c’è. Penso che forse qualcuno di notte ha azionato l’orologio del campanile di qualche chiesa, ma scopro che non ci sono chiese nei paraggi.
La notte seguente salgo di nuovo sul tetto. Ma quella musica non si ripete più. Aspetto impaziente. Niente. Ormai tardi, passata la mezzanotte, assonnata, scendo. La terza notte, salgo di nuovo sul tetto, anche se ho poche speranze e comincio a credere che si sia trattato di una visione, anzi, meglio, di una ausione. Questa volta mi sono portata anche una coperta, per non soffrire il freddo sul far del giorno. Aspetto, aspetto. Sento solo il quieto, pacato fruscio degli abeti intorno e il frinire meccanico e tenace degli insetti. Guardo le stelle, la loro polvere di vetro pressato. Non succede nulla.
[…]

4

Sembra che Radu sia venuto a sapere in qualche modo che ero innamorata di lui. Probabilmente gli altri ragazzi erano andati a raccontarglielo, facendo smorfie divertite, a giudicare da come cambiavano faccia quando lo scorgevano. O forse qualche ragazza gelosa gli aveva fatto notare il mio comportamento così poetico e ridicolo. Ma Radu non mi rivolgeva la minima attenzione, e neppure io ero in grado di superare il blocco di imbranataggine che mi prendeva ogni volta che lo vedevo. Un giorno però, a mezzogiorno, mi trovavo in un gruppo di ragazze e di ragazzi che si erano raccolti attorno all’asta al centro del cortile centrale della colonia in attesa del pranzo. Poco dopo è arrivato anche Radu, che è stato subito accolto festosamente dagli altri ragazzi. Io me ne stavo appartata, scostata dal gruppo, tentando di non guardarlo né di far trapelare nulla delle forti emozioni che mi attraversavano a ondate il corpo buffo, grassoccio, svuotandolo di ogni pensiero coerente. A un certo punto, c’è stato un movimento rapido e strano fra i ragazzi, e dopo che avevano confabulato qualcosa tra loro in segreto, non so come mi sono ritrovata vicino a Radu, al centro di un ampio cerchio formato dagli altri ragazzi, che si erano allontanati a una certa distanza e ci guardavano, sghignazzando fra loro. Sapevo che Radu non mi rivolgeva nessuna attenzione e che il sentirmi smarrita accanto a lui poteva solo farlo sorridere. Sapevo che i ragazzi sono maliziosi e che ciò che a loro piace di più è provocare le ragazze, farle soffrire in qualche maniera, ridere di loro. Eppure mi trovavo lì accanto a Radu e non potevo far altro che assistere impotente al quel momento ridicolo, senza riuscire a muovermi. Perché ero vicino a lui, a Radu, e questa cosa mi riempiva di una strana, indicibile dolcezza. Senza riuscire ad alzare lo sguardo su di lui, ne sentivo la sua presenza come una sorta di calore magnetico che mi attraeva con una forza insidiosa, superando la mia volontà, e che pian piano mi riempiva di una gioia inattesa. Attorno a me vedevo tutto molto bene con la coda dell’occhio, i ragazzi ai lati che tenevano le mani sulla bocca per soffocare le risate, vedevo la sabbia giallognola per terra, attorno all’asta, le scarpe da ginnastica e i pantaloni kaki di Radu, ma non mi importava. Sentivo che dentro di me stava accadendo qualcosa che mi interessava più di ogni altra cosa al mondo. Il sole ardeva nell’orbita pomeridiana sulle nostre teste giovani e immature, ma io avevo scoperto in Radu un altro tipo di sole. Il mio corpo basso e tarchiato, che avevo odiato fino a quel momento, d’un tratto mi pareva degno di essere amato, perché dentro nascondeva un calore ignoto, un sole minuscolo entrato in vibrazione, comunicando silenziosamente con il piccolo sole del corpo di Radu e con il grande sole esterno.
Allora ho alzato lentamente lo sguardo e ho guardato direttamente verso l’alto, al cielo. Il sole si poteva guardare, non era fastidioso, non era accecante, come mi aspettavo, era invece, come potrei dire, benevolo, carezzevole, l’ho guardato a lungo, dritto in volto. E attraverso le pupille, sono stata abbracciata da una gioia calma e vasta. Ho sentito il lontano globo di fuoco proiettato dentro, mi pareva di sentire che si tuffava addirittura nel petto, contemplandosi lì, nel petto, come davanti a uno specchietto. E in quel momento, una sorta di filo invisibile è stato teso tra me e il sole. Era un cordone ombelicale amorevole, un canale attraverso cui un fluido caldo e buono fluiva legandoci insieme. Per un attimo ho avuto la sensazione di essere arrivata in qualche modo fino al sole, di essermi catapultata facilmente addirittura nel suo cuore, riempiendone il nucleo con me stessa, cingendolo da dentro. Formavamo insieme un tutt’uno, un tutto luminoso e irradiante. Una luce mite è esplosa dentro di me, riempiendomi e dilatandomi. Una sorta di calda doratura mi ha accarezzato dentro e non ho più percepito i miei limiti corporei. Sentivo emanare da me una specie di gloria irradiante, qualcosa di simile a un calore luminoso che si diffondeva attorno al mio corpo. Una vibrazione piena di bontà mi gemellava con tutto quello che vedevo, sentivo le radiazioni piene d’amore degli esseri e delle cose lì intorno. Nel silenzio che è calato nella mente, nel silenzio che d’un tratto mi pareva che stesse riempiendo il mondo intero, ero completamente felice, ero perfettamente rappacificata con me stessa.
È stato in questo modo che ho conosciuto l’Adorazione.





A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 11, novembre 2014, anno IV)