Matei Vişniec e il suo «Sindrome da panico nella Ville Lumière»

Matei Vișniec (1956) è poeta, scrittore e drammaturgo, nato in Bucovina, a Rădăuţi – città rievocata qui come, soprattutto, nel suo primo romanzo, Cafeneaua Pas-Parol («Caffè Pas-Parol»), scritto negli anni 1982-1983, e pubblicato nel 2008). Nel 1987, al culmine dell’ultimo buio decennio dell’era Ceaușescu, decide di abbandonare la Romania e parte per la Francia, dove si stabilisce a Parigi, «suo» luogo mitico letterario, in cui assapora incredulo e frastornato la libertà. Chiederà asilo politico; nel 1993 gli viene conferita la cittadinanza francese. Comincia a scrivere in francese (la sua vasta produzione drammaturgica – alcune, le prime, sono state scritte in romeno –, che conta più di venti commedie) ma non abbandonerà mai del tutto il romeno (che riserva alla prosa, genere cui si è accostato più tardi: tre romanzi, fra cui l’ultimo, uscito nel 2010, scritto anch’esso prima di lasciare la Romania, è Domnul K. eliberat «Il signor K. liberato», un omaggio a Kafka, tradotto in Francia). L’opera poetica è stata scritta soprattutto quando viveva ancora in Romania.

«Sindrome da panico nella Ville Lumière» (Cartea Românească, 2009), il suo secondo romanzo è, per così dire, un libro-puzzle metaforico, (auto-)ironico e autobiografico, qua e là anche surreale, labirintico ma allegro e arguto sulla letteratura, sulla vita (e la morte) dei libri, sul senso e sul ruolo dello scrittore, in particolar modo sull’immagine, sul rapporto e sullo choc a contatto con l’Occidente degli scrittori dell’Europa letteraria dell’est (balcanica e meridionale) segnata dagli anni del socialismo reale, e così via, sfiorando e suggerendo molte altre idee e riflessioni di mirabile inventiva narrativa che si susseguono come in un fuoco di fila, senza mai però disperdersi nella somma del libro, anzi legate l’una all’altra tramite sottili echi interni. Tutto ciò, come lo stesso titolo suggerisce, ha come sfondo la città di Parigi – in cui a un certo punto fanno capolino anche Cioran e Ionescu, più altri «fantasmi» di celebri scrittori –, scenario ideale e paradigmatico dei personaggi, variegati e curiosi. Fra questi, inoltrandoci nella lettura, possiamo incappare in Faviola, con la sua gamba ingessata, che lavora nella libreria «L’Arbre à lettres» – sorta di rifugio di libri morti che soffrono e che necessitano ogni tanto di essere spolverati, accarezzati e letti –; Gogu Boltanski, l’amico d’infanzia della voce narrante, fonte – reale o fittizia? – del sindromico stato esistenziale dello scrittore-voce narrante; Huang Fo, un «Solženitsyn cinese»; lo scrittore greco Pantelis, poliglotta che a un certo punto confonde e dimentica le lingue; il signor Lajournade, la guida cieca dei sotterranei parigini…; ci sono perfino pagine di diario di un gatto e di una gobba! Tutta questa e altra varia umanità viene chiamata a dar vita coralmente alle vicende del libro, veri e propri casi umani, che costellano le pagine di questo romanzo di presa immediata e dalla scrittura sciolta e briosa, invitante e irresistibile.
All’inizio del libro veniamo introdotti dalla voce narrante nel mondo del signor Cambreleng, personaggio centrale del romanzo: è un ex maoista pentito, editore a capo di una fantomatica casa editrice (che non ha una sede: il suo quartier generale è al primo piano di un caffè, il Saint-Médard, dal nome dell’omonima chiesa lì vicino, il cui cimitero fu scenario secoli addietro di strani e miracolosi eventi), spietato fustigatore di scrittori dell’est, tutti dei romanzieri mancati, alla ricerca disperata della gloria letteraria, i quali, orrore!, secondo Cambreleng, scrivono ancora in prima persona; a lui, a Cambreleng, si rivolgono perciò come «ultima Thule» dei propri sogni letterari. Egli li accoglie sotto la sua ala, li riceve con paternalistica magnanimità, li istruisce su come scrivere, e non manca di biasimarli anche molto aspramente per l’inadeguatezza dei loro testi che loro speranzosi gli sottopongono e che lui legge, sorbendosi centinaia e centinaia di cartelle, sulle quali il suo giudizio è impietosamente negativo. Fino a quando però, un giorno, Jaroslava, una scrittrice ceca esiliata, della cerchia del signor Cambreleng, scopre per caso dei taccuini dalla copertina verde, pieni zeppi solo di parole, scritti da autore anonimo (ma Vișniec ci offre fin dall’inizio una pista…): sono parole prese ovunque, attorno a noi: dai cartelloni pubblicitari o dai cartelli del traffico, dalle insegne dei negozi, dalle etichette dei vestiti, dai pacchetti di sigarette ecc. ecc. … Li consegna al signor Cambreleng il quale, dopo averli letti, esulta dicendo di aver fra le mani finalmente un testo geniale, rivelatore, un capolavoro assoluto! Ecco, Cambreleng, l’editore senza casa editrice, può avere la soddisfazione di dare alle stampe un libro anonimo, l’unico edito da lui, di sole parole, cinquecentomila, invendibile e illeggibile ma sicuramente geniale, mai pubblicato prima; il titolo: Storia delle parole vive.  
E questa è solo una delle tante finestre spalancate dall’autore su questo universale palcoscenico di umanità e di parole, e sui loro destini, che animano questo romanzo poliedrico e aperto a varie letture.
Nell’ultimo capitolo del libro, come messaggio finale, è inserita Corabia («La nave»), la poesia scritta da Vișniec durante gli anni della dittatura, sottile metafora del regime soffocante di Ceaușescu, fonte nel libro, in un inverosimile crescendo, quasi isterico, del clamore e dell’attenzione della «crême de la crême» intellettuale parigina attorno al suo autore, la voce narrante, ossia Vișniec stesso, che sa qui prendersi in giro con gustosa autoironia.
«Sindrome da panico nella Ville Lumière» è stato accolto molto favorevolmente dalla critica romena e francese (in Francia è stato tradotto nel 2012), e premiato dalla rivista «Observator cultural»come miglior romanzo del 2009.


Frammento da «Sindrome da panico nella Ville Lumière»

1.

«Che ne dice se ci vedessimo domani, visto che sarà il giorno più lungo e la notte più breve dell’anno?» Mi ci sono voluti parecchi anni per capire il senso di questa frase con la quale il signor Cambreleng decise, alla vigilia del solstizio d’estate, di prendermi sotto la sua ala e di aiutarmi a superare alcune frontiere umane, come diceva lui. In realtà, ci eravamo conosciuti per caso, nell’ultimo anno del secolo scorso, in una libreria polacca di Saint-Germain des Près. Non ricordo neppure più oggi chi ci presentò (forse Jaroslava, che già allora portava dei cappelli gialli). Per quella serata letteraria era stata invitata una folla di scrittori polacchi, cechi, ungheresi, russi, romeni, bulgari e di altre nazionalità est-europee. Mi ricordo però che tutti si sentivano in qualche modo soli in quella libreria polacca di Parigi come prima del loro arrivo in Occidente quando aspettavano la grande «partenza» dalla parte orientale della Cortina di Ferro. Per fortuna che il signor Cambreleng (grande editore parigino, sussurravano alcuni) era lì per rappresentare la Francia, il paese in cui tutti sognavamo di diventare celebri.
Il mio primo incontro con lui al caffè Saint-Médard (l’unico posto di Parigi in cui tutto è possibile, diceva il signor Cambreleng) fu però abbastanza deludente, sebbene non privo di alcune bizzarrie la cui natura solleticò la mia immaginazione.
Lo attesi per più di un’ora senza che mi preoccupassi molto. Ordinai un caffè e un bicchiere d’acqua minerale; facevo finta di sfogliare una copia di Libération. Ordinai un altro caffè e feci finta di annotare vari pensieri in un taccuino dalla copertina verde… Dopo un’ora e un quarto, la mia irritazione cominciò a montare, il che attrasse l’attenzione di un signore molto distinto seduto al tavolo accanto, alla mia sinistra. Un signore non molto anziano, ma all’antica, che portava al collo con aria dignitosa una lavallière. Si rivolse a me d’altronde, domandandomi con aria complice:
– Lei è autore o personaggio?
Di fronte allo stupore che si stampò di colpo sul mio viso, il signore anziano dalla lavallière incominciò a sbattere ripetutamente gli occhi, facendomi capire che ritirava la domanda. Ma proseguì ponendomene un’altra, anche questa sorprendente seppur infinitamente più gradita.
– Lei, per caso, è l’autore della poesia La nave?
Poiché per un po’ di tempo a quella parte tale domanda mi era stata posta assai spesso in Francia, risposi, com’era mia consuetudine allora, simulando totale modestia e pronunciando un esile «sì». 
L’anziano dalla lavallière parve alquanto impressionato dalla mia risposta, ma in modo paradossale cambiò bruscamente discorso, la qual cosa stava lì lì per farmi montare su tutte le furie.
– So che si sente come se avesse rubato a qualcuno un anno di vita. E per giunta, sta aspettando ancora il signor Cambreleng.
Sì, avrei voluto replicargli, stavo aspettando da più di un’ora, come uno stupido, il signor Cambreleng, ma proprio in quel momento tentavo di decidermi di non aspettarlo più e di andarmene. Era inammissibile che un signore come lui, Cambreleng, fosse in ritardo di più di un’ora, fin dall’inizio mi sembrò perfino un po’ offensivo e arrogante questo suo comportamento, tanto più che mi aveva avvertito fin da subito che avrebbe potuto concedermi solo dieci minuti. E già il fatto che mi avrebbe potuto accordare solo dieci minuti mi aveva irritato, e ora si permetteva pure di essere in ritardo di più di un’ora.
L’anziano dalla lavallière mi guardò come se avesse sentito quello che stavo pensando. Mi guardò a lungo come se avesse voluto dirmi «continui, so di avere una faccia che induce alle confessioni». Ma di fronte al mio silenzio, mi seccava con altre considerazioni:
– Che accento gradevole ha. Ecco, mi dica, quando è arrivato in Francia?
Sono arrivato quando sono arrivato, mio caro signore con la lavallière. Mi trovo in Francia da molto tempo e non ho voglia di fornirle altri dettagli. Noto che questo caffè è frequentato da persone molto strane. Mi domando perché il signor Cambreleng mi abbia dato appunto proprio qui. Quando mi sono seduto al tavolino, più di un’ora fa, il cameriere, un tipo con una piccola gobba, nel momento in cui è venuto a chiedermi che cosa volessi ordinare, mi ha guardato con un’aria estremamente compassionevole. E quando mi ha portato il caffè, si è chinato per sussurrarmi all’orecchio «Il signor Cambreleng non tarderà ancora molto». Ma ciò che mi ha lasciato perplesso è che, dieci minuti dopo, mentre stava versando l’acqua minerale alla signora con in testa un immenso cappello giallo che vede seduta al tavolino a destra, ecco, ha ripetuto anche a lei esattamente la stessa cosa, «Il signor Cambreleng non tarderà ancora molto». Che dovrei dedurne, che tutte le persone che si trovano qui sedute nella terrazza del caffè stanno aspettando il signor Cambreleng?
– Mi permetta di presentarmi, continuò l’anziano dalla lavallière dopo questo mio sfogo che non poteva aver sentito, poiché l’avevo detto a me stesso, nel pensiero. Sono anch’io uno scrittore fallito ed è per questa ragione che mi trovo qui. E il signor Cambreleng è in ritardo, se vuole saperlo, perché in questo momento sta leggendo il mio manoscritto. Sì, sì, non sto scherzando, mi trovo in qualche modo nella sua stessa situazione, solo che io non sono un debuttante. Voglio dire che il manoscritto che sta leggendo il signor Cambreleng non è la prima versione del mio nuovo romanzo. Credo che sia la settima o l’ottava. Ma sa come lavora il signor Cambreleng…
No, non sapevo come lavorasse il signor Cambreleng e fu per questo che dissi all’anziano dalla lavallière:
– No, signor scrittore fallito, non so come lavori il signor Cambreleng e neppure m’interessa. Anzi, io non lo aspetto più, il fatto che io continui a stare qui non significa che lo stia aspettando ancora. Sono qui perché volevo prendere un altro caffè e perché mi piace questa piazza. Ma io, infatti, non aspetto più il signor Cambreleng, e se il signor Cambreleng arrivasse adesso, gli direi esattamente questo, caro il mio signore, io non sto più qui ad aspettare lei.
– Lo sa lei che il posto in cui ci troviamo è in realtà maledetto? sussurrò amabile l’anziano signore dalla lavallière. È anche questo il motivo per il quale tutto quello che sta dicendo suona un po’ bizzarro. Ma lei non ne ha nessuna colpa. La colpa è del locale. Ho sempre consigliato i miei amici dicendo loro questo: Se per caso venite a Parigi, non avvicinatevi alla chiesa di Saint-Médard. Durante il Medioevo, qui sorgeva una corte dei miracoli, la gente si flagellava, ci veniva in processione perché davanti a questa chiesa accadevano dei miracoli… Tutta quest’area è ancora impregnata dall’energia delle isterie collettive che hanno avuto luogo qui. E inoltre, nelle vicinanze scorre un fiume sotterraneo.
Mentre l’anziano signore mi stava dando queste informazioni, di colpo il tempo cambiò. Dal Panthéon si erano addensati certi nuvoloni neri, e l’intera via Mouffetard, dove centinaia di persone stavano facendo compere, fu investita da un flusso d’aria fredda. Un cane correva tutto eccitato trascinandosi dietro il padrone. Di punto in bianco un turista giapponese si mise a vomitare. Un cantante ambulante dovette semplicemente aggrapparsi con tutte le forze al suo organino per non essere risucchiato dal vento, perdendo però tutti i fogli delle partiture. Mischiati alle foglie morte, i fogli sui quali erano segnate note bizzarre in forma di minuscoli fori disposti in bell’ordine, si misero a volteggiare in aria, a impigliarsi fra i rami degli alberi o a planare sui tetti. Il cameriere con la gobba che mi aveva detto «il signor Cambreleng non tarderà ancora molto» uscì sulla soglia del caffè e scrutò il cielo con occhio esperto.
– Non pioverà, disse l’anziano dalla lavallière.
– Certo che no, disse il cameriere.
– Non è possibile che piova, aggiunse la signora con l’enorme cappello giallo seduta pochi tavolini più in là.
Mentre queste frasi venivano pronunciate e sparivano nel nulla insieme alle foglie portate via dal vento e alle partiture svolazzanti, il signor Cambreleng fece la sua comparsa, con un voluminoso manoscritto sottobraccio, spingendo una sedia a rotelle sulla quale era seduta una giovane donna con un piede ingessato.    
     

2.

Con mia grande sorpresa, il signor Cambreleng non si diresse subito verso di me, quasi avesse saputo che dentro di me avevo preso la decisione di non stare più lì ad aspettarlo. Lasciò la signora sulla sedia a rotelle con il piede ingessato davanti a un tavolino libero, poi, con il volto diventato di colpo rosso di furia, si avviò verso il distinto signore dalla lavallière, sollevò in aria il malloppo di fogli del manoscritto con entrambe le mani e glielo sbatté in testa.
– Che le ho detto l’ultima volta? Mi sembra di averle detto qualcosa… Ha dimenticato quello che le avevo detto o si sta prendendo gioco di me?
L’anziano signore dalla lavallière non rispose, si fece solo piccolo piccolo, fin quasi a sfiorare con la fronte la superficie del tavolino, affondando la testa tra le spalle, come un triste oggetto costretto a sparire dall’universo.
Tutti i passanti girarono lo sguardo verso i due, aspettandosi che gli appioppasse un altro colpo. Un colpo che, di sicuro, avrebbe spiaccicato il distinto signore contro la tovaglietta del tavolino, contro il pavimento, schiacciandolo definitivamente così da farlo evaporare dall’universo. Anche il corpo dell’anziano signore dalla lavallière cominciò a rimpicciolire poco a poco, come se fosse stata una bambola gonfiabile da cui usciva l’aria.
Il signor Cambreleng però pareva stanco. Si limitò a posare il manoscritto sul tavolino della vittima, degnandosi finalmente di rivolgersi a me. Si sedette al mio tavolino senza chiedermi il permesso e cominciò ad asciugarsi il sudore.
– Come le mosche, così arrivate tutti a Parigi. Senza capire che Parigi non è più quello che era, che Parigi ora è un museo, un’illusione. Ma perché non imparate da Kyoko Fukusawa, o da Gogu Boltanski?
Per la collera, al signor Cambreleng tremavano le palpebre… ma ciò non gli impediva di saltare di palo in frasca. Per esempio, si chinò sopra il tavolino per sussurrarmi con fare cospirativo: «Sa che da qui, dai tavolini della terrazza del caffè Saint-Médard, in determinati momenti del giorno, specie dopo la pioggia, quando il cielo si fa di colpo sereno e limpido, in fondo a via Broca si vede il mare?».
La domanda mi parve retorica sicché non gli risposi. Il cameriere con la gobba si fece avanti portando un bicchiere di vino rosso e un piattino di noccioline. Si era accesa però una certa agitazione fra i tavolini del caffè dopo quanto era accaduto. Un signore alto, magro, con il viso allungato, che assomigliava un po’ a Samuel Beckett, si avvicinò al vecchietto e tentò di rincuorarlo battendogli una mano sulle spalle. Anche un altro avventore, un signore anziano dal volto faceto, che portava in testa una cuffia da bambino, si avvicinò e cominciò a raccogliere da terra quei pochi fogli che erano volati via nel momento in cui il manoscritto era stato sbattuto sul cranio del loro autore. Osservandolo meglio, mi sembrò che questo secondo personaggio assomigliasse moltissimo a Michel Tournier. La signora dall’ampio cappello giallo, seduta alcuni tavolini più in là da me, tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e cominciò a tamponare un rivolo di sangue che colava dall’orecchio destro del vecchietto.
– Grazie, le sussurrò.
Non so perché, ma il mio sguardo fu attratto da un punto nero del cappello giallo della signora intenta a soccorrere l’anziano signore. Un punto nero mobile, e, difatti, era uno scarafaggio nero… Come aveva fatto ad arrivare lì? Lo scarafaggio non sembrava spaventato e si spostava lentamente su tutta la circonferenza del cappello, come se stesse ispezionando il terreno.
– Tutti voi scrivete, tuonava intanto il signor Cambreleng. Tutti voi siete convinti che avete qualcosa da dire, invece di cercare di essere felici. Nessuno di voi ha pensato anche un solo istante che la vita potrebbe essere sacrificata alla vita, non solo alla letteratura. Fatemi l’esempio di una sola persona che dica… ho sacrificato la mia vita alla vita. No, tutti si sacrificano per qualsiasi cosa tranne che per la vita. Quando li senti per che cosa si sacrificano mi viene da ucciderli. Uno si sacrifica per il proprio figlio, un altro per la madre, un altro ancora per i fratelli… Quante sono le donne che non hanno detto di essersi sacrificate per i propri mariti! Altri si sacrificano per la musica, altri per il balletto…
Furioso, sempre più furioso, il signor Cambreleng centellinò un po’ di vino che gli andò di traverso a causa dell’agitazione. Tossì parecchie volte, sbuffò, levò lo sguardo al cielo come a voler implorare Dio che gli concedesse qualche attimo di vita in più; estrasse il telefonino, chiamò brevemente un certo signor Lajournade per organizzare una visita guidata alle catacombe del 14° arrondissement, dopo di che si rivolse di nuovo a me.
– E come se non bastasse, neppure la banca mi concede più un prestito…
Dicendo questo, il signor Cambreleng stava quasi per scoppiare in lacrime. Che sapevamo noi dei suoi problemi? Che sapevamo noi della sua banca che non voleva concedergli più alcun prestito? E come avrebbe fatto a continuare a pubblicare senza soldi? Tutti i banchieri erano certi capitalisti lugubri… E il suo agente di banca era davvero un uomo-insetto. Il signor Cambreleng l’avrebbe strozzato. Sapevo io come ci si sente in queste situazioni, quando si prova l’impulso di strozzare qualcuno? Sì, lui sentiva che avrebbe voluto afferrare per il collo il suo agente della BSD, la Banca per lo Sviluppo Durevole. Avevo forse anch’io un conto alla BSD?
No.
– So quello che sta pensando di me, lo so… Lei avrà l’impressione che io sia un personaggio inventato perfino da lei, ma non è vero. Sa quante pagine di manoscritti leggo al giorno? Dica una cifra. Non vuole? Circa duecento. Duecento pagine ogni giorno. Duecento pagine di parole. Di parole scritte da persone che desiderano che gli si pubblichino le parole. A che pro pubblicare parole quando oggigiorno sei travolto da altri segni? Con le parole è finita. La parola ora deve essere rilegata in un museo. D’altronde i libri oggi sono solo dei piccoli musei portatili. Ora è giunta l’ora dell’immagine e del suono. È giunta l’ora degli impulsi e delle pulsioni, della comunicazione tellurica attraverso i segni urbani…
Ascoltando le perorazioni del signor Cambreleng, seguivo con la coda dell’occhio il vecchietto dalla lavallière seduto al tavolino, attorno al quale si erano radunati altri avventori, compresa la giovane donna con il piede ingessato. Perfino uno dei fruttivendoli abbandonò per un attimo il suo bancone che si trovava a dieci passi dal caffè e cominciò a esaminare la testa del signore anziano, preoccupato dagli effetti prodotti dal colpo appioppato al pover’uomo con il suo stesso manoscritto.
– Le porto uno sciroppo al lampone, signor Pantelis? gli domandò il fruttivendolo, ma l’anziano signore fece segno di no con la testa.

3.

Prima di continuare questa storia sarebbe forse il caso di spendere due parole sulla mia poesia La nave, che, a un certo punto, in Romania, in Francia e nel mondo mi portò una celebrità unica nella storia letteraria del secolo scorso. Scrissi questa poesia durante gli anni d’università, a Bucarest, e attorno al 1980 la lessi anche in un cenacolo di cui oggi nessuno si ricorda granché (si chiamava «Il cenacolo del lunedì»). Mi risuonano ancora oggi nella mente le risate scoppiate spontaneamente allora fra i miei colleghi di cenacolo mentre la leggevo. Più persone la copiarono subito su vari fogli, quaderni e taccuini. La poesia cominciò a circolare a Bucarest di mano in mano, e molta gente la imparò a memoria, perché non era lunga e aveva una struttura logica impeccabile. Fu pubblicata su una rivista letteraria studentesca per un numero dedicato al Mar Nero, che costò al redattore-capo, dopo pochi giorni, una convocazione presso il Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno; degradato, fu spedito a lavorare in un villaggio sul Danubio. Il fatto strano è che nessuno convocò me, autore della poesia, perché dessi spiegazioni.
Non saprò mai come la poesia abbia fatto ad arrivare anche nelle redazioni delle radio straniere che trasmettevano programmi in lingua romena. In poco tempo, però, la poesia cominciò a essere letta a Radio Europa Libera, a Voce dell’America, a Radio France International e alla Deutsche Welle. Attori romeni esiliati all’estero, come Dumitru Furdui, celebre ex gloria del Teatro Piccolo di Bucarest negli anni ’70, la leggeva ogni tanto alla radio.
In meno di un anno, quasi l’intera popolazione romena aveva sentito questa poesia in un modo o nell’altro. La gente si spanciava dalle risate leggendola e rileggendola, ascoltandola o pensando solo a essa. Mentre la vita quotidiana si faceva sempre più dura, mentre l’olio, lo zucchero, il burro e la carne si potevano comprare solo con buoni razionalizzati, mentre la gente in inverno soffriva il freddo in appartamenti senza riscaldamento e la mattina prendeva d’assalto i mezzi pubblici per andare al lavoro, la poesia La nave risuonava nelle menti di tutti.
Le scene che si potevano vedere all’epoca a Bucarest e in altre città del paese avevano del comico. Immaginatevi, per esempio, un autobus alle 7 del mattino carico zeppo di gente stanca, vestita male, presa dalla disperazione al solo pensiero che avrebbe dovuto trascorrere una giornata intera in uffici o in fabbriche dove la temperatura in inverno non superava mai i dieci gradi. Ebbene, ogni tanto, in questi autobus gremiti di gente che si sentiva stretta come sardine in scatola, qualcuno si metteva a ridacchiare, e subito la sua risata si trasmetteva ai vicini, e da questi all’intero autobus. Poiché lo sghignazzo del primo passeggero non faceva altro che suscitare nella mente degli altri il contenuto della mia poesia, la poesia, guizzando all'improvviso in tutti i cervelli, diventava in questo modo una sorta di comun denominatore della complicità. La poesia transitava di persona in persona, passando di cervello in cervello e diventando un’unica immagine estesa sulla corteccia cerebrale di tutti i passeggeri che, capeggiati dall’autista, giungevano a destinazione singhiozzando e sbellicandosi dalle risate. Perfino i miliziani, gli agenti dei servizi segreti o altri informatori disseminati fra i passeggeri venivano alla fine aspirati dalla forza dirompente della poesia.
Capite adesso perché in quegli anni divenni, di colpo, un autore pericoloso e perché fui spinto a cercare la via dell’esilio.
Il potere si trovava di fronte a un fenomeno sociologico che nessuno avrebbe potuto controllare. La mia poesia aveva provocato gravi danni all’ideologia ufficiale più di tutte le critiche dirette che le indirizzavano i dissidenti interni ed esterni.  
   

5.

Già, mi rendo conto che sto procedendo in modo caotico in questa storia e che non riesco a mettere in ordine le mie idee. Ma non so che farci, è troppo tardi per me – io, uno scrittore fallito – imparare a scrivere in prosa. Tutto quello che posso fare è dire agli scrittori più giovani: non fate come me. Non scrivete come me, non prendetemi a modello. Leggetemi ma non prendetemi a modello. Avrete successo solo se non scriverete come scrivo io. Analizzate il mio modello di frase, costruite poi la vostra frase esattamente nel modo contrario alla mia costruzione, e trionferete. Siate chiari, non aprite piste false in un libro. Usate parole inglesi ogni tanto perché la globalizzazione è anglosassone. La Francia è morta. E soprattutto non ambientate l’azione dei vostri libri a Parigi o in Francia: è uno spazio che non interessa più a nessuno.
Quel che volevo dirvi però è che durante i primi cinque anni dal mio arrivo a Parigi ho vissuto momenti di una gloria stupefacente. Sì, credo che non ero preparato per essa, ecco per quale motivo alla fine sono diventato un vagabondo, un clochard, come dicono i francesi. La poesia La nave, di cui vi ho parlato in precedenza, è stato il mio passaporto per una breve e fulminea esperienza dell’universalità. Trasmessa a tappeto dalle radio internazionali, la poesia è stata in seguito pubblicata sulle prime pagine dei più grandi quotidiani francesi, Le Monde, Libération, Le Figaro... «Una poesia giunta dall’inverno dell’est…» scriveva «Le Monde» nell’edizione del 18 settembre del 1987. «La poesia di Matei Vișniec, un terreno minato per il lager comunista», scriveva «Le Figaro», due giorni dopo, quando in Occidente già si sapeva che mi era stato rilasciato un passaporto con un visto turistico per la Francia. («Le Figaro», giornale dichiaratamente di destra, si permetteva di essere meno radicale nel suo atteggiamento anti-comunista rispetto agli altri quotidiani francesi.) Fatto, però, del tutto sorprendente, perfino il quotidiano comunista «L’Humanité» ha salutato all’epoca, proprio il 26 settembre, il giorno del mio arrivo a Parigi, «la forza critica della poesia La nave che ci obbliga a rivedere certi dogmi…» Ed è vero, tutti l’hanno riconosciuto, compresi gli storici: la mia poesia aveva provocato un terremoto ideologico nella dottrina del Partito Comunista Francese, in quel momento considerato come il partito comunista europeo più retrogrado… Più precisamente, il PCF ha rinunciato ai principali dogmi marxisti, in altre parole, si è sbarazzato del principio della lotta di classe e di quello dell’insurrezione rivoluzionaria come metodo per ottenere il potere.
(…) Riproduco qui la trascrizione dell’intervista che ho concesso, lo stesso giorno del mio arrivo a Parigi, il 26 settembre del 1987, per il canale televisivo FRANCE ACTUALITÉ. Un’intervista di un’ora, ma che non riprodurrò qui per motivi di estetica romanzesca. (Avviso ai giovani romanzieri: non inserite mai un’intervista reale in un romanzo che è un prodotto della finzione, anche se i vostri romanzi appartengono all’autofinzione nella quale tutto è lecito.)
Preciso fra parentesi che le domande mi sono state poste da tre dei più importanti intellettuali francesi «impegnati» di quel momento: Bernard-Henry Lévy, André Glucksman e Jean-François Revel.
Bernard-Henry Lévy: «Matei Vișniec, lei è stato preceduto a Parigi con la sua poesia La nave da un fenomeno mediatico senza precedenti. Mai prima d’ora una poesia aveva scavalcato le frontiere in questo modo, con tale forza e con tale velocità. Personalmente, credo che questo testo sia da premio Nobel, ma non mi sembra che sia questa la questione essenziale. Ciò che vorrei che lei ci spiegasse è un’altra cosa: con quale forma rivelatrice è riuscito a sintetizzare in una poesia di 24 versi e 152 parole l’essenza stessa del dilemma del comunismo?»
(Poiché provo un certo imbarazzo a ricordare quel momento e soprattutto le domande che mi hanno posto allora quelle illustri personalità, non riprodurrò qui le mie risposte. Mi limiterò quindi a fornire le domande dato che esse hanno un profondo significato in sé, e mi onorano più delle risposte date da me. D’altronde riconosco che le mie risposte non sono state nulla di eccezionale in quel momento in cui mi tremavano le mani, avevo un nodo alla gola e mi sentivo la testa un po’ intontita.) (…)
André Glucksman: «Ho osservato che lei ha uno scarafaggio nero nel taschino della camicia, anzi, ogni tanto fa capolino, par quasi che ci osservi agitando le sue antenne. L’ha per caso portato con sé dalla Romania? Che ruolo ha questo scarafaggio nella sua vita di scrittore?»
(L’imbarazzo provato sopra nel momento del mio arrivo a Parigi si sta accentuando. Quindi smetto di riprodurre le domande che mi sono state poste allora. Ma suggerisco ai lettori, subito dopo aver finito di leggere questo romanzo, di tuffarsi nella lettura dei seguenti libri: La schizofrenia dei personaggi vișnechiani come forma di denuncia del totalitarismo, di Bernard-Henry Lévy, Il mondo di Vișniec e la nostra catastrofe morale, di André Glucksman, Tre più due fanno Lenin, o come sprofondare nel tempo, di Jean-François Revel.) 

 

60.


La nave

La nave affondava lentamente dicevamo
come no se affonda e come
dicevamo qualsiasi nave affonda
un giorno o l’altro e ci salutavamo
stringendoci la mano

ma la nave affondava così lentamente
che dieci giorni dopo
esserci stretti la mano ci guardavamo ancora
pieni di vergogna dicevamo niente paura questa è
una nave che affonda più lentamente delle altre
però alla fine affonderà eccola

ma la nave affondava così lentamente
che dopo un anno ci vergognavamo
noi che ci eravamo stretti la mano e che
ogni mattina uscivamo uno a uno
a misurare l’acqua oh! non manca molto
perché affondi, lentamente ma di sicuro

ma la nave affondava così lentamente
che passata una vita
uscivamo ancora a turno a vedere
il cielo e a misurare l’acqua e digrignavamo i denti
e dicevamo questa non è una nave
questa è una…
questa è una…



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)