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 |  | «Diario 1935-1944»: le provocazioni di Mihail Sebastian
 
  Accolto alla sua pubblicazione (1996) dalla critica internazionale come un vero evento letterario e subito tradotto in numerose lingue, il Diario 1935-1944 di Mihail Sebastian custodisce la memoria di un’epoca drammatica e complessa, ma attende ancora chi lo traduca in Italia. Crediamo utile fornire ai nostri lettori un primo approccio a questa importante figura e testimonianza.
 Note per un profilo biografico    
     Lo  scrittore, drammaturgo e saggista romeno Mihail Sebastian, nome d’arte di  Iosef Hechter, nasce a Brăila (la stessa  città, sulle sponde del Danubio, che diciassette anni prima aveva dato i natali  a Nae Ionescu (il filosofo che tanto peso avrà nel futuro di Sebastian), come pure  allo scrittore Panait Istrati, l’8 ottobre del 1907 (stesso anno di nascita dell’amico  Mircea Eliade) da una famiglia della media borghesia ebrea che per generazioni si  è sempre dimostrata leale, in modo attivo e concreto, alla Romania (un loro avo  finanziò i rivoluzionari romeni del 1848, mentre il padre lottò al fronte nel  1916 contro l’impero austro-ungarico per l’unificazione del paese).Qui  frequenta il liceo Bălcescu, in un clima e in un ambiente stimolanti per la sua  formazione intellettuale (è qui che conosce il suo illustre concittadino, il  professore di logica, Nae Ionescu, suo futuro mentore), ma permeati anche di un  antisemitismo strisciante che caratterizza la società romena dell’epoca, di cui  il giovane Mihail Sebastian subisce le prime odiose manifestazioni.
 Nel 1926-27  si trasferisce a Bucarest e si iscrive alla Facoltà di Diritto, che porta a  termine nel 1929. Nella capitale, che negli anni ’20 e in generale nel  periodo interbellico conosce un fervore culturale senza precedenti, Mihail Sebastian inizia a  collaborare a numerose riviste letterarie, periodici, quotidiani – è fra i  collaboratori di «Cuvîntul», diretto dal ʻmaestroʼ spirituale Nae Ionescu, anche  quando la pubblicazione diventa di fatto l’organo dell’ortodossismo e del  nazionalismo di destra romeno, attirando a Sebastian non poche critiche.
 È grazie al  sostegno di quest’ultimo che, nel 1930, parte per Parigi con lo scopo di  iscriversi al dottorato in diritto, progetto però che non si concretizza. Vi  resterà un anno e nonostante la brevità del soggiorno parigino, risulterà  essere fondamentale per lui come scrittore, perché qui concepisce tutti i suoi  romanzi, cui darà corpo dopo il suo ritorno in Romania – Fragmente dintr-un carnet găsit, 1932 («Frammenti da un quaderno trovato»), Femei, 1933 («Donne»), Orașul  cu salcîmi, 1935 («La città delle  acacie»), Accidentul, 1940 («L’incidente»)  –, anche se curiosamente il suo debutto avviene nel 1926 come poeta, con lo  pseudonimo di Eraclie Pralea, nella rivista «Lumea» di Iași.
 
 Il suo  essere ebreo e l’antisemitismo che compenetra gli strati della società romena a  ogni livello, tanto negli ambienti conservatori come in quelli liberali, sono  le ragioni che portano Mihail Sebastian a pubblicare, nel 1934, su incoraggiamento dello  stesso Nae Ionescu, cui Sebastian chiede di scrivere la prefazione, De două mii de ani («Da duemila anni»),  romanzo autobiografico, «ebraico», come è egli stesso a definirlo, che suscita  un enorme scandalo dovuto in primo luogo appunto alla prefazione firmata da N.  Ionescu, rigurgitante di un antisemitismo estremo – in sostanza un vero e  proprio libello dell’antisemitismo –, in totale contrasto con il messaggio  contenuto nel libro. Sebastian si attira così gli strali polemici sia dei nazionalisti  romeni, per aver osato provocare la sensibilità romena su un tema tabù, sia  della comunità ebrea, per aver dato voce in modo incosciente agli istinti antiebraici  più bassi dell’intellettualità nazionalista. La difesa di Sebastian a questi attacchi incrociati  sarà il tema del pamphlet, pubblicato alla fine dello stesso anno, intitolato Cum am devenit huligan («Come sono  diventato un huligano»), in cui riconosce la sua ingenuità intellettuale, ammettendo  di non essersi reso conto del cambiamento di clima che è sopravvenuto tra il  1931, quando aveva chiesto la prefazione a Nae Ionescu, e il 1934, anno della  pubblicazione del libro, anni in cui l’Europa, fagocitata di lì a poco dal  cancro nazi-fascista, si sposta decisamente verso destra.
 Gli anni  ’30, con la radicalizzazione del clima politico romeno e il sorgere di gruppi di  estrema destra violentemente nazionalistici, antiliberali e antisemiti, primo  fra tutti la Guardia di Ferro, cui aderiranno o si avvicineranno il maestro Nae  Ionescu e il suo amico Mircea Eliade – un’amicizia che s’incrinerà fino alla  rottura, anche se idealmente, forse, non si è mai spezzata –, segnano  profondamente l’esistenza privata e pubblica di Mihail Sebastian. È nella prima metà (1935) di  quel terribile decennio che il nostro autore inizia a tenere un diario, non pensato per  essere pubblicato (è rimasto inedito fino alla sua pubblicazione nel 1996), in  cui riverserà ogni aspetto del proprio vissuto fino al 1944, interrotto purtroppo  dalla sua tragica morte, avvenuta il 28 maggio1945, in seguito a un incidente  stradale.
 
 Ritornando  alla sua opera, la produzione drammaturgica segue quella in prosa, che ne è  stata l’anticamera incubatrice, per così dire, sebbene i suoi interessi per il  teatro si siano palesati fin dagli anni giovanili – è noto l’episodio della sua  fuga a Bucarest, nel 1923, per assistere a uno spettacolo della Compagnia  Pitoeff – interessi che trovano poi un loro riscontro nelle rubriche di  cronache teatrali tenute in numerose riviste.
 Il primo successo  teatrale di Sebastian è la stata la commedia in tre atti Jocul de-a vacanța («Il gioco delle vacanze»), scritta nel 1936, la  cui prima messa in scena avviene nel 1938. Di un maggiore successo di pubblico  godrà la sua seconda commedia, Steaua  fără nume («La stella senza nome») – che sarà anche adattata per il cinema,  nel 1965, per una produzione franco-romena, con la regia di Henri Colpi) – che va  in scena nel 1944, sotto lo pseudonimo di Victor Mincu, a causa delle leggi  razziali, introdotte dal regime del generale Antonescu, che vietano agli autori  ebrei di pubblicare col proprio nome. Le ultime due commedie, invece, sono  state rappresentate postume: Ultima oră,  1946 («Ultime notizie») e Insula («L’isola»),  quest’ultima rimasta incompiuta.
 «Diario 1935-1944»*  Il Diario  di Mihail Sebastian è stato accolto unanimemente alla sua uscita dalla critica romena e straniera  come un vero e proprio evento letterario, tanto che, a pochi anni dalla  pubblicazione, è stato tradotto in molte lingue (inglese, francese, spagnolo,  tedesco, polacco, ceco), raccogliendo premi letterari (in Germania, nel 2006,  il libro ha vinto il premio letterario Geschwister-Scholl) e suscitando un vivo  dibattito fra storici e critici letterari. Nel 2007, si sono celebrati i cento  anni dalla nascita dell’autore, evento che è stato salutato nel mondo da  simposi e giornate di studi (in Israele, per esempio, si è tenuta il 24-25  ottobre 2007 presso il Centro di Studi sulla Storia degli Ebrei di Romania  dell’Università Ebraica di Gerusalemme un affollatissimo convegno internazionale  («Mihail Sebastian: scrittore romeno – scrittore ebreo») cui hanno partecipato  critici e studiosi romeni e israeliani).Mihail Sebastian abita in  un appartamento affacciato sul frenetico e pulsante Viale della Vittoria (l'autore lo  annota il 19 novembre del 1938, due giorni dopo il trasloco), luogo-simbolo, in  pieno centro, della Bucarest cosmopolita e vibrante della Romania di quegli  anni. Aveva iniziato a scrivere il suo diario nel 1935, a ventotto anni, in un  momento cruciale della sua vita: è, infatti, appena trascorso un anno dalla  pubblicazione del suo romanzo Da duemila  anni con la «scandalosa» prefazione di Nae Ionescu, in cui il filosofo, suo  mentore, giustifica l’antisemitismo, ed è ancora viva l’eco delle feroci polemiche  che lo hanno visto al centro delle accese critiche che gli piovono da destra e  da sinistra attorno alla sua ebraicità nella Romania di allora, giunta a un  crocevia drammatico della sua storia, alle soglie dello scoppio della seconda  guerra mondiale, una Romania in ebollizione politica, con due opposti  schieramenti divisi fra l’estrema destra xenofoba, antisemita e mistica e  l’estrema sinistra bolscevica e massimalista. Nell’accingersi quindi a redigere  il suo diario, Sebastian educato e imbevuto della cultura francese, come ogni  intellettuale romeno dell’epoca, con la mente idealmente rivolta agli esempi  della memorialistica lasciati da André Gide e Jules Renard, sente che nel suo  caso si va oltre, in primo luogo perché è chiaro fin dal principio che non  lo progetta per essere destinato al pubblico, bensì come un personalissimo e  intimo, quotidiano resoconto della sua esistenza, nel quale riversare tutto,  assolutamente tutto. Come già è stato fatto notare dalla critica autorevole,  nel diario di Sebastian sono ravvisabili diversi tipi di registri: si va da quello  intimista, a quello letterario o creativo, fino a quello intellettuale e  politico.
      È proprio  quest’ultimo che risalta forse più degli altri, che più interesse suscita negli  studiosi per la testimonianza diretta e puntuale dell'autore.
 
 Soffermiamoci  quindi sull’arroventato clima politico di quegli anni che non poteva non  incidere nei rapporti personali, e questo è quanto mai avvertibile in primis nei confronti dell’amico  Mircea Eliade – uno dei «protagonisti» del Diario –, rapporti che si sgretolano man mano che l’ideologia legionaria obnubila la  mente di questi. È un fatto che amareggia e sconcerta Sebastian. Si leggano queste  annotazioni significative, fra le molte altre, che possono dare l’idea della  spirale di crescente tensione che s’instaura fra i due nel corso degli anni:
 Mercoledì, 27 [novembre,  1935]
 «E per  rimanere in politica, dovrei ancora annotare la breve e accesa discussione che  ho avuto lunedì sera con Mircea, al “Continental”, dopo lo spettacolo a teatro.  Non è la prima volta. E sto notando da parte sua un continuo scivolamento verso  destra. Quando siamo in due, ci intendiamo ancora abbastanza bene. In pubblico,  invece, le sue posizioni di destra si fanno estreme e categoriche. Mi ha detto  dritto in faccia, con inusitata aggressività, uno sproposito bell’e buono:  “Tutti i grandi creatori sono di destra”. Né più, né meno. Ma non permetterò  che dissensi del genere oscurino, si trattasse financo di un’impressione, il  mio affetto nei suoi confronti. In futuro eviterò di sollevare “dispute politiche”  con lui»;
 Venerdì, 25 [settembre 1936] «Vorrei che eliminassimo dalle nostre discussioni ogni allusione  politica. Ma è possibile? La strada è in salita per noi, che lo si voglia o no,  e riflettendo insieme anche sulle questioni più insignificanti, avverto il  solco che sempre di più ci separa l’uno dall’altro. Perderò Mircea per così  poco? Posso dimenticare tutto quello che di eccezionale c’è in lui, la sua  generosità, la sua forza vitale, la sua umanità, il suo affetto, tutto quello  che c’è di giovanile, di infantile, di sincero in lui? Non so. Avverto tra noi  silenzi imbarazzanti, che nascondono solo a metà i chiarimenti da cui  sfuggiamo, perché probabilmente entrambi li percepiamo, e in me le delusioni si  accumulano sempre di più, tra cui non ultima la sua collaborazione  (tranquillamente, come se nulla fosse accaduto), con gli antisemiti di “Vremea”.  Farò comunque l’impossibile per tenermelo vicino». Martedì, 2 [marzo 1937] «Lunga discussione politica con Mircea, a casa sua. Impossibile da  riassumere. È stato lirico, confuso, prodigo di esclamazioni, di battute, di  invettive... Da tutto questo estrapolo solo il momento in cui dichiara,  finalmente in modo sincero, la sua infatuazione per la Guardia, confidando in  lei e aspettandone la vittoria. Giovanni il Terribile, Michele il Bravo,  Stefano il Grande, Bălcescu, Eminescu, Hajdeu, tutti sono stati legionari alla  loro epoca. Mircea li citava alla rinfusa... D’altronde non potrei affermare  che non mi sia divertito. Secondo lui, gli studenti che hanno aggredito a  pugnalate Traian Bratu [1], ieri sera a Iași, non sono legionari, bensì... o comunisti  o simpatizzanti del Partito Nazional Contadino. Testuale. Per quanto riguarda  Gogu Rădulescu (il signor Gogu, così lo chiama ironicamente Mircea), lo  studente liberale che è stato frustato con funi intrise d’acqua nella sede dei  legionari, ben gli sta. Questo è quel che si meritano i traditori. Lui, Mircea  Eliade, non si sarebbe accontentato di così poco, anzi, gli avrebbe cavato gli  occhi. Tutti coloro che non sono legionari, tutti coloro che perseguono una  politica che non sia quella legionaria sono dei traditori della patria e  meritano la stessa sorte. Verrà un tempo in cui forse rileggerò queste parole e  non mi parrà vero che esse riassumono quanto detto da Mircea. Per tale ragione  è bene sottolineare ancora una volta che ho solo riportato le sue esatte  affermazioni. Questo nel caso in cui me le dimentichi. E forse un giorno,  quando le cose si saranno placate, potrò leggere a Mircea questa pagina e  vederlo arrossire di vergogna. Tanto meno posso dimenticarmi della spiegazione  in base alla quale lui aderisce con tanto ardore alla Guardia:-  “Io ho sempre creduto nel primato dello spirito”.
 Non è né un  ciarlatano, né un demente. È semplicemente un ingenuo. Ma esistono ingenuità  così catastrofiche!»
 Ma  nonostante la tensione che aleggia su loro, il forte legame d’amicizia e di  solidarietà che lega Mihail Sebastian a Eliade non viene meno nei momenti più drammatici,  come dopo il suo rilascio dal carcere di Miercurea-Ciuc, anche se il muro di  gomma tra i due sembra non cedere; le considerazioni di Sebastian sono a tal proposito  lapidarie nella loro disperazione, la disperazione di vedere un amico travolto  dai suoi stessi errori di valutazione, dal suo avventurismo:  Lunedì, 25 [settembre 1939] «(…) Nel  pomeriggio sono stato a casa di Mircea. La mattina avevo incontrato Nina alla  Fondazione, pallida, in lacrime, che si torceva le mani:“Ammazzeranno anche Mircea, non  permettere che lo uccidano”.
 Sono andato  a casa da loro perché so che ora nessuno ha il coraggio di incontrarli. Tutto  ci divide, certo, assolutamente tutto, ma fra me e me dicevo che gli avrebbe fatto  bene al morale il fatto di conversare con qualcuno, fosse anche con me. L’ho  trovato molto più disteso, più tranquillo. Rosetti parlerà con Ralea, con  Iamandi, e forse con qualcuno ancora più in alto, per poter mettere Mircea al  riparo. Abbiamo espresso insieme il nostro rammarico, ma ciascuno in un modo  diverso. A me sembra di essere moralmente molto più legittimato di lui nel  sentirmi afflitto. Difatti lui, in un modo o nell’altro, ha voluto, ha  consentito tutto ciò. Oggi però ha un atteggiamento sprezzante. “Atteggiamento”  è parola troppo grossa. Resti di un atteggiamento, di una collera a mala pena  trattenuta, di una profonda repulsione, di un odio terribile, che vorrebbe  gridare e non può farlo. Mi ha detto che la repressione in atto è criminale, “ora,  quando il nemico è alle porte”. Ma l’assassinio di Armand Călinescu non è  avvenuto comunque “con il nemico alle porte”? E dopo che gli ho posto questa  domanda, lui ha fatto spallucce. Non sono andato da lui per discutere né per  pretendere di avere ragione. Non è adesso il momento di saldare i conti fra  noi. Forse più tardi, quando tutto sarà passato, se saremo ancora vivi. Ho  l’impressione che ciò che aspetta lui adesso, come una sorta di disperata  vendetta, sia un’invasione tedesca o russa.
 “Credo nel futuro del popolo  romeno”, diceva, “ma lo stato romeno dovrà scomparire”.
 Me ne sono  andato irritato. Il mio tentativo di comunicare con lui, di essergli di aiuto,  di fargli sentire che non è stato abbandonato, è fallito».
 Mihail Sebastian nel  suo per Diario ci dà modo di incrociare  anche Eugen Ionescu ed Emil Cioran, che con Eliade formano la più prestigiosa triade  dell’élite intellettuale romena della generazione interbellica. Di Cioran ci  sono solo alcune annotazioni, poche ma taglienti – in pratica, lo dipinge come  un opportunista; ne citiamo le due salienti:
 Giovedì, 2 gennaio [1941]
 «Questa  mattina ho incontrato Cioran per strada. Era raggiante. “Sono stato nominato”. È  stato nominato come addetto culturale a Parigi. “Capisci”, dice, “se non fossi  stato nominato, se fossi rimasto qui, sarei dovuto partire sotto le armi.  Proprio oggi ho ricevuto la cartolina precetto. Ma non mi sarei presentato per  nessuna ragione. In questo modo, però, tutto è stato risolto. Capisci?” Certo  che lo capisco, caro Cioran. Non voglio essere cattivo con lui. (E soprattutto  non qui: a che servirebbe?) È un caso interessante. È molto più di un caso: è  un uomo singolare, notevolmente intelligente, senza pregiudizi e con una doppia  dose di cinismo e di vigliaccheria, comicamente fuse insieme. Avrei voluto, e  ne sarebbe valsa pena, annotare le due lunghe conversazioni scambiate con lui  in dicembre».
 Mercoledì, 12 febbraio [1941]
 «Nonostante  abbia preso parte alla rivolta, Cioran mantiene il suo incarico di addetto  culturale a Parigi, che gli aveva conferito Sima pochi giorni prima della  caduta del governo. Il nuovo regime lo beneficia con un aumento di stipendio!  Partirà fra qualche giorno. Eh, questa sì che si chiama rivoluzione!» Di Ionescu,  con il quale Sebastian intrattiene rapporti più in sintonia con il suo sentire, il nostro autore ci  offre uno squarcio nella sua storia personale, una confessione a lui rivolta in  una situazione particolare, eccola: Sabato,10 febbraio [1941] «Sabato  mattina Eugen Ionescu, ubriacatosi rapidamente dopo solo qualche cocktail, di  punto in bianco si è messo a parlarmi di sua madre. Che fosse ebrea, lo sapevo  da un pezzo, per sentito dire, e pertanto era una questione chiusa tra noi due.  Stordito dall’alcol, il ragazzo ha iniziato a “spifferare tutto”, con non so  quale sollievo, quasi sgravandosi di un peso che lo stesse opprimendo o  soffocando. Sì, era ebrea, di Craiova, il marito l’aveva lasciata, da sola, con  due bambini piccoli, in Francia; è rimasta ebrea fino a quando, in punto di  morte, lui, Eugen, l’ha battezzata con le sue stesse mani. Poi, proseguendo  imperterrito, mi ha parlato di tutti quelli che sono “ebrei” senza che lo si  sappia: Paul Sterian, Radu Gyr, Ignătescu… Li invocava uno a uno, quasi con  fastidio, come se volesse vendicarsi di loro o smarrirsi, inosservato, nella  loro vasta congerie. Povero Eugen Ionescu! Quanto travaglio, quanta sofferenza,  quanti sotterfugi per una cosa di così poco conto. Avrei desiderato dirgli  quanto mi stessi affezionando a lui, ma era troppo ubriaco per fare il  sentimentale con lui». Mihail Sebastian coglie altrove  il momento di disperazione di un Ionescu sconvolto, colpito anche lui dalle  leggi razziali che non concedono sconti neppure a chi si credeva immune dalla  demenza razzista, e con il quale Sebastian «solidarizza» con l’amarezza, quasi ironica,  di chi sa bene che cosa significhi: Mercoledì, 26 marzo [1941] «(…) Commovente,  Eugen Ionescu [è] stato da me di nuovo ieri mattina, disperato, braccato,  ossessionato, che non può sopportare l’idea di poter essere sbattuto fuori  dall’insegnamento. Un uomo sano come un pesce che scopre di colpo di avere la  lebbra può impazzire. Eugen Ionescu scopre che neppure il cognome “Ionescu”,  neppure un padre incontestabilmente romeno, neppure il fatto di essere nato  cristiano, insomma nulla, nulla, nulla può cancellare la maledizione che nelle  sue vene scorra sangue ebreo. Noi, affetti da questa cara lebbra, ci siamo  abituati già da tempo. Fino alla rassegnazione e a volte fino a non so quale  triste, desolante sentimento di fierezza».   In pieno  furore nazista, Mihail Sebastian ci testimonia la sua consonanza personale, il suo sentirsi  partecipe emozionalmente nei confronti di Eugen Ionescu in questo episodio: Venerdì, 3 ottobre [1941] «(…) Hitler  ha parlato questo pomeriggio. Ero con Eugen [Ionescu] e Rodica a Cișmigiu, verso le 6 di  sera, proprio nel momento in cui si trasmetteva il discorso. Ci siamo diretti  al “Buturugă” (dove c’è un apparecchio radio) e ci siamo seduti a un tavolo. Avrei  voluto ascoltarlo, ma dopo due secondi Eugen è scattato in piedi. Era pallido,  sbiancato in volto.– Non ce la faccio! Non ce la faccio!
 Lo diceva con  un non so che di disperazione fisica. È scappato via e, ovviamente, noi gli  siamo andati appresso. Avrei voluto abbracciarlo. (…)»
 
 Ecco quindi  come, da questa scelta di pochi, ma illuminanti squarci, siamo presi per mano e  condotti nel fluire del tempo di Mihail Sebastian, in un continuo susseguirsi di vicende  pubbliche e private, incontrando nomi celebri della crema culturale romena, che  si snodano lungo un decennio, impastate con il vissuto quotidiano che si  intreccia attorno all’evolversi degli eventi politici, sociali, culturali della  Romania, e dell’Europa, di quegli anni, aprendosi a noi, e non sembri azzardato  il paragone, come una sorta di diretta televisiva, come una finestra spalancata  su tutta una serie di eventi, piccoli o grandi, lieti o tragici, il cui  prezioso testimone è Sebastian, con le sue idiosincrasie, le sue ingenuità, i suoi  entusiasmi, i suoi momenti di desolazione o di gioia di vivere.
 Il diario  di Mihail Sebastian può essere letto perciò come uno straordinario documento storico, vivo,  diretto, a volte impressionante per la sua crudezza per il modo in cui coglie e  fotografa quel dato avvenimento, restituendocelo in tutta la sua drammaticità: eloquenti  sono a tal riguardo, fra tanti altri, i passi che Sebastian dedica al terrificante pogrom  di Bucarest del gennaio del 1941 (cui farà seguito in giugno quello altrettanto  atroce di Iași), con assassinii efferati, bestiali, che lo lasciano quasi senza  parole, inebetito da tanta violenza; eccone i passaggi più sconvolgenti: Mercoledì, 29 gennaio [1941] «Oggi è  stato reso noto il numero ufficiale dei morti civili. Un po’ più di trecento.  Non si specifica quanti fra legionari ed ebrei. La stima sembra al ribasso. Si  continua ancora a parlare di oltre seimila morti ebrei. Forse è impossibile  quantificare la cifra con esattezza. E forse non la si saprà mai. Parecchi  ebrei sono stati uccisi nella foresta di Băneasa e lì abbandonati –  molti di loro denudati. Sembra però che ne sia stato massacrato un altro gruppo  nel mattatoio di Străulești. Sia gli uni che gli altri, prima di essere  freddati, probabilmente sono stati mutilati in modo orrendo. La famiglia a stento  è riuscita a riconoscere il fratello di Jacques Costin all’obitorio. Solo alla  testa aveva quattro fori. L’avvocato Beiler era crivellato di colpi e, per  giunta, aveva la gola tagliata.  Ci sono casi di persone scampate per  miracolo. (Aderca, per un’ingenuità che rasenta il comico,  trovandosi non si sa come in via Burghelea 3, sede di un circolo legionario, da  pacifico cittadino ha bussato alla porta per chiedere informazioni! Ne è stato  tratto in salvo la sera, pesto, ma vivo!, mentre altri, nello stesso luogo e  nello stesso giorno, erano stati uccisi.) Il caso più sconvolgente di cui abbia  avuto notizia fino a oggi è quello di un avvocato, Mircea Beiner, prelevato in  strada martedì mattina, portato a Băneasa, dove gli hanno sparato alla nuca, e lasciato  lì in piena notte, sulla neve, mezzo morto – per poi svegliarsi, verso l’alba,  per il freddo, in mezzo ad alcune altre centinaia di cadaveri, dei quali solo  lui e altri tre non erano stati del tutto fatti fuori. Semplicemente incredibile!  (…)»
 Giovedì, 30 gennaio [1941] «Vedo case  devastate, negozi ridotti in macerie in strade affatto ebree, fin dove mai  avrei creduto che l’ondata del pogrom si sarebbe potuta abbattere nel corso di  una sola notte. Per esempio, questa mattina, una misera botteguccia in via  Traian, vicino alla fermata del tram: mi ha fatto pensare ancora una volta  atterrito a quel che sarebbe potuto accadere mercoledì notte, a casa. Ci sono  persone che, come me, hanno passato quella notte lontane dalle proprie famiglie  – e il giorno dopo non hanno trovato più nessuno, più niente. Rivedo, rivivo  integralmente il terrore di quella notte (…)». Martedì, 4 febbraio [1941] «Non posso  né voglio dimenticare gli orrori che abbiamo vissuto. Sto leggendo dalla Storia  degli ebrei di Dubnow i capitoli sui grandi pogrom della fine del medioevo. Da  alcuni giorni continua a essere la mia unica lettura. Sia che la cifra  ufficiale sia vera (circa 300 ebrei assassinati), sia che essa, molto più  grande di quanto si mormori (600-1000), corrisponda a quella effettiva, sta di  fatto che, o così o diversamente, abbiamo vissuto uno dei più immani pogrom  della storia. È vero che ci sono stati momenti, in passato, in cui la  carneficina è stata comunque maggiore (durante la prima crociata ne sono stati  uccisi 800 a Speyer e 1100 a Magonza – e così moltissimi altri quasi in tutta  Europa, nell’anno della peste, Das schwarze Tod, del 1348,) – ma di solito la  cifra media dei pogrom abituali risulta assai minore – 50, 80, 100 morti,  queste sono le cifre che si incontrano nei martirologi ebraici, e Dubnow dedica  a volte lunghi passaggi perfino a eccidi di minori proporzioni, rimasti  comunque nella memoria.Quello che  fa raggelare il sangue specie nella carneficina di Bucarest è la ferocia  assolutamente bestiale con cui si è svolta. Essa si riverbera finanche nelle  parole così fredde del comunicato ufficiale, che giorni fa ha reso noto che nel  bosco di Jilava sono state assassinate 93 persone (ultimo eufemismo per ebreo:  “persona”) la notte del 21 marzo. Ma ciò che si racconta è molto più  raccapricciante di ciò che viene comunicato ufficialmente. Ora è dato di sapere  con assoluta certezza che gli ebrei trucidati a Străulești sono stati appesi  per la gola agli uncini del locale mattatoio, al posto delle carcasse degli  animali macellati. Su ciascun cadavere è stato appiccicato un foglio con su  scritto: “carne kosher”. Quanto a coloro che sono stati assassinati nel bosco  di Jilava, prima sono stati denudati (perché era un peccato lasciar lì i loro  vestiti!) e poi finiti a pistolettate e scaraventati uno sopra l‘altro. Non  trovo in Dubnow episodi più terrificanti di questi (…)».
 Oppure di  quando viene a sapere della notizia della caduta di Parigi sotto il giogo  nazista, un fatto sconvolgente, amaro, una ferita insopportabile:  l’immagine della sua Parigi, impressa nella memoria del soggiorno giovanile, ne  esce ora brutalizzata, sporcata per sempre: Lunedì, 17 [giugno 1940] «La Francia  ha deposto le armi! Pétain, che  questa notte ha preso il posto di Raynaud, ha annunciato oggi alle due che  “tenterà” di mettere fine alle ostilità. Tramite la Spagna, ha chiesto ai  tedeschi che gli siano comunicate le condizioni della capitolazione. Hitler  chiede una resa senza condizioni. Tutto ciò è come la morte di un essere caro.  Non si comprende come sia potuto accadere, non ci si crede a quel che è  accaduto. La mente è bloccata, il cuore non sente più nulla. Ci sono stati  momenti in cui ero lì per prorompere in lacrime. Vorrei poter piangere».
 Ma poi ci  sono gli squarci sulle «minuzie» della vita privata: i suoi amori, la sua vita  erotica, le sue difficoltà finanziarie, il rapporto con la madre e il fratello  maggiore Poldy, che vive in Francia – per il quale teme il peggio durante  l’occupazione nazista del Paese –, la trepidazione per la messa in scena delle  sue commedie, la passione per la musica classica – con minuziose e puntuali descrizioni  di concerti, cui assiste personalmente, e di brani musicali ascoltati alla  radio, dai quali emerge tutta la sua sensibilità da melomane –, le  gite in montagna trascorse, da solo o in  compagnia, a sciare – il suo sport preferito (che troviamo in Jurnal de schi, all’interno del Diario: è una selezione di annotazioni  relative agli anni 1937-1938, rimaneggiate da Sebastian, le uniche a essere pubblicate  nel 1938 sulla rivista «Lumea românească») –, e poi la vita in caserma, i  rapporti con gli amici, le assurde angherie delle leggi razziali, entrate in  vigore sotto lo stato nazional-legionario del maresciallo Antonescu, descritte  da MS nella loro progressiva assurdità, insomma un affresco dell’esistenza  ritratto con ampie pennellate, cariche dei colori dei sentimenti più intensi e palpitanti.Mihail Sebastian con il  suo diario ci ha restituito un macrocosmo di situazioni, di vicende personali,  di personaggi, di scorci storici assolutamente affascinante, che cattura il  lettore dalla prima all’ultima pagina, come se non ci fosse la pagina scritta  di fronte a noi, ma un interlocutore con cui comunichiamo, con cui soffriamo e  di cui intuiamo le debolezze, le passioni, la generosità d’animo: in parole  povere, un uomo, in fondo, come noi, del nostro tempo, della nostra storia  passata, che ha sperimentato sulla propria pelle l’eterno gioco della vita.
 * Jurnal  1935-1944,prima  edizione del manoscritto inedito, Humanitas, Bucarest 1996
 [1] Germanista e rettore dell’Università di Iași negli anni 1932-1938.
 
 
 A cura e traduzione  di Mauro Barindi(n. 9,   settembre 2013,  anno III)
 
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