«Morte di un ballerino di tango». Stelian Tănase e la Romania innocente

Stelian Tănase (1952) è una figura intellettuale poliedrica: oltre a essere uno scrittore versatile, è stato ed è anche una personalità di spicco della scena pubblica e politica della Romania. È stato fra i primi intellettuali a scendere in piazza durante la Rivoluzione dell’89 e, negli anni immediatamente dopo, è entrato a far parte del Gruppo per il Dialogo Sociale, diventando in seguito vicepresidente del Partito dell’Alleanza Civica, un’attività politica che l’ha portato con le prime elezioni democratiche anche al Parlamento come deputato (legislatura 1992-96), eletto nelle liste della Convenzione Democratica.
Formatosi come storico e sociologo (attualmente è professore alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bucarest ed è stato invitato come conferenziere in Europa e negli Stati Uniti, paese di cui ha usufruito di prestigiose borse per studi di ricerca), si è profuso anche in un ricco ventaglio di attività: sceneggiatore (di vari documentari sulla storia recente, tra cui merita di essere ricordato quello sulla tragedia degli ebrei romeni imbarcati a Constanţa sulla Struma, diretta in Palestina e colata a picco nel Mar Nero nel 1942), realizzatore di trasmissioni culturali e di attualità per vari canali televisivi, di giornalista e di opinionista, conduttore e moderatore egli stesso di programmi radio e tv di approfondimento politico (specie in questi ultimi anni per Realitatea TV, emittente da cui però di recente si è staccato non senza qualche polemica dopo più di un decennio di collaborazione), fondatore e caporedattore della rivista di studi politici «Sfera politicii»e caporedattore nel 1990 della rivista «22».
È autore di numerosi volumi di saggistica e memorialistica, tradotti anche all’estero (fra cui Clienţii lu’ Tanti Varvara / «I clienti di Zia Varvara») proposto in inglese nel 2007 negli Stati Uniti e in seconda edizione nel 2010 in Inghilterra, stesso anno della traduzione in spagnolo). Come autore di prosa annovera già cinque romanzi: il debutto avvenne nel 1982 con Luxul melancoliei («Il lusso della malinconia»); seguirono Corpuri de iluminat («Corpi al buio»), Playback (scritti ancora sotto la dittatura, vennero bloccati dalla censura), Maestro, Dracul și mumia («Il demonio e la mummia»), più volte riediti. Menzioniamo infine il suo ultimo e settimo romanzo dal titolo Skepsis – cartea cu povești («Skepsis – il libro di racconti») edito dalle edizioni Trei nel 2012. Il romanzo che qui presentiamo, Moartea unui dansator de tango («Morte di un ballerino di tango»), uscito nel 2011 presso le edizioni Trei, sarà pubblicato in Italia da Atmosphere Libri.

Un romanzo di respiro «dickensiano»

Bucarest, anni ’40: questo è lo scenario su cui si staglia la figura di Gogu (Georgel) Vrabete, detto Tango, sorta di «pícaro» balcanico della mahala bucarestina, splendido protagonista di questo romanzo di respiro «dickensiano» – così l’ha definito lo stesso Stelian Tănase – sullo sfondo di una Romania in procinto di perdere la sua innocenza, colta in quel limbo, in quel purgatorio inverso che conduce dall’Eden, o quasi, degli anni della fine del periodo d’oro interbellico, agli inferi del durante e del secondo dopo-guerra. Gogu Vrabete è l’eroe maledetto e aureolato, lo scioperato, il ballerino di tango che sogna la gloria, il gigolo, la simpatica canaglia, il damerino, il pappone dai capelli unti di brillantina, il macabro mariuolo, che per troppa ambizione e furberia vedrà finire prima ancora di veder cominciare la sua rutilante traiettoria di dongiovanni e di ruffiano tanguero sulle piste da ballo delle promiscue, malfamate e fumose balere che pullulavano in quel triangolo d’oro del vizio e del malaffare dell’urbe valacca che si estendeva da viale Griviţa a viale Buzeşti passando per Gara de Nord.
Rimasto mutilato al tendine in seguito a un intervento malriuscito per evitare di essere spedito al fronte russo, Gogu Vrabete, ora claudicante ed eclissatasi per sempre l’agognata carriera di ballerino di tango internazionale, come un’Araba Felice risorge e si reinventa una vita fatta di mille espedienti furbeschi e malavitosi. A un certo punto, spinto dalla necessità, ne escogita uno che è degno di un film di Quentin Tarantino: recupera da sotto le macerie prodotte dai bombardamenti degli Alletati su Bucarest cadaveri squartati – arti, teste e torsi – che cuce insieme come in un lugubre puzzle spacciandoli per le sfortunate vittime della guerra a uso dei familiari che possono così avere l’illusione di dare un ultimo e pietoso addio ai propri cari dati per dispersi, con tanto di carro funebre trainato da un tiro di cavalli bianchi e di fanfara a lutto. Ma oltre al «necrofilo» giro d’affari, per poter campare, Gogu Vrabete s’infila nel giro del contrabbando (traffica in tutto: dalle sigarette ai medicinali e all’olio d’oliva), fa il tenutario di bordelli, partecipa a rapine (e per questo finirà al fresco), viene accusato di due omicidi (quello del suo acerrimo nemico e rivale in amore, il bisex «brunetto e focoso» Pedro Ruiz y Rocha, ballerino anche lui, e del generale sovietico Maksim Bubnov), s’infatua perdutamente di una delle gemelle show-girl Olševskij, Larissa,  e così via, in una girandola di altri variopinti personaggi e di incredibili peripezie che s’intersecano in un connubio gustoso e scoppiettante con la finzione e la realtà storica della Romania di quegli anni in piena seconda guerra mondiale, al pari di un vorticoso, languido tango dal sapore d’antan, un Kriminal tango, «peccaminoso e dal brivido arcano»… come cantava Fred Buscaglione.
Lo scrittore, dando fondo a una lingua succulenta, insinuante e veloce, inventa una storia diabolicamente vintage, come un film in bianco e nero di pupe e gangster, da dove trasudano in un flusso ininterrotto sesso e violenza, odio e amore, furbizia e ingenuità, storia e finzione, tutti ingredienti del cocktail perfetto per un romanzo sorprendente e spietato.   


Da «Morte di un ballerino di tango»

Capitolo 1

1.

Cf. nota informativa 41/03/, fonte Ioan, DGP, gli zoppi hanno fifa dei cani. Chi lo avrebbe detto, vedendolo sbiancato in volto come uno straccio, che fra loro ci fosse niente meno che Gogu Vrabete, detto Tango? Lui non si mischiava con i tizi della Galleria Macca, dove prosperava la borsa nera, ma da piazza Matache Măcelarul fino a piazza Chibrit era uno che contava. Lo scherzo dei cani aizzatigli contro, all’uscita dal cinematografo, era opera degli invidiosi. Cairo, Prafu Jumară, Nazarie e il signorino Mişu Banu. Gli si facevano attorno come degli indiavolati. Lui li apostrofava con qualche battuta e pizzicava il culo alle signore. Quando i cani finivano di abbaiare, rideva fino a diventare paonazzo. E solo allora scacciavano via i cani! Ridevano così tanto da tirar giù la Stazione Nord. Gli facevano lo stesso tiro anche quando, uscito dal locale, ammaliava una dama perché lo portasse in una stanza dell’Hotel Bristol. Si bloccava come una statua. Gli diventava paonazza anche la camicia da sbruffone che indossava. Attraverso le pareti filtravano le note di Jealousy. Ne riconosceva gli accordi in mezzo a un milione. Un tempo desiderava ballare su un vero palcoscenico. Tutto però andò a catafascio un giovedì. Dovete immaginarvelo, Gogu è stato il beniamino delle sale da ballo. Quando faceva la sua comparsa, con il suo vitino da vespa, aaaah. Batteva  i tacchi facendo zac. Si allacciava alla sua dama con passione. Beh, faceva sfracelli, sul serio!
A quei tempi felici conduceva una doppia vita. Dal lunedì al venerdì era impiegato dalle parti di via Filantropia. Bazzicava ogni tanto alle corse. Aveva alcuni cavalli preferiti: Grette, April, Scheggetta. Era sempre al verde. Andava agli incontri di boxe e scommetteva. Iellato com’era, non rimediava mai niente. Aveva lavorato come ragazzo di bottega da Safarian, proprietario del caffè nella Galleria Villa Cros, non gli piaceva stare al bancone. Sognava per sé qualcosa di più grande. Eh, quello spiantato, più grigio di una pantegana – un emerito nessuno – il sabato e la domenica però si trasformava. Si sfilava la pelle da babbeo e risplendeva per alcune ore. Si presentava alla sala di Akim acchitato in un completo scuro a due pezzi a righine sottili sottili come quelle di una ragnatela. Con una rosa all’occhiello. Aveva certe cravatte. Saresti stato disposto ad ammazzare qualcuno pur di mettertene una al collo. Dove demonio le trovava? Una volta il commissario Ţepeluș lo acchiappò non per traffico di valuta e contrabbando. Voleva scoprire come si procurava quegli straccetti vellutati dalle tonalità grigio ferro, buccia di cipolla, ambra, prugna ottobrina. Il commissario, gran puttaniere, puntava su una dama del bel mondo, in viale Pake 34. Pensò di chiedere a Gogu una delle sue miracolose cravatte per avere un’aria da magnate. Da lui prese anche alcune lezioni di tango. Però lo schiaffò al fresco ugualmente. Si diceva che quella non gliela volesse dare. Il nostro Gogu si comportò eroicamente. Non sputò il rospo. Era lo stesso giorno in cui al Cremlino Ribbentrop & Molotov si congratulavano pasteggiando a champagne e caviale sotto lo sguardo da pesce lesso di Stalin. In quei drammatici momenti per l’Europa, Gogu veniva preso a sberle. Il mondo stava ammattendo. E allora?! In una periferia di Bucarest, alla polizia, si discuteva in tono acceso sul nodo della cravatta. Una settimana dopo i tedeschi mettevano in ginocchio la Polonia e Gogu ritornò alle sue faccende. Perse un sacco di ore ad ascoltare alla radio i comunicati da Londra. Parigi esprimeva la propria costernazione. Che c’entrava Gogu con l’Europa! Toglieva le forme dalle scarpe. Ne aveva di speciali, provviste di scricchio e doppi salvatacchi. Gli piaceva sentire il duro assito quando batteva il piede, pac.
Non raggiungeva la sala da ballo a piedi per non rovinare la tenuta da gala. Alla stazione conosceva qualcuno, un suo amico, che aveva l’automobile. Questi sapeva quando era il momento e si presentava per accompagnarlo. Una volta arrivato alla sala Akim, imitava Bogart quando scendeva dalla Packard. Quella scena del film gli era piaciuta alla follia. Dalla portiera socchiusa, per primo compariva il cappello. Appoggiava il piede e sgusciava fuori, dopo di che guardava a lungo attraverso il parabrezza. Un minuto, tanto bastava perché la gente accalcata sul marciapiede notasse che era arrivato. Eccolo sotto l’insegna Sala da ballo – lettere azzurre verdi violette, e accanto una coppia abbracciata su un manifesto alto quanto il pilone della luce. Gli altoparlanti con il volume al massimo provocavano agitazione in strada. Cavalieri e signorine, entrate! sbraitava un grassone Venite a vedere che gran orchestra, fisarmonica, chitarra, contrabbasso, piano Steinway, alla batteria Sergiu Malagamba. Bevande sopraffine a volontà, sifone ghiacciato, paté dello chef Zigu. All’ingresso era riconosciuto da alcuni tipi duri. Gli facevano largo pieni di deferenza. Quando lo vedevano, si mettevano in tasca i loro ceffi da attaccabrighe. Bravo! Gogu era il loro compare. Lo ammiravano talmente che li vedevi scodinzolare felici stringendogli la mano, togliendogli via un pilucco dal bavero, chiamandolo per nome. Si mettevano in mostra chiedendogli come stai stasera. Tutto in lui si doveva al ballo. Era il numero uno della sala. Ballerino eccelso, spocchioso, il corpo teso come un arco. Lanciava sguardi tenebrosi, inarcava il sopracciglio, un sorriso gli sfuggiva all’angolo della bocca come un mafioso. Assestava un buffetto al cappello. Figuratevi, le ganze si bagnavano tutte. Passava davanti ai picchiatori all’entrata come nei film con Clark Gable, mordicchiandosi i baffetti e tirandosi il lobo di un orecchio. Diceva: Hi, Salve! Con nonchalance, azzimato, imperturbabile come meglio si addice a uno sbruffone.
Una volta fatto il suo ingresso nella sala, veniva accolto dal maestro di cerimonie. Un russo caduto in disgrazia, Vasea, di Odessa, ricercato dai bolscevichi. Ne annunciava l’ingresso con la sua voce da basso come se fosse a un grande ballo moscovita, battendo il bastone sull’assito. Gli piaceva quella cosa. Poi, inchini, i miei rispetti, benvenuto, signor Vabrete. Il proprietario lo pagava a ore per montare tutta quella messinscena. Il russo lo ripagava alla perfezione. Molti venivano alla «sala da ballo Akim» proprio per essere annunciati in modo pomposo da quello spilungone allampanato vestito in abiti d’epoca. Gogu gettava lo sguardo sull’assito tirato a lucido, le sedie vuote, i capannelli di dame e cavalieri. Era il suo regno. S’intratteneva un minuto con i membri dell’orchestra. Si andava a sistemare al bancone. Birra Luther, braga [1] ambrata, selz ghiacciato. Se ne stava a chiacchierare con i Bogart, i Clark Gable, i James Cagney del quartiere. Le ragazze, sedute all’angolo opposto, si facevano aria con i ventagli nei loro vestiti vaporosi, carichi di nastri e volant. Ci trovavi, a seconda dei gusti, la Garbo, Rita Hayworth, Lana Turner, Mae West. Ognuna con il proprio dio preso a noleggio per due soldi al cinema «Marna». Gogu non si faceva mai vedere troppo presto, andava contro la sua dignità. Veniva quando le danze toccavano l’apice, puntualmente fra il quarto e il quinto brano, il massimo del raffinamento secondo il dettame protocollare. Sapeva vendere la propria merce. Una serata danzante senza Gogu Vrabete era inimmaginabile. Che ganzo! Tutti gli sguardi erano rivolti su di lui quando sbucava dalla porta. Il quartiere era pieno di case di rendez-vous, di osterie e di case di piacere con luci rosse. Di scantinati, di androni bui con puttane, cortili ombrosi con avventori seduti ai tavolini che contrattavano la tariffa. Risse ogni sera. Si affrontavano all’arma bianca per difendere il proprio onore. L’ultimo rimasuglio del codice dei cavalieri d’Europa lo trovavi in un angolo della Valacchia. Qui potevi incontrare Gogu Vrabete.         
Di notte il quartiere era più pericoloso che stare al fronte. Malavitosi, malfattori, tipi dalla mano pesante, ex pugilatori, delinquenti. Veniva gente anche da fuori, non solo i bellimbusti sparsi tra piazza Chibrit e piazza Matache Măcelarul. Si faceva notare Mişu Banu detto il Signorino. Che ci faceva lì un tipo di famiglia benestante come lui? Bella domanda. Eh! Ci veniva per impregnarsi del puzzo di sudore delle puttane. Andava in brodo di giuggiole nel sentire le trivialità da periferia. Quando ne sentiva una bella tosta, ti pregava gentilmente di ripeterla, con quella sua erre vellutata. Abbandonava una festa danzante in qualche taverna di lusso, tipo «Dancing Colorado» o «Fu Chang», per fiondarsi al volante della sua Hispano-Suiza, conosciuta da tutti i città, color verde uovo d’anatra, e fare tappa all’Akim. Altro individuo era il giornalista Nazarie. Che ci faceva lì? Dettagli morbosi, storie sulle ragazze dei bordelli. Scriveva servizi sensazionalistici su crimini, drammi sentimentali, rapine. Il suo feudo era la Stazione Nord e dintorni. Era esperto nello sguazzare nel torbido. E quando non trovava il dramma di cui aveva bisogno, ne inventava uno. Chi avrebbe potuto contraddirlo? C’era anche Prafu Jumara ritornato dall’America. Raccontava favole popolate da gangster, di gente fallita che la faceva finita gettandosi nel vuoto e di disoccupati che si mettevano in fila per un piatto di minestra. Poi, Rudolf Buză, che a quell’epoca era colonnello. Lo sorprendevi ad ascoltare storie che profumavano di fica, di alcol, di sangue, snocciolate da Moni Refec – Akim, all’anagrafe – il proprietario della taverna. Per Gogu Vrabete, l’idolo dell’incrocio di viale Griviţa con viale Buzeşti, l’universo era quella sala in cui le coppie scivolavano sull’assito tirato a lucido, con le sedie accostate alle pareti, popolate da signorine incipriate e con le labbra spalmate di rossetto, che agitavano ventagli di carta. Questi sono i personaggi del dramma. Sei soddisfatto? Ah, c’era anche Cairo, un gangster.

2.

L’orchestra di Ochialbi si metteva a strimpellare. Il suono era come il fumo di sigaretta. T’inoculava nell’anima una malattia incurabile. Poi si faceva appiccicaticcio, languoroso, funebre. In men che non si dica, le coppie gremivano la pista. Gogu se ne stava in disparte, aspettava che l’atmosfera si accendesse. Se ne stava appartato durante i primi tre, quattro tanghi. Il dio non s’immischiava nei giochi dei novizi. Si lasciava pregare dai cavalieri perché entrasse in pista. Alla fine s’inarcava e avanzava nella sala seguito da sguardi impazienti. Alcuni si auguravano che venisse fatto fuori a coltellate. In periferia era così che si regolavano le inimicizie. Gogu inarcava un sopracciglio, stringeva la mandibola, sputava fuori l’aria dai polmoni. Eseguiva l’inchino provato davanti allo specchio. A questo nessuno poteva resistere. Non ballava con chiunque: solo chi conosceva i passi ne aveva l’onore. Afferrava la dama per la vita, il gomito tenuto in alto, s’irrigidiva. Si facevano strada i primi accordi. L’accordéon sbuffava melanconico. La guardava con insolenza dritto negli occhi come in quel film argentino, Romance del diablo. Gogu l’aveva visto tremila volte. Dal polsino estraeva con superbia un fazzoletto immacolato come la Santa Vergine e lo stendeva sopra il palmo della mano. Era il massimo della raffinatezza nella sala Akim. Ballare il tango senza toccarla. Solo brividi, eccitamento, ti sentivi drizzare i capelli in testa. Da dove Diavolo era spuntato quell’individuo, perché lei era già che bell’e impazzita dai modi con cui la trattava il suddetto, cioè Gogu. Era molto più di un complimento o di una conversazione seduti nel giardino di un ristorante. Il diseur Bubu Felix cacciava un tremolo baritonale da bue sgozzato. Ti sentivi indurire i coglioni nelle brache. Avresti detto che altri non era se non Gardel stesso. Dapprima partivano le note della chitarra. Poi si svenava il violino, sospirava un pianoforte. La nostalgia, caso mai dovessimo immaginarci che Gogu sia mai stato un nostalgico, gli affondava gli artigli nel cuore. Gli faceva pulsare le tempie. Dopo pochi secondi cominciava a lievitare. Si rigirava leeentamente, a passi brevi, concisi, paziente, come l’angelo sul cancello del cimitero di Santa Venerdì. Il tango è una conversazione intima. I suoni ti sussurrano qualcosa all’orecchio. Poche parole, dure e appassionate. Ti viene confidato un segreto. Che non ti rimane molto da vivere. La donna incollata a te è la vita stessa. Sorbiscine il respiro, obbligala a sentire che il Diavolo vi sta osservando. Il tango lo sfiniva, ma la passione rimaneva intatta. Abbozzava un passo, ne aggiungeva un altro, girava sui tacchi. La guardava intensamente. Con uno scatto girava superbo la testa di lato. Lei incollava la guancia sulla sua. Aaaaah! Non era Gogu Vrabete il tizio che ballava, bensì era il tango che ne faceva uso come di uno strumento. Le altre coppie si ritraevano appoggiandosi alle pareti. Era un ballerino eccezionale. Al bar e all’esterno non rimaneva più nessuno. Si accalcavano tutti per ammirarlo. Immobili come davanti a un quadro. Era il culmine della serata. Stavano con gli occhi inchiodati su di lui e sulla dama che stringeva fra le braccia con stile. Si udiva la voce di Barbu Felix, miglior diseur di lui tra Fiume, Istanbul & Odessa non c’era. La copia esatta di Gardel: nella voce, nel contegno, nello sguardo. Gogu danzava fin quando si sentiva sulla schiena la camicia zuppa di sudore. Ochialbi annunciava: «Pausa per lo spritz! I cavalieri sono invitati a passare in giardino per favorire birra Luther ghiacciata e dare modo alle signorine di gustare i deliziosi aperitivi e dessert offerti dallo chef Zigu. Prego, si accomodino!»
Era il suo mondo. Un mondo felice. Era ciò che più amava. Durante la settimana sgobbava masticando polvere, correva di qua e di là. Guadagnava, se la sapeva cavare, bazzicava i posti dove aveva clienti. Si sporcava tutto, sudava, una sciagura, con indosso vestiti ordinari, senza la sua tenuta – era un galoppino. Ma il sabato e la domenica, tutto profumato, tirato a puntino, con le sue scarpe da bellimbusto, diventava un uomo. Nella sala da ballo era Gogu Vrabete. Per questo, durante tutto il santo giorno passava la crema sulle scarpe. Ne aveva un paio ordinato appositamente, in cuoio di vitello da latte, tirato su solo a base di birra, diceva Gore il calzolaio. Con la punta lucida, i tacchi, che scricchiolavano camminandoci. I salvatacchi facevano zac quando colpivano l’assito. Gli saranno costate una fortuna. Si profumava, indossava il soprabito nero. Non se le faceva lucidare all’angolo, da Vică il lustrascarpe. Preferiva lustrarle con le proprie mani. Era un cerimoniale che non si saltava mai. Le preparava il giovedì pomeriggio e gli passava la crema il venerdì sera. Le lasciava asciugare sulla soglia di casa. Era superstizioso, non appena il sole saliva di un dito sopra gli albicocchi & i carrubi, solo allora tirava fuori le forme che poggiava su uno sgabello in cortile. Si metteva a strofinarle lentamente con una pezza di morbido taffetà. L’operazione durava all’incirca tre ore, ci lavorava su come un orologiaio. Si fermava solo quando sentiva il cuoio vellutato come la natica di una giovane fanciulla. Le passava con la cera ore più tardi, il sabato mattina, lasciandole all’aperto una notte affinché vi penetrasse. Finiva quando il sole batteva sopra la casa e ti devi rifugiare sotto l’ombra. Alla fine aveva delle scarpe di prima qualità, potevano danzare da sole. Faceva un salto da Take, in mezzo alle gabbie di uccellini canterini, perché gli desse una sfumatina sulla nuca, gli sistemasse i baffi con le forbici e gli scorciasse le basette. Le portava fitte, fino ai lobi delle orecchie. Il barbiere gli passava il rosaio sulle guance fino a farle diventare livide. Per allietarlo, metteva sul grammofono vecchie lacche. Che dici, ascoltiamo un pot-pourri di Gardel? Gogu sarebbe rimasto volentieri, ma aveva fretta di sfolgorare da Akim. Quando era di buon umore, Take prendeva il mandolino appeso alla parete e suonava per lui. Gli uccellini nelle gabbie riconoscevano il proprio padrone e felici lo accompagnavano con il loro cinguettio.
Per farla breve, il completo glielo aveva confezionato il vecchio Efraim, «sarto sopraffino per signori eleganti». Lo indossava solo quando andava alla sala. Avevo speso fino all’ultimo quattrino. Come i fanatici, che fanno qualsiasi cosa pur di togliersi un capriccio. Aveva classe, eh! Nessuno nel suo quartiere aveva pari aspetto. Verso la fine della sua breve carriera di ballerino, non mise più la cravatta. Come se avesse presentito qualcosa. Arrivava alla sala con gli ultimi due bottoni aperti. E senza cappello! Era la maniera di esprimere la sua strafottenza e la sua arroganza. Era il più ganzo dalla Stazione Nord fino a piazza Obor. Che choc destò! Solo lui si poteva permettere di arrivare al ballo senza la tenuta di rigore. Contravveniva a una legge non scritta. Fu imitato da alcuni, ma al confronto sembravano dei pidocchiosi e dei perdigiorno. E quello erano, detto fra noi. Si vedeva lontano a un miglio che erano dei poveracci di periferia. Le dame avevano occhi solo per Gogu.
Fu per questo che, quando uscì per prendere un po’ di fresco, haaac, sulla schiena! Jean Pallottola detto Cairo era tornato dall’Egitto. Cinque anni prima era stato arrestato perché la sua amante, Cati la Cornacchia, aveva spifferato dove era imboscato. Quella si era invaghita di un ebreo, un commerciante con bottega a Lipscani. Sebbene fosse soprannominato Pallottola, usava il pugnale. Te lo ficcava nel gargarozzo mentre ti alleggeriva le tasche. Per il resto era un tipo gradevole, elegante e gentile. Lo squartò – con delizia – dalla bocca all’ombelico. Il gargarozzo glielo lasciò intonso. Lo fece a fettine e gliene stese la pelle sulla corda per il bucato nel cortile del bordello «Maria Teresa». Lo trovarono all’alba le puttane, sistemato sulla staccionata come un panno steso ad asciugare. I resti dello spasimante li lasciò alla dama in un catino, sulla neve, davanti alla porta, come obolo di Natale. Di questa pasta era fatto il tizio che assalì il nostro eroe. Per fortuna che Gogu si era messo il soprabito sulle spalle per difendersi dal freddo. Il pugnale squarciò solo la stoffa. Fu un miracolo che l’abbia scampata. Culiţă Afanei, un perdigiorno, sfegatato scommettitore all’Ippodromo, s’intromise tra i due. Saltarono su i tangheri del quartiere: «Ooooh, demonio, ti è venuta voglia di carne macellata?» Beh, prima di alzare i tacchi per l’Egitto, era stato il re senza corona delle sale da ballo. Era tornato a casa e ne aveva trovato un altro appollaiato sul suo trono. Il tempo passava. Erano altri tempi. E questo chi è? domandò. Uno brutto come la morte che viene dalle parti del ponte Grant. Ha preso il tuo posto. Non ci vide più. Fu così che Cairo finì per estrarre il coltello. Non cedette, ma i presenti nella sala imposero l’ordine: ce n’era uno e nessuno osava infrangerlo. Dettero mano ai portafogli, scelsero due tipe da leccarsi i baffi. A fare da paciere fu Vasea, il maestro di cerimonie. Per risolvere il dissidio, fecero dodici tanghi. Alla fine Gogu Vrabete risultò il numero uno. Jean Pallottola-Cairo dovette stringergli la mano e consegnargli i lacci delle scarpe, come segno della perdita di supremazia. Basta! Così andò. Alla gara, oltre a Buză, assistettero Prafu Jumară, Nazarie, Mișu Banu e l’impresario Haim Bernstein. Questi cercava merce fresca per gli spettacoli a Istanbul. Aveva già usato Gogu negli spettacoli di café-chantant da «Maxim»: lo invitava, dietro compenso, a ballare con certe babbione – altri soldi, altro divertimento. Gliele piazzava con discrezione, e lui faceva il galante. Bernstein ne conosceva il talento. Lo allettò. Ffiu, che fortuna ho avuto! si disse. Io, Gogu Vrabete, della sala da ballo Akim, di piazza Matache Măcelarul, viale Griviţa n. 78! Sognava una carriera da ballerino di tango. Tornò a casa danzando sotto la pioggia. Si vedeva già raccogliere gli applausi, effigiato sui manifesti. In periferia lo avrebbero sentito alla radio, tutti avrebbero letto il suo nome nei giornali. In questo modo avrebbero saputo dei suoi favolosi spettacoli a Buenos Aires, a Caracas, a New York. Era felice. I passanti si picchiettavano la tempia con un dito – che ci vuoi fare, è svitato. Il Paese era alle strette, si stavano addensando dei nuvoloni neri, e lui ballava in strada come trasognato! Arrivò a casa tardi, sotto il ponte Grant. Nella cassetta postale trovò la busta azzurra con il timbro del Commissariato militare di via Francmasona. Lo invitavano a presentarsi alla visita medica per essere arruolato. Non sapeva un acca che la Russia di Stalin doveva essere annientata e che la carne da cannone era molto richiesta. Nota informativa 40/b/ fonte Luca/DGP.         



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 3, aprile 2013, anno III)

NOTA

[1] Bevanda acidula di origine russa ottenuta dalla fermentazione del miglio (N.d.T.).