Anteprima: «Bambine sfregiate» di Tatiana Niculescu

Uno dei nomi aggiunti di recente nel database Scrittori romeni in italiano, ma che già vi figurava, è quello della scrittrice Tatiana Niculescu, della quale vogliamo riproporre il brano presentato qui nove anni fa, tratto dal romanzo În Ţara lui Dumnezeu uscito nel 2012 per l’editrice Polirom di Iași, che è stato poi riedito nel 2018 per le edizioni Humanitas di Bucarest con un titolo nuovo, Tăierea fecioarelor (Bambine sfregiate). Di Tatiana Niculescu il pubblico italiano può già leggere in traduzione il suo primo romanzo, Confessione a Tanacu (Hacca, 2013, trad. di Anita N. Bernacchia), e il volume più fresco di stampa, la biografia Nae Ionescu. Il seduttore di una generazione (Castelvecchi, 2021, a cura di Horia Corneliu Cicortaș e di Igor Tavilla). Con questa riproposta aggiorniamo quindi i dati di quel volume, con l’auspicio che in un futuro non lontano possa essere anch’esso proposto ai lettori italiani accanto agli altri libri qui menzionati, usciti dalla penna di una delle narratrici romene più interessanti di questi ultimi anni, con un’opera particolarmente ricca e varia che consta di romanzi e soprattutto biografie di personaggi emblematici della storia romena.

°°°

Tăierea fecioarelor / Bambine sfregiate (Humanitas, 2018) è un romanzo strutturato in modo originale e in uno stile attraverso cui l’autrice sa dare risalto a una lingua che arriva al lettore avvolgendolo nel suo caldo ed efficace intreccio narrativo. Il romanzo è scandito dal racconto dei protagonisti che si succedono in brevi e ben calibrati capitoli, ciascuno dei quali reca il nome del personaggio-voce narrante. In effetti, quasi tutti e 41 capitoli che si snodano lungo il romanzo sembrano essere quasi delle confessioni personali asperse sulle pagine di un diario in cui i vari personaggi, che intessono la trama, raccontano in prima persona ciò che vedono e sentono, dando libero sfogo alle proprie impressioni, ai propri punti di vista, alle proprie intime parole, esattamente come ognuno fa quando srotola i propri pensieri sulla pagina di un diario. L’intreccio del racconto si trasforma quindi in una spirale dei sentimenti, delle preoccupazioni e delle riflessioni dentro le quali chi legge si trova realmente coinvolto, calandosi nella mente dei rispettivi personaggi e diventando spettatore quindi degli scenari, della specifica visione della realtà che gli vengono proposti volta per volta.
La terra divina cui si fa riferimento nel titolo e dove si muovono i protagonisti del romanzo non è quella biblica – come saremmo erroneamente indotti a credere – ma una delimitabile geograficamente (non viene specificata dall’autrice una città precisa) nel Corno d’Africa (tra Somalia, Eritrea ed Etiopia). Quest’area remota era agli occhi degli antichi Egizi una sorta di mirifico Eldorado perduto, una Terra di Dio, appunto, tanto che la regina Hatshepsut ordinò, per volere del dio Amon palesatosi al Gran Sacerdote, di partire alla volta di quelle terre opulente. L’alone mistico e quasi da fiaba di quella sperduta regione contrasta però con la realtà narrata nel libro: in questo lembo desertico e inospitale dell’Africa c’è, infatti, una guerra civile non del tutto sopita tra le due tribù rivali – gli Afari e gli Issa – entrate in conflitto per accaparrarselo dopo la ritirata dei colonizzatori francesi; qui, inoltre, gli antichi Egizi lasciarono in eredità alle popolazioni indigene una pratica atavica che la religione in seguito ha fatto sua trasformandola in un iniquo e feroce rito imposto alle donne, ossia quella dell’eccisione del clitoride: l’infibulazione.

Questo in sintesi è lo sfondo e il contesto su cui fa perno la trama. Quanto ai personaggi, il libro ruota soprattutto attorno alle figure di due bambini: André e Hani. André, dieci anni, è figlio di Laurent Beauregard, consigliere culturale francese, nato da una relazione con una romena durante il suo mandato a Bucarest ancora ai tempi della dittatura comunista. Ad André viene presentata Hani, più giovane di lui di due anni, orfana del padre e nipotina del carismatico capotribù degli Afari, Humed, che intrattiene buoni rapporti con Beauregard. Hani ha raggiunto l’età nella quale dovrà sottoporsi al rito – preannunciato sopra – tanto spietato quanto disumano, e illegale, dell’infibulazione, o solota nella lingua del posto.  È attorno a questo evento drammatico che s’intrecciano le voci e le azioni degli altri personaggi che interagiscono nel romanzo – quasi una decina in tutto –, in  primo luogo di Marie, la nuova compagna di Beauregard, e del dottor Bertrand, i quali, cercando di rompere il muro di silenzio e di reticenza delle donne (della nonna in primo luogo, e di Arafa, la governante di casa del francese) le tentano tutte, con il dovuto tatto, per sottrarre la piccola Hani a quel barbaro rituale, alla «festa» che stanno preparando per lei. Marie ricorre anche ad André, amico di giochi di Hani (tra i due nasce fin dal primo momento una profonda amicizia siglata da un tenero bacio ma assai “audace” per entrambi, soprattutto per lei), usandolo come esca per sapere esattamente quando si dovrebbe tenere l’evento. Il dramma delle mutilazioni genitali femminili fa cozzare due modi di pensare inconciliabili: per la cultura occidentale, è una pratica assurda, violenta e intollerabile, uno sfregio traumatico e psichico indelebile praticato sulla carne viva delle donne, mentre per l’ancestrale cultura locale è un’usanza utile e doverosa per preservare l’onorabilità della donna che deve giungere «pura» al matrimonio; in caso contrario, verrebbe ripudiata dalla famiglia e bollata per sempre come una donnaccia. È uno scontro di culture che mette in crisi anche Laurent Beauregard, sulle prime titubante, diplomaticamente rinunciatario e «politically correct» di fronte a questo spinoso problema per non urtare il sentire popolare locale e il suo amico Humed; però alla fine, a sorpresa, sarà artefice di un piano tenuto segreto per salvare Hani. Questo tentativo tuttavia fallisce all’ultimo istante per l’improvviso riacutizzarsi della guerra civile; per ordine delle autorità francesi Marie e André devono perciò lasciare immediatamente quel paese, fatti imbarcare in fretta e furia su un aereo militare e spediti a Parigi.
Hani quindi soccomberà a una pratica che è destino le sia inflitta, assumendo perciò il carattere di un vero e proprio sacrificio, che lei, nell’ultimo capitolo, affronta tuttavia, nella sua ingenuità – suscitando forse lo sconcerto del lettore –, con certo cipiglio e anche con certo orgoglio, conscia che così è da sempre, come lo è stato per la sua amica Gassira, la figlia di Arafa, e per sua nonna, e per sua madre, e che per quanto immensamente lancinante sarà il dolore che quella mutilazione le provocherà, lo assume su di sé con serenità e con quel fatalismo tipico delle culture arcaiche che non conoscono il libero arbitrio.

Nel libro l’autrice tira in gioco anche altri temi attinenti all’area geografica in cui traspone la trama: fanno così capolino il problema delle bande di pirati somali che assaltano le navi merci in transito nel Golfo di Aden (una situazione che Laurent Beauregard illustra con pertinenti e lucidi commenti, da adulto, mentre per il bambino André altro non sono che un’eccitante variante terrena del film di Guerre stellari), e i riferimenti al periodo trascorso dall’errabondo Arthur Rimbaud come mercante in quel remoto angolo del mondo, per il quale il francese sente una forte attrazione, quasi immedesimandosi nel grande letterato suo connazionale, e di cui cerca in qualche modo di ricalcarne le orme, visitando luoghi ai quali il «Poeta maledetto» (nel libro trasfigurato, rievocato, incarnato attraverso la «voce» dell’anacoreta mussulmano Abu Yazid/Abdoh Rinbo) era approdato nel suo umano errare in fuga da sé stesso.   
Bambine sfregiate è un romanzo scritto con grande finezza stilistica, sorretto da una conoscenza della materia e dei luoghi che ne fanno da scenario, trattati ed esposti da Tatiana Niculescu Bran con sicurezza e tenuta artistica. Il suo romanzo è la felice testimonianza e la conferma che la prosa romena contemporanea è fonte di pregevoli e sorprendenti prove letterarie.




Bambine sfregiate


6. André

Papà vuole che vada con la signora Arafa al mercato. «È una buona opportunità per familiarizzare con la gente locale, per conoscere i dintorni e per fare amicizia con Arafa», mi dice. Va bene, ci vado, anche se morirò dal caldo e questo per colpa sua. Sono arrivato qua con gli stivali di gomma, perché così mi aveva detto: dovevo stare attento a che scarpe mi sarei portato, perché saremmo andati nel deserto, perché qui ci sono poche strade asfaltate e in più ci sono serpenti, e rovi, che devo pensarci bene, e non arrivare lì calzando dei sandali. Non mi sono portato dietro neppure le scarpe da ginnastica, né i sandali e ora invece vedo che la gente va in giro per la città in ciabatte, mentre io mi sento ribollire i piedi negli stivali. Arafa mi sorride sempre. Ogni tanto mi vuole mostrare qualcosa, mi spinge alle spalle e mi fa segno dove guardare come se fossi un incapace. Non capisco bene quel che mi dice, mischia le lingue, le parole, gesticola continuamente, tenta di farsi spiegare, non è che se la sa cavare tanto con i bambini. Per raggiungere il mercato, dobbiamo prendere l’autobus. Arafa mi fa segno di fermarci lungo la strada e scruta l’orizzonte. Di fermate non ce n’è traccia nelle vicinanze, neppure un cartello. Ce ne stiamo sotto il sole, ingoiando la polvere sollevata dai camion che passano per andare in centro. Che stiamo facendo qui? Perché stiamo fermi? Si sente in strada un rumore di sassi schiacciati dagli pneumatici e sbuca fuori una specie di scarafaggio con la gobba, che ballonzola stridendo da ogni giuntura e sulle cui fiancate sventolano delle bandierine di tela a fiori. Il conducente si ferma, un giovanotto con un borsellino a tracolla, afferrato a una sbarra, con un piede dentro e uno fuori, come se volesse premere sul freno, grida qualcosa, alcune donne, con indosso delle lunghe gonne colorate, scendono; Arafa mi spinge dentro, ci sediamo uno accanto all’altro vicino a un finestrino su dei sudici sedili di plastica con l’imbottitura che fuoriesce agli angoli, e lo scarafaggio si rimette in marcia. Le tendine cenciose appese al finestrino con ganci di ferro svolazzano fuori, ma che finestrino, non c’è nessun finestrino, sono solo delle cornici arrugginite, senza niente, attraverso cui ogni tanto entra dell’aria arroventata. L’autobus puzza, di sudore vecchio e nuovo, è strapieno, ogni tanto una di queste tendine sporche ti sbatte in faccia, lo sballottamento è incredibile, tutti parlano, il conducente mastica quella loro erba e non guarda quasi mai nello specchietto retrovisore, rotondo, adornato tutt’intorto da dei petali gialli di plastica. Credo che sia messo lì così, per bellezza, o perché il conducente intuisca la strada nel caso in cui il parabrezza crepato e annebbiato non gli sia più di aiuto.
È spaventoso! Non ho mai viaggiato in un autobus del genere. Il conducente suona continuamente il claxon, e alle volte chiudo gli occhi per paura che andiamo a scontrarci contro un’automobile che viene nell’altro senso di marcia. E invece no, continuiamo, i conducenti si lanciano insulti, così sembra a me per il modo in cui sputano dal finestrino, o forse si limitano a salutarsi comunicando tra loro usando il claxon, facendosi segno con la mano, dài, vai avanti tu, lascia passare me, più veloce… Domando ad Afara dove sono i semafori. Con le luci, il rosso, il giallo, il verde, le strisce pedonali… Non c’intendiamo. Credo che in vita sua non abbia mai visto un semaforo, e io non saprei come spiegarglielo. È per questo allora che Marie rideva quando diceva che questo è il posto che fa per lei se vuole prendere la patente, perché tanto non occorre studiarsi le norme della circolazione. Be’, ma se non ci sono neppure i semafori, né i cartelli, che norme si devono imparare? Quasi tutte le automobili sono ammaccate davanti, dietro, qua e là… Ognuno guida come capita, s’infila dove può, supera quando gli gira. È toghissimo! Mi sembra di essere al luna park, su quella piattaforma nera con le macchinine elettriche che girano come impazzite scontrandosi le une contro le altre se non si gira in tempo il volante.                            
Non capisco se questa sia una città o un villaggio. Non assomiglia a niente. A giudicare dalle palme e dagli edifici più alti, scrostati, sembra una città in rovina, mentre a giudicare dalle strade polverose, dalle baracche pericolanti e dai banconi da cui si vende da bere, sembra un villaggio. A ogni curva, veniamo sbattuti gli uni contro gli altri, Arafa mi spinge contro la cornice del finestrino e io sporgo fuori la testa per respirare più liberamente. Per strada la gente è vestita in maniera diversa: i bianchi portano vestiti dai colori chiari, come in Francia, mentre i neri portano una specie di sottana stretta al corpo, lunga fino alle caviglie, e sopra delle normali camicie da uomo. Le signore con le gonne dai colori sgargianti sembrano degli enormi pappagalli esotici. Ci avviciniamo a una specie di autostazione, in cui sono parcheggiate a casaccio decine e decine di questi buffi minibus, come il nostro, tanto che diresti che stanno lì lì per spezzarsi in due, come l’automobile di Fred Flintstone.
Arafa grida qualcosa al conducente, allunga degli spiccioli al bigliettaio, l’autobus si ferma e scendiamo. Stavo per calpestare la merce di un venditore ambulante. Questo mi fa segno di provare un paio di ciabatte dal mucchio di calzature esposte per terra, su un cartone. Arafa lo rimbrotta, non so che gli dice nella loro lingua e mi tira a sé. Si vede che papà l’ha istruita per bene perché non mi tolga gli occhi da dosso, infatti avverto la sua mano ora sulle spalle, ora sulla schiena, ora su un gomito, come adesso. Non si azzarda a prendermi per mano. Dall’autostazione entriamo direttamente nel mercato, in mezzo a un caos fatto di tendoni da carro, di chioschi, di musica proveniente dalle radio e di gente che si accalca fra le merci. Tutti gridano, non si può posare lo sguardo su niente, perché ti saltano addosso per mostrati altre camicie, altre stole, altre stoffe, e ancora altri contenitori, altri orologi, e altro e altro ancora… Alcuni bambini corrono fra le bancarelle scalzi e in mutande. I venditori osservano me e Arafa in modo un po’ strano, sono sorpresi di vederci insieme, un bambino bianco e una donna come loro, credo stiano pensando che io, un bianco, ho dei soldi e che posso convincere Arafa a comprare qualcosa, una cosa qualsiasi, purché la compri. Lei non si scompone, gli passa accanto senza calcolarli, ma con me sta attenta spingendomi da dietro per farmi capire quando dobbiamo svoltare e che strada prendere. Ci fermiamo a una bancarella di una donna con la faccia piena di nei. Oppure no, non sono nei, come mi era sembrato, ma mosche. Si posano sugli occhi, sulle labbra, sul naso. Mosche verdi, come quelle della spazzatura. Sembra che le crescano da sotto la carne. Perché non le scaccia, perché non fa qualcosa per liberarsene? Le mosche pungono oppure no? Lo domanderò a papà. Le volano via dalla faccia solo quando si porta qualcosa alla bocca e mastica lentamente, con il labbro inferiore che si contorce. La donna è seduta su una cassa e vende qualcosa di simile a delle grandi crêpe, di color marrone, collocate su un tavolo fatto alla mala peggio con stecche di legno. Di che saranno fatte? Sotto la pila di sottili crêpe si scorgono alcune banconote. Quindi è lì che tiene i soldi! Guardo con terrore Arafa caso mai volesse comprare l’ultima crêpe sotto cui ci sono quelle banconote sudice. Lei li avrà visti? Perché deve comprare le crêpe proprio da questa donna? Non poteva trovare un altro posto dove comprarle? Qui non ci sono pasticcerie e panetterie come dio comanda? Mi pareva che stessimo cercando pomodori e frutta. A ogni modo, stasera a cena preferisco patire la fame piuttosto che assaggiare quelle crêpe o quel cavolo che sono!
Ho visto che qui la gente mangia seduta per terra, appoggiata a dei cuscini, come i Romani, e non si usano le posate. Ieri sera siamo passati a casa di quella bambina, Hani, ed erano tutti radunati sul pavimento, in cerchio, intenti a mangiare del riso da alcune ciotole di plastica. Il nonno di Hani [Humed, ndt], mi ha mostrato come si fa a prendere il riso, premendolo un po’ con la punta delle dita, ricavandone un mucchietto grande quanto un boccone, per portarlo poi alla bocca evitando che il sugo ti si sbrodoli sul davanti. Ci ho provato, ma mi sono macchiato lo stesso la camicia e Hani si è messa a ridere. Non è stato molto carino da parte sua! Se mamma mi avesse visto come infilavo le dita in bocca per poi leccarmele! È stato divertente. Ma quelle crêpe della signora del mercato comunque non le tocco.
Papà raccontava che una volta quando era stato a casa di Humed, aveva visto che suo cugino aveva raccolto gli avanzi del cibo, li aveva messi in una borsa e gettati di là dello steccato, nel cortile del vicino. Papà voleva essere gentile e, dopo la cena, ha sparecchiato lui il tavolo, ha messo gli avanzi del cibo in una borsa e l’ha gettata di là dello steccato, così come aveva visto fare al cugino di Humed. Allora il cugino è corso subito e l’ha sgridato nella sua lingua, agitando le mani e sollevando gli occhi al cielo, e papà ha capito di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma non sapeva che cosa. In seguito, Humed gli ha spiegato che non doveva gettare la borsa al vicino di destra, perché il vento aveva cambiato direzione. Doveva gettarla al vicino di sinistra. Il vento degli Afari è di vari tipi. Il vento rosso e il vento nero, per esempio, attirano gli spiriti maligni, che provocano alle persone dolori, febbre, malattie o le fanno ammattire. Allora si lancia uno scongiuro contro il malocchio che fa cambiare direzione al vento. La direzione del vento che porta sempre bene è quella verso sud, dove si trova il Serpente sacro.
«Arafa, che cos’è il Serpente sacro?»
«Che serpente?»
«Papà mi ha detto che voi avete un Serpente sacro. È un drago? Un mostro?»
«Ah, il Serpente! È un dio.»
E mi afferra delicatamente per una spalla con la mano nella quale stringe la borsa con le ciambelle, mentre con l’altra mi indica la direzione per uscire da quella confusione.

         

7. Hani

Ma quanti libri ha il signor Beauregard! Migliaia e migliaia! Arrivano a toccare il soffitto. Li avrà letti tutti? Non ho mai visto tanti libri disposti così bene, uno di fianco all’altro, come se fossero un rivestimento della casa. Alcuni sono grandi e grossi, con il dorso luccicante, altri sottili, più piccoli, colorati, posti uno dopo l’altro, in base all’altezza. Credo che tutti sono in francese. Ci saranno anche fiabe e poesie? Anche il nonno scrive un libro in francese, sugli Afari. Quando lo finirà, lo pregherò di darlo al signor Beauregard perché lo metta in fila tra i suoi libri, perché lo vedano tutti quelli che verranno qua e che sappiano che lo ha scritto il nonno. Su ogni scaffale qualcuno ha puntellato i libri con delle pietre o delle conchiglie perché non si rovescino gli uni sugli altri. Quando diventerò grande e avrò tanti libri, io non metterò delle pietre sugli scaffali. Non è bello. Mio marito sarà ricco, come il signor Beauregard, mi comprerà fiori di plastica in vasi colorati e userò questi per tenere dritti i libri.
Ma che bei disegni sono appesi alle pareti! Con casette in riva al mare, con barche, alberi, facce di bambini e un ragazzo con i capelli spettinati, gli occhi grandi, chiari… La nonna mi ha detto che non devo toccare niente né curiosare troppo negli oggetti della casa, di chiedere il permesso per ogni cosa e ringraziare ogni volta con educazione. Sulla scrivania ci sono dei coltellini con i manici trasparenti, dei fogli, delle scatoline con coperchi… Muoio dalla curiosità di sapere che c’è dentro. Tanto non mi vede nessuno adesso! Zerbinette si è nascosta fra i cespugli del cortile e la signora Marie è andata via per un po’ e ha detto di confidare in me perché le sorvegli la casa finché arriverà André. Mi piace la signora. È spiritosa, veste bene, ha dei sandali rossi con il tacco e porta gonne corte, comprate a Parigi. Mi fa piacere sentirla quando mi dice ma belle. Ma… belle… Suona così, come un liquore dorato che scende dal cielo dritto nell’anima, come se queste parole mi levassero in volo e mi depositassero, in due sillabe, sul monte Goda, da dove puoi vedere lontanissimo anche il Deserto, e il mare, tutto. Quindi, se la signora mi ha detto di sorvegliare la casa, io lo faccio. Sono come una padrona di casa ora, e siccome tutte le cose sono sotto il mio controllo, significa che non c’è niente di male se le tocco e se le guardo più attentamente. Però non so cosa scegliere tra le scatoline della scrivania e la grande scatola nera, con tre gambe e coperchio. Non so se avrò tempo di guardare anche nelle altre stanze. È meglio se apro allora la scatola grande. Ha due coperchi, uno più grande, sopra, dove c’è scritto S-T-E-I-N-W-A-Y, e l’altro più piccolo, sotto. Il coperchio ampio è fisso. L’altro invece si solleva senza difficoltà.
Lo afferro bene con entrambe le mani, lo alzo e m’imbatto in tasti bianchi-neri, bianchi-neri, bianchi-neri, alcuni più lunghi, altri più corti e più alti, come se fossero dorsi di libri messi al contrario, ma senza scritte sopra, senza niente. Appoggio il dito su uno, lentamente, e si abbassa producendo un suono secco e breve. Tutti i tasti si abbassano, emettendo suoni sottili, dolci, profondi, meravigliosi… Mi guardo attorno, da una parte e dall’altra, per paura che la casa si riempia di djin! E hanno anche voci grosse, e voci giocose. È meglio chiudere la scatola, prima che escano tutti, e allontanarmi da qui.
Vediamo cosa c’è ancora! Che belle tende ci sono in camera, con uccellini azzurri, dalle code gonfie, e c’è anche un letto alto, non dormono per terra. Che letto grande! Credo che qui ci mangiano pure. È morbido. Questo deve essere proprio il cuscino della signora, sento il suo profumo! Qualcuno ha lasciato un libro sul comodino di fianco al letto. È rivestito di pelle. Non capisco se è pelle di capra o di antilope. Non ha nessun odore, ma è troppo soffice per essere di capra. Illuminations. Che vorrà dire? Sarà qualcosa che ha a che fare con la luce.
Nell’armadio non guardo, non voglio imbattermi in chissà quali spiriti. Mi sarebbe piaciuto tantissimo vedere i vestiti e le scarpe della signora! Posso comunque aprire un cassetto. Non succede niente. Che camicette raffinate e sottili! E quelle briglie, per il seno, cucite con fiorellini! Le ho viste anche dalla nonna, ma le sue sono grandi e più rigide, non sono così eleganti. Quando sarò grande, pregherò la signora Marie, in segreto, di lasciarle provare anche a me. Una sola volta e basta. Ora devo risistemare tutto e chiudere il cassetto. La porta del bagno deve essere questa, vicino all’armadio. “Se ti scappasse, Hani, chiedi sottovoce se puoi andare alla toilette. Vedrai, hanno certi sanitari lì, come delle tinozze profonde…” La nonna è stata in Francia e ne sa qualcosa.
È una stanza quadrata e bianca, luminosa. Anche qui ci sono mensole e armadietti, ma non ci arrivo. E questo deve essere il sanitario di cui mi ha parlato la nonna. Così bianco, lungo e profondo? Un letto per starsene al fresco? Ti ci stendi dentro e fai il sonnellino del pomeriggio. “Ha un rubinetto, Hani, da dove esce l’acqua, si riempie e t’immergi come in un lago.” Guarda, ci sono anche i fori per lo scarico. Peccato che ora non posso aprire l’acqua e fare il bagno! Ah, questa è la sedia bianca con una gamba dove ci si siede sopra quando… “Vedrai che loro non si accovacciano, come facciamo noi, è una specie di sedia rotonda. Alzi il coperchio e ti ci siedi sopra!” Non mi scappa, ma voglio vedere com’è. È un po’ alto, riesco appena a toccare il pavimento con la punta delle ciabatte. Il secchio dell’acqua dove sarà? E la brocca con cui si butta l’acqua dopo che hai fatto le tue cose? L’acqua dentro è così pulita quando ti ci guardi che ti potresti lavare anche le mani, i piedi… Puzza un po’ di medicina. Mi sono tutta impolverata correndo dietro a Zerbinette e voglio provarlo. Quando arriverà André, sarò pulita e si vedranno meglio le mie unghie colorate. Lascio le ciabatte da una parte, mi tiro su il vestito e c’infilo un po’ i piedi… prima uno, poi l’altro… Non ci entro con tutti e due in una sola volta, ma uno dopo l’altro, è meraviglioso. Com’è fresca e piacevole l’acqua!
Ciaf, ciaf, se lo sapesse la nonna! E questo pulsante a che servirà? Si tira o si preme? Se lo spingo, non va. Va tirato! Ah, le onde del mare mi bagnano fin sopra le ginocchia! E che gran rumore fa l’acqua! Sale fin sopra il coperchio come un djin vorace uscito da sottoterra. Ho rotto qualcosa? Forse ho tirato il pulsante troppo forte. Oppure con il piede ho intasato il buco da dove esce l’acqua. Presto, devo asciugare per terra, prima che arrivi qualcuno! Sarà stata Arafa a disporre gli asciugami così per benino? Se ne prendo uno, se ne accorgerà. Comunque non ci arrivo a prenderli. Meglio allora gli asciugami su questa sbarra di ferro. Li rimetterò poi al loro posto, si asciugheranno subito. Non lo noterà nessuno.
Tutti i francesi hanno dei bagni così. Non so come fanno, ma da loro l’acqua scorre tutto il tempo. E per di più, la tinozza e la bacinella dove si lavano hanno dei rubinetti con due pomelli, e non uno solo, come qui da noi. Questo l’ho saputo dal nonno. Uno è per l’acqua calda e l’altro per l’acqua fredda. Si possono miscelare se si vuole. L’acqua viene dal tubo nella parete. Fatto, ho asciugato tutto. Non è stato così difficile. Dovrei asciugarmi anche i piedi prima di rimettere gli asciugami al loro posto, ma è meglio di no, è più gradevole così, mi piace sentire l’acqua che si asciuga lentamente, con un fresco solletico, sotto il vestito. La signora Marie tiene in bagno un sacco di boccettine, con tappi a punta o ricurvi, con etichette dorate… e saponi profumati in confezioni luccicanti. Hani, ma belle… Quando abiterò in una casa tutta mia, avrò anch’io boccette come queste e acqua a sufficienza per fare il bagno nel lago quando lo vorrò io. Forse il nonno mi darà in sposa a qualche suo cugino che vive in Francia, e allora diventerò come la signora Marie.
«Hani, ma belle, dove sei?»
È tornata la signora Marie. Che faccio? Che faccio? Che posso fare?
Ma belle, ma belle…
«Hani!»
«Sono alla toilette!» grido più forte che posso e mi guardo intorno per vedere se ho rimesso a posto le boccette per bene, se ho rimesso gli asciugami al loro posto, se ho abbassato il coperchio, se i piedi si sono asciugati…
«Ah, bene. Scusami, non sapevo dov’eri. André ti sta aspettando in cortile.»

 





A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 11, novembre 2021, anno XI)