Emil Cioran nella memoria dello scrittore messicano Octavio Paz

Pubblichiamo l’articolo dello scrittore messicano Octavio Paz (1914-1998), nella traduzione di Ivana Porpora, uscito sulla rivista «Vuelta», (Messico, n. 224, luglio 1995), in memoria di E. Cioran nell’anno della sua scomparsa dove rievoca l’incontro con il pensatore romeno nel 1947: «La morte di Emil Cioran non mi ha sorpreso: da più di un anno era gravemente malato e la sua malattia era incurabile. Però la notizia mi ha rattristato profondamente: la morte, sempre attesa, puntuale, è sempre inaspettata». Fu una salda amicizia che durò negli anni con frequenti loro incontri a Parigi.


Cesellatore di cenotafi

La morte di Emil Cioran non mi ha sorpreso: da più di un anno era gravemente malato e la sua malattia era incurabile. Però la notizia mi ha rattristato profondamente: la morte, sempre attesa, puntuale, è sempre inaspettata. Ho conosciuto Cioran quando aveva appena pubblicato il suo primo libro, era il 1947. È stato in occasione di una riunione nel dipartimento di un amico comune, in cui gli unici stranieri eravamo lui, romeno, e io, messicano. Nel giro di pochi minuti abbiamo iniziato a parlare della letteratura spagnola, che lui conosceva piuttosto bene. Erano gli anni del successo di Sartre e dell’esistenzialismo; innanzi allo stupore di alcuni presenti, Cioran fece notare che, anche prima della guerra, Ortega e Unamuno, a partire da prospettive diverse, avevano affrontato le tematiche che infiammavano i dibattiti di quei giorni: la libertà, la morte, il tempo, la filosofia come un sapere vitale radicato nelle circostanze concrete di ogni uomo. Siamo diventati amici molto in fretta. A partire dal nostro primo incontro, ci siamo visti con frequenza. In seguito, ho lasciato Parigi, ma la lontananza non ci ha separati: Cioran ha collaborato con «Plural» e «Vuelta» e durante ognuno dei miei viaggi a Parigi gli facevo visita. Per tale ragione la sua morte colpisce me e Marie-José, doppiamente: la letteratura ha perso un grande scrittore e noi un amico molto caro.

In un’epoca che ha fatto della menzogna una seconda natura, la lucidità di Cioran ha svolto una funzione essenziale: liberare la nostra mente da illusioni disastrose, volgari chimere e da ragnatele intellettuali. Questo pessimista, che mostrava la vanità di tutto ciò che definiamo utile e necessario, ci ha aiutato, paradossalmente, a vivere: l’incommensurabile utilità morale dei suoi scritti è fondata sull’elogio dell’inutilità dei nostri sforzi per sfuggire al nostro destino mortale. Non ci ha reso più felici, ma ci ha insegnato a guardare in faccia l’angelo della morte. Il suo pessimismo e il suo scetticismo hanno reso più sopportabile la miseria di essere nati.

E a proposito dello scrittore? Nelle sue opere non avverto le forze solari e lunari, l’allegria del mare, l’irruzione della primavera, la passione e la sensualità, lo stupore innanzi alla natura e alle sue prodigiose invenzioni, dinanzi al corpo e alle sue rivelazioni quotidiane. Ma ciò che ha scritto è eccezionalmente compiuto e durerà nel tempo. I suoi aforismi e le sue riflessioni possiedono la concisione, la precisione e la luminosità dei moralisti del Gran Secolo, come La Rochefoucauld: la sua filosofia – se si può definire filosofia un pensiero che non viene prima ma dopo i sistemi – è in linea con i grandi nichilisti dell’India, come Nagarjuna, nonché con Pirrone, il silenzioso sorridente. Cioran, il romeno, ha reinventato il classicismo francese del XVII secolo nel pieno del Ventesimo secolo. È stato un cesellatore di cenotafi, un artista della disperazione e un poeta dell’arte più difficile: l’epitaffio. La sua opera sembra un esile mausoleo, un cubo nero e luminoso, che non racchiude nessun cadavere, ma qualcosa di indefinibile per essenza: il vuoto.


Octavio Paz, Cesellatore di cenotafi
Rivista «Vuelta», Messico, n. 224, luglio 1995


Traduzione italiana di Ivana Porpora

(n. 5, maggio 2023, anno XIII)