L’operaio che parlava in endecasillabi: la voce dimenticata del poeta Otello Di Maro

«In prospettiva
di una vecchiaia
grama e derelitta
un suicidio
è pur bene ‘eutanasia’»






L’EPITAFFIO

Non l’umile epitaffio
né scheletrito fior
di negletta tomba
ma
della lingua il graffio
mero svilir
dell’ombra! [1]

C’è un’unica foto di Otello Di Maro, almeno io non sono riuscita a trovarne altre, quella sulla sua lapide. Lo sguardo sembra triste, perso nel vuoto, assente come il suo sorriso; impossibile immaginare che età avesse al momento, tantomeno l’occasione dello scatto; si intravede appena il collo di una camicia bianca, immagino come complemento di un abito scuro. È una foto in bianco e nero, e detta così sembra una beffa, sì, perché Otello era un figlio della guerra, il padre, un soldato americano di colore, doveva alla fine della guerra, tornare a prendere lui e la madre per portarli negli Stati Uniti, ma, come nella migliore delle tradizioni, è sparito nel nulla. Otello Di Maro, nato il 16 gennaio del 1945, quest’anno avrebbe compiuto 80 anni, e invece ha deciso di andarsene la notte del 24 dicembre del 1998, la notte di Natale, Cristo nasce, nasce come speranza del futuro, nasce nelle gioie delle famiglie cristiane, e lui, lui senza speranza, lui discriminato, lui emarginato per non essere omologato, lui muore, o meglio, decide di abbandonare questa vita che lo ha quasi sempre maltrattato e beffato.
Non deve essere stato facile per un bambino prima e un adolescente poi vivere senza padre, «indossando» il cognome della madre come un marchio impresso a fuoco sulla pelle, a questo si aggiunga un incarnato più scuro rispetto agli altri, infine scoprire di avere gusti sessuali «diversi». La società in cui Otello è cresciuto è quella della provincia rurale di Napoli degli anni del dopoguerra, è una società piena di contraddizioni, prevenuta verso tutto quello che non si uniforma alla «normalità», pronta ad additare, giudicare e condannare chiunque incappi nel benché minimo errore. No, decisamente non deve essere stato facile. È molto difficile trovare notizie più approfondite sulla sua vita, grazie a Paolo Ferrillo ho saputo la sua data di nascita, ho saputo che è stato in collegio, ma non so se si sia trattato di collegio/seminario, e questo spiegherebbe le sue competenze classiche, o se si sia trattato di un collegio/orfanotrofio, ho avuto notizie sulle sue abilità di musicista, sulla lettera che ha scritto prima di suicidarsi e tante piccole informazioni sulla sua quotidianità, sui suoi interessi. Purtroppo, molte delle cose che ha scritto sono andate distrutte da lui stesso che una sera, in un momento di sconforto, le ha bruciate, come racconta in una lettera scritta poco prima di porre fine ai suoi giorni, una lettera lasciata a mo’ di spiegazione per l’insano gesto. La sua «opera omnia» era composta da oltre 80 liriche e 100 testi di brani musicali, più vari racconti e favole. Nonostante la depressione di cui soffriva ha riscritto, seguendo la sua memoria, ciò che ricordava, ci restano 24 poesie e 27 testi di canzoni pubblicati in una raccolta postuma, L’autoepitaffio [2], pubblicazione fatta grazie al contributo degli amici per rendergli quella giustizia che gli è stata negata in vita.
Ho conosciuto Otello Di Maro, nel senso che sapevo chi fosse e l’ho incrociato parecchie volte per strada mentre rientrava dal lavoro, o passeggiava con qualche amico, la nostra era una piccola comunità di poche migliaia di «anime» e quindi ci si conosceva tutti, ci si incontrava in quello che era il cuore del paesino dove c’erano le piccole attività commerciali. Otello non passava inosservato, di lui si sapeva bene o male un po’ di cose, ma non avrei mai immaginato l’animo nobile che si nascondeva dietro quell’aspetto semplice, alla mano, a tratti umile, un po’ schivo, una riservatezza garbata, quasi d’altri tempi, mai aggressiva o maleducata, credevo di sapere chi fosse Otello, ma in realtà non l’ho mai conosciuto veramente. Ho avuto la fortuna di imbattermi la prima volta in una sua poesia grazie a Domenico Rosiello che aveva pubblicato sul suo blog una sua lirica dedicata alla nonna, In morte della nonna. La lirica in questione mi lasciò piacevolmente sorpresa perché mi resi conto che mi trovavo di fronte a un sonetto petrarchesco, composto da due quartine a rima incrociata e due terzine a rima alternata in endecasillabi a maiore e a minore uguali, appunto, a quelli del Petrarca:

“Se hai da perdonare
Parti dalla memoria!”


IN MORTE DELLA NONNA

E le rivedo ancor il furbo sguardo:         
pieni di biasimo gli acquosi occhi neri;    
quando m’ingigantivo ne’ pensieri           
chiuso nel folle mio mondo testardo.        
Chi? Meco non privò l’infame giorno?     
c’ancor distrutto vivamente resto               
allora via-vai amico silente e tristo             
sotto lo portico sostar intorno?                   
E pronte “dianelle” a funerea festa             
che femminili gole o pianto aperto              
calava capo allo divin comanno.                  
Né accumular in canuta testa                        
di peluria stanca non vidi incerto                  
mio doman ultimo terreno affanno.

Non era la solita poesia scritta badando solo alla rima finale o al contenuto, si evinceva alla base uno studio approfondito, una conoscenza della metrica, della rima, della struttura del verso, non si trattava di «un poeta della domenica». A quel punto, per sincerarmi di non essere in errore, ho chiesto aiuto a una persona competente della materia: Monica Fekete, professore associato di Letteratura Italiana al Dipartimento di Lingue e letterature romanze presso l’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca in Romania, esperta di letteratura medievale e rinascimentale, che ha confermato che avevo visto giusto.
La poesia di Di Maro è una poesia difficile da definire, spazia dal sonetto, alla lirica, ai versi liberi; può sembrare poesia tragica e trasformarsi, a una lettura più attenta, in profonda satira, come nella poesia Le voci [3], dove già l’aforisma in esergo è molto eloquente:

«Se una storia
ti viene raccontata male
perlomeno
non raccontarla peggio!»

LE VOCI

Ti parleranno di me,

della uggiosa misantropia.
Ma non del chiodo
di casa mia
ove mi vollero
penzolante appeso.
Né quale onore leso
di una Regina senza Re!
Ti parleranno di me
… i miei nemici.

Ti ricorderanno di me,

del gaio gergo spassoso.
Ma non dell’invito geloso;
non del telefono muto
quando al bisogno d’aiuto
lasciavano rispondere: “non c’è!”
ti ricorderanno di me
…i miei amici.

Ti racconteranno di me,

(ormai di sfizio spogli)
del mio sesso e dei suoi imbrogli.
Ma non dei suoi specchi
né dei quesiti vecchi
rimasti senza un “perché”?
Ti racconteranno di me
…i miei amanti.

Però

di quanti,
a chi dirà di me
senza enfasi nella voce
d’anonimo estraneo,
presta migliore ascolto.
Chè
unico rispose
certo
al più spontaneo
mai conosciuto volto.

Il titolo Le voci potrebbe trarre in inganno e far pensare, essendo nel napoletano, alle voci della strada, dei venditori, delle donne, dei bambini, ma l’aforisma ci fa subito capire che si tratta di qualcosa di diverso, si tratta delle «voci» che sussurrano pettegolezzi, e di come queste «voci» possono trasformare sempre più il messaggio originale, rivelandosi, così, un’ottima interpretazione della cavatina La calunnia è un venticello del Barbiere di Siviglia di Rossini. Ed è proprio quello che lui ha vissuto sulla sua pelle, la calunnia, soprattutto per la sua omosessualità, e tutte queste insinuazioni hanno stimolato la curiosità morbosa del popolino dalla mentalità gretta e meschina, ma hanno anche scatenato in lui una forte crisi spirituale che ha trovato la sua valvola di sfogo nella poesia, una poesia che analizzava quasi sempre in modo tragico, ma spesso con sottintesi farseschi, la sua realtà, una poesia che espone in modo provocatorio la futilità del perbenismo e del moralismo che lo circonda.
Le sue poesie, tutte precedute da un apoftegma che dà delle indicazioni, spesso velate, per introdurre il tema, ma che a loro volta sono dei piccoli capolavori lirici, potrebbero sembrare a un primo sguardo prettamente autobiografiche, in realtà il suo «io» non è personale, ma universale; Di Maro cerca di allontanare la parola da ogni possibile accezione intellettuale e di ridarle la sua primordiale importanza, incarnando, in un incrocio tra il montaliano e l’eliotiano, il malessere di un’intera generazione, la sua non è autocommiserazione, ma un grido, una richiesta d’aiuto; nelle sue liriche l’emozione e l’intelletto interagiscono e ciò che raggiunge è una sensibilità in cui chiunque si può riconoscere. Il poeta non vuole esprimere la sua personalità, perché sa di essere un mezzo attraverso cui le esperienze, le impressioni, la stessa vita, si mescolano creando quello che la poesia romantica definiva sublime, perché come affermava Thomas Sterne Eliot, la vera poesia non è solo uno sfogo di emozioni, ma è anche un’evasione dalle emozioni, non è solo l’estrinsecazione della personalità, ma è anche la fuga dalla personalità [4]. Nella lirica Vergogna e paura, l’autore esprime sì le sue emozioni legate appunto alla vergogna e alla paura di essere solo, alla vergogna di avere paura, alla paura di provare vergogna, ma è anche un modo per esorcizzare queste emozioni, affrontare e superare le sue paure, combattere e sconfiggere la sua vergogna; chiunque si può riconoscere in questi sentimenti di timore e di disagio, perché come afferma T.S. Eliot, il poeta sfrutta la poesia come mezzo particolare in cui le esperienze si uniscono alle impressioni creando le combinazioni più svariate [5].
Otello Di Maro è stato un artista poliedrico, non si limitava alla poesia, scriveva anche testi e musiche di canzoni, che cantava accompagnandosi con la chitarra, e che ha anche inciso. Il suo spirito ribelle, imbrigliato di giorno in un lavoro forse poco interessante, faceva l’imbianchino, costretto dal moralismo provinciale dell’epoca a vivere mantenendo sempre un profilo basso, veniva fuori quando si riappropriava della sua vita e scriveva versi intrisi delle sue emozioni, dando libero sfogo alla sua rabbia, alla sua delusione, alla nostalgia, al rimorso e al rimpianto. Otello Di Maro si presenta ai nostri occhi di lettori come una figura tragica, perché tragica è stata la sua vita e tragica è stata la sua fine, e la sua tragedia si svela attraverso i suoi scritti, in cui si spoglia di tutti gli orpelli, di tutti i manierismi a cui lo costringe la società benpensante che lo circonda, si libera del bavaglio che la società gli impone e ci mostra la sua anima, si mostra a noi nella totale nudità della sua anima, e piange la nonna, sorride alla madre, soffre per l’assenza del padre, sopporta le delusioni subite dagli «amici». La sua poesia, come quella del Duecento descritta da Giuseppe Montesano, usa «una lingua-pensiero, che traeva limpidezza dal fango molle e dalla pietra amorfa del mondo, e non temeva lo scontro e l’abbraccio con la realtà» [6], non teme di manifestare il suo pensiero, di mostrarsi al lettore, non teme i commenti, aspira solo a liberarsi da tutte le zavorre.
Le liriche di Di Maro non sono la descrizione artificiosa di una vita, tantomeno l’esaltata tragicità di vari eventi, ma sono l’espressione di una finalmente svelata sfida alla realtà, sono la manifestazione di una situazione drammatica ignara della sua drammaticità. I riferimenti alla morte sono frequenti, a volte evidenti, a volte velati, a volte allude alla sua morte, a volte celebra quella di parenti o amici, altre volte la morte rappresenta la vita stessa. Marcuse affermava che Thanatos, insieme a Eros, è uno degli istinti primordiali in costante lotta contro la cultura e la civiltà che cerca di inibirli, sono in costante fusione e scissione, rappresentano il processo della vita [7], e lo possiamo evidenziare nei versi di Le anime suicide [8]:

«’A vita l’è accettà
…’a Morte t’a può scegliere»

LE ANIME SUICIDE

Stavamo sempre brancolando,

caduci all’urto
che,
estro repentino,
ci ottenebrò la mente.
Quando,
pronto a ghermirci,
demone partoriente,
noi
guasti a Dio
per armarci alfine
all’empio gesto
della disobbedienza.

La scelta di Thanatos, in assenza di Eros o a causa del suo tradimento, sembra al nostro poeta la scelta più ovvia anche come atto di ribellione contro una natura leopardianamente nemica, che prima lo illude e poi lo deride. Il Nostro rappresenta alla perfezione L’Albatro di Baudelaire, l’uccello immortalato dal simbolista francese quale alter ego del poeta; l’albatro è l’uccello che accompagna le navi e con le sue forti ali sfida le tempeste e domina il cielo, ma che quando non si libra nell’aria e procede sulle sue zampe sulla terraferma, proprio a causa delle sue lunghe ali, è goffo, cammina in modo ridicolo e viene deriso dai marinai. Otello, come l’albatro, quando scrive i suoi versi vola alto e libero, dominando la sua vita, mentre inserito in quel contesto sociale provinciale e moralista, si sente deriso, si sente fuori luogo e finisce col chiudersi nella sua «uggiosa misantropia».
La sua poesia fanopica e logopica, usando la dicitura di Ezra Pound [9], è fatta di immagini, flashback, che raccontano emozioni e stati d’animo, che coinvolgono il lettore e lo inducono a fare ricorso alla sua fantasia e alla sua memoria. Nelle sue liriche esplora il suo disagio, questo suo malessere legato alle tante vessazioni subìte a causa delle sue «diversità», discriminazioni che lo hanno accompagnato per tutta la sua vita, una vita fragile tenuta insieme dall’amore della madre, ma quando anche lei se n’è andata, non ha più retto, ha perso l’ultimo suo punto di riferimento e come la tennysoniana Lady of Shalott, stanco di guardare la sua vita riflessa in uno specchio, ha deciso di romperlo e di lasciarsi tutto alle spalle.
Otello Di Maro quest’anno avrebbe compiuto 80 anni, ma ha deciso di abbandonare questa vita la notte di Natale del 1998, se n’è andato in silenzio, in punta di piedi, senza fare rumore, cercando di non attirare l’attenzione, così come era vissuto, ha lasciato un grande vuoto, ma anche dei versi meravigliosi che sono il suo testamento e vorrei ricordarlo con la sua lirica Solitudine [10]:

«Ciò che maggiormente urta
dell’ipocrisia
è il suo paradosso»


SOLITUDINE

Nessuno               
che ti pensi            
in questo nulla       
da raccontarsi.       



Patrizia Ubaldi

(n. 11, novembre 2025, anno XV)



NOTE


[1] Otello Di Maro, L’autoepitaffio, Litografia Orchidea, Calvizzano (NA), 1999.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] David Daiches, A Critical History of English Literature, Secker & Warburg, London, 1969.
[5] Ibid.
[6] Giuseppe Montesano, Lettori selvaggi, Giunti, Milano, 2016.
[7] Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1974.
[8] Otello Di Maro, L’autoepitaffio.
[9] Ezra Pound, ABC of Reading, New Directions Paperbook, New York, 2010.
[10] Otello Di Maro, L’autoepitaffio.