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    La deriva del mondo, un universo di poesia 
       
     
     
    
 Non  esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero.  
      Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente;  
      ora ciò è permesso, ma non è più possibile.  
      Si può pensare soltanto ciò che si deve volere,  
      e proprio questo viene percepito come libertà. 
      (Oswald Spengler) 
     
      «Le poesie sono cristalli che sedimentano /  dopo l’effervescente contatto dello spirito con la realtà». Codeste  parole di Pierre Reverdy (En vrac) potrebbero illuminare prima hodierna luce (per dirla livianamente [1]) ogni possibile raccolta di versi. 
      La  poesia contemporanea, del resto, è nutrita culturalmente da autori di  riferimento: da Robert MacIver a Theodor Geiger a Joseph Stiglitz. Ma sono  forse certe parole di Zygmunt Bauman di Paura liquida a soccorrerci più  di tutte nel descrivere la rete ideativa che sottende la lirica moderna dei  nostri giorni oscuri: «La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che  il male si può  nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non ha  segni particolari né usa carta d'identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a  essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo  o potenzialmente arruolabile» [2]. «Le reti di legami umani, un tempo radure  ben protette e isolate nella giungla [...], si trasformano in zone di frontiera  in cui occorre ingaggiare interminabili scontri quotidiani per il  riconoscimento. [...] Complessivamente i rapporti cessano di essere àmbiti di  certezza, tranquillità e benessere spirituale, per diventare una fonte  prolifica di ansie» [3]. «La guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di  origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione  sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa» [4]. «La  comprensione nasce dalla capacità di gestire. Ciò che non siamo in grado di  gestire ci è ‘ignoto’; e l'’ignoto’ fa paura. La paura è un altro nome che  diamo al nostro essere senza difese» [5]. «La generazione meglio equipaggiata  tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come  nessun'altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza» [6].  
      È la poesia, quella contemporanea, dei  sopravvissuti all’ultima guerra per la vita ancóra in corso, in attesa  trepidante della catastrofe sentita e presentita come ormai imminente.  
      Infatti, scrive il sociologo e filosofo polacco, «I  pericoli che temiamo più sono immediati e dunque è comprensibile che  desideriamo rimedi anch'essi immediati: soluzioni ‘bell'e pronte’ che diano  sollievo sul momento, analgesici acquistabili anche senza prescrizioni mediche.  [...] ci infastidiscono le soluzioni che ci chiedano di prestare attenzione ai  nostri difetti e misfatti, che ci impongano – socraticamente – di ‘conoscere  noi stessi’» [7]. «La vera guerra al terrorismo – che può essere vinta – non si conduce devastando ulteriormente le  città e i villaggi semidistrutti dell'Iraq o dell'Afghanistan, ma cancellando i  debiti dei Paesi poveri, aprendo i nostri ricchi mercati ai prodotti di base di  questi paesi, finanziando l'istruzione per i 115 milioni di bambini attualmente  privi di qualsiasi accesso alla scuola e conquistando, deliberando e attuando  altri provvedimenti simili» [8]. «Chi è insicuro tende a cercare febbrilmente un bersaglio su cui scaricare l'ansia  accumulata e a ristabilire la perduta fiducia in sé stesso cercando di placare  quel senso di impotenza che è offensivo, spaventoso e umiliante» [9].  
      Così gli orrori della guerra senza fine e senza luogo  nella danza menata dai ‘signori della guerra’ russi, cinesi e americani e la  paura della ‘violenza metropolitana’ della Asphalt  Jungle di hustoniana memoria [10] trovano una traduzione poetica nei versi  così come ce li hanno raccontati recentemente Bauman. 
      «Come un circolo vizioso, la minaccia terroristica si  trasforma in ispirazione per un nuovo terrorismo, disseminando sulla propria  strada quantità sempre maggiori di terrore e masse sempre più vaste di gente  terrorizzata» [11]. «Come un capitale liquido, pronto per ogni genere di investimento,  il capitale della paura può essere – ed è – trasformato in qualsiasi genere di  profitto, commerciale o politico» [12]. «La paura c'è e satura quotidianamente  l'esistenza umana, mentre la deregulation planetaria penetra  fin nelle sue fondamenta e i baluardi difensivi della società civile cadono in pezzi»  [13].  
      E sì che, come dice il sociologo, «Possiamo  profetizzare che, a meno di essere imbrigliata e addomesticata, la nostra globalizzazione negativa, che oscilla tra il togliere la  sicurezza a chi è libero e offrire sicurezza sotto forma di illibertà, renderà  la catastrofe ineluttabile. Se non si formula questa profezia, e se  non la si prende sul serio, l'umanità ha poche speranze di renderla evitabile.  L'unico modo davvero promettente di iniziare una terapia contro la crescente  paura che finisce per renderci invalidi è reciderne le radici: poiché l'unico  modo davvero promettente di continuarla richiede che si affronti il compito di  recidere quelle radici. Il secolo che viene può essere un'epoca di catastrofe  definitiva. O può essere un'epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo  patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter  ancora scegliere tra questi due futuri» [14].  
    Come negli  ultimi dieci versi del mitico poema epocale, della moderna Commedía della modernità al Tramonto dell’Occidente [15], dove «the nymphs are departed», insieme  «ai loro amici, gli eredi bighelloni dei direttori di banca della city; / partiti senza lasciare indirizzo» [16]: 
    
      
        
            
              I sat upon the shore  | 
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              Fishing, with the arid plain    behind me  | 
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              Shall I at least set my    lands in order?  | 
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              London Bridge is falling    down falling down falling down  | 
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              Poi s’ascose nel foco che gli affina   | 
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              Quando fiam ceu chelidon — O swallow swallow  | 
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              Le Prince d’Aquitaine à la tour    abolie   | 
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              These fragments I have    shored against my ruins  | 
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              Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe.  | 
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              Datta. Dayadhvam. Damyata.  | 
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               | 
             
            
                    Shantih    shantih    shantih  | 
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      Sì, «Geronimo è pazzo di nuovo», gli antichi ritmi  circadiani del mondo e il succedersi millenario delle stagioni e dei tempi è  stato infranto, lacerato, bruttato, violato per sempre, a dirla  pasolinianamente [17], mentre ‘il deserto avanza’ [18] nel mondo diventato un  enorme ‘mercato-fogna a cielo aperto’. 
      È spesso un  rimare guittoniano, dal sentire morale risentito, dalle «rime aspre e chiocce»  [19], quella della poesia contemporanea, che non di rado ricerca  schoenberghiane dissonanze foniche e timbriche, striduli ossimori, infernali  metafore e metonimie, incalzanti sineddochi, in un engagement comunque  ‘anti-conviviano’, laddove la poesia è fuggita dal «profanum vulgus» [20] per  spiegare aristocraticamenteil  mondo. Ciò non toglie però che la  sostanza più profonda di codesta poesia resti comunque lirica e sentimentale: è  il dolore leopardiano del poeta che ci propone l’altro versante dell’analisi  del mondo, quello delle emozioni turbate e della bellezza ferita. 
      È una Weltanschauung,  questa, che mira a una conoscenza e a una denuncia della realtà mediante lo  strumento della poesia: ovvero l’intuizione, la percezione immediata e  immaginosa, l’espressione iconico-verbale petrosa attraverso un universo di  poesia che racconti, con accenti accorati – talora sommessi, talaltra rabbiosi  – la deriva inesorabile del mondo, la fiamma di un’antica civiltà che  nell’inciviltà e in un esiodeo ritorno al cháos primigenio sta spegnendo  – sotto la guida impersonale e imperscrutabile dei fati – per sempre sé stessa. 
       
     
    Roberto Pasanisi 
      (n. 12,  dicembre 2022, anno XII) 
           
       
           
        NOTE       
                   
      1. Titi Livi, Ab Urbe Condita Libri, I, 16: «Fuisse  credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manauit  enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio uiri et pauor  praesens nobilitauit. Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides.  Namque Proculus Iulius, sollicita ciuitate desiderio regis et infensa patribus,  grauis, ut traditur, quamuis magnae rei auctor in contionem prodit. “Romulus”, inquit, “Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo  repente delapsus se mihi obuium dedit”».   
  2. Zygmunt Bauman, Paura  liquida, Bari, Laterza, 2009, p. 86.  
        3. Ibidem,  p. 88. 
        4. Ibidem, p. 102. 
        5. Ibidem, p. 119. 
        6. Ibidem, p. 126. 
        7. Ibidem,  pp. 142-143. 
        8. Ibidem,  p. 137. 
        9. Ibidem,  p. 153. 
        10. JOHN HUSTON, The Asphalt Jungle (Stati Uniti, 1950), con uno  Sterling Hayden al culmine del glamour e del carisma filmico.  
        11. Ibidem, p. 154. 
        12. Ibidem, p. 180. 
        13. Ibidem, p. 190. 
        14. Ibidem, p. 220. 
        15. OSWALD SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 2 voll., Wien 1918; München 1922;  traduzione italiana O. Spengler, Il Tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una Morfologia di una Storia Mondiale, trad. di J. Evola, introduzione  di S. Zecchi, nuova edizione a cura di Calabresi Conte, Cottone, Jesi,Guanda,  Parma, 1995. 
        16. «The  river’s tent is broken: the last fingers of leaf / Clutch and sink into the wet  bank. The wind / Crosses the brown land, unheard. The nymphs are departed. /  Sweet Thames, run softly, till I end my song. / The river bears no empty  bottles, sandwich papers, / Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette ends  / Or other testimony of summer nights. The nymphs are departed. / And their  friends, the loitering heirs of city directors; / Departed, have left no  addresses» (Thomas Stearns Eliot, The  Waste Land, New York, W.W. Norton, 2001, III: The Fire Sermon, vv.  173-181). 
        17.  «Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e  repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista  e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con  dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è  stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano;  il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione  (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata,  violata, bruttata per sempre…» (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari,  Milano, Epoca!, 1988 [1975], p. 24). 
        18.  Metafora nietzscheana e poi severiniana, in uno con la questione del ‘dominio  della tecnica’ (del filosofo bresciano cfr., in particolare, Emanuele Severino, Il destino della  tecnica, Milano, Rizzoli, 1998; Natalino  Irti – Emanuele Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Bari,  Laterza, 2001; Emanuele Severino, Téchne.  Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002; e Id., Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della  tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 2005). Cfr. anche Roberto Pasanisi, Il deserto avanza (Editoriale), in  “Nuove Lettere”, XIX, 13, 2008, pp. 27-32; Id.,Il deserto avanza,  in “All Europa.ru” (Интернет-журнал «Вся  Европа.ru»), MGIMO State University of  International Relations, European Studies Institute, Moscow, www.mgimo.ru/alleurope/2006/21/bez-perevoda2.html, http://alleuropa.ru/index.php?option=com_content&task=view&id=656, 4, XXI, aprile 2008; e Id., Il deserto avanza, in “Il  Pensiero Mediterraneo” (Incontri di culture sulle sponde del Mediterraneo),  4/XI/2022, https://www.ilpensieromediterraneo.it/il-deserto-avanza-di-roberto-pasanisi/. 
        19. Inf., XXXII, 1. 
        20. «E io  adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo,  a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco  la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento  in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me  dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro,  già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi» (Convivio, I, 1, 10). Ma cfr. appunto l’«odi profanum vulgus, et  arceo» che dà l’incipit al libro III delle Odi di Orazio.       
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