Quando la commedia non fa ridere. Le donne del teatro di Natalia Ginzburg

Sono pochi, nella storia della letteratura italiana contemporanea, i casi di madornale misreading come quello del teatro (ma anche della figura intellettuale) di Natalia Ginzburg (1916-1991). I più si ostinano a parlare solo di continuità con la scrittura in prosa, di femminismo, persino di ebraismo. E soprattutto di comicità. Siamo però dell’opinione che tutte queste proposte di visione pecchino per ristrettezza di inquadramento ed è per questo che sottoponiamo all’attenzione del lettore un’interpretazione fondata, da una parte, sul contesto culturale contiguo all’autrice, dall’altra sul contesto sociale più ampio in cui scrive la Ginzburg.

Nel 1962, a 17 anni dalla conclusione della guerra e a 19 dalla caduta del regime fascista, finalmente cadde anche la censura. Il processo era stato innescato da due commedie che avevano agitato seriamente la vita teatrale italiana: l’Arialda di Giovanni Testori (1961) – che aveva suscitato un immenso scandalo, perché era intollerabile la rappresentazione della storia d’amore violenta di una sarta, sorella di un omosessuale – e la Governante (1952) di Vitaliano Brancati, la cui messa in scena era stata ostacolata: anche la storia di una lesbica protestante dava fastidio al pubblico perbene. Però a due anni dal momento della liberazione delle scene tardavano ancora ad apparire «le opere nel cassetto», la cui esistenza tutti sospettavano e auguravano. Opere che erano destinate a rinnovare il teatro italiano. Cosicché una delle più note riviste di teatro in Italia, «Sipario», indice nel 1964 un’inchiesta, condotta da Marisa Rusconi e destinata agli scrittori [1]. Si desiderava conoscere la loro posizione rispetto al teatro e la loro intenzione di scrivere anche drammaturgia, appunto per poter partecipare al rinnovamento teatrale nazionale. Risponde alle tre domande un numero di trentuno scrittori e le loro risposte, il più delle volte, convergono verso le stesse posizioni. Tra gli intervistati ci sono stati anche Natalia Ginzburg e il marito Gabriele Baldini, che sono dell’opinione che in Italia manchi – prima degli autori, prima dei testi – una lingua italiana media. Gabriele Baldini propone addirittura un termine ibrido come ibrida è la lingua che si parlava sui palcoscenici del tempo: l’«italiese», idioma apparentato piuttosto con l’inglese che con l’italiano. La Ginzburg riconosce come unico autore valido per la rappresentazione Eduardo De Filippo e si dichiarava piuttosto incredula che in futuro sarebbe approdata alla scrittura drammatica per propria incapacità di adattarsi alle esigenze di questo genere.
Dopo questa dichiarazione tendenzialmente definitiva, prima della fine del 1964 e prima della pubblicazione del n. 229 di «Sipario», in cui sono pubblicati i risultati dell’inchiesta, Natalia Ginzburg pubblica già la sua prima commedia, Ti ho sposato per allegria (1964) [2], un testo con cui già instaura un pattern di scrittura che ulteriormente avrebbe soltanto riproposto nei seguenti dieci testi drammatici, estesi su diciassette anni [3]. Infatti tra i due generi, quello epico e quello drammatico, la Ginzburg propone soluzioni di evidente continuità: linguaggio prosastico, quotidiano, fatto di frasi trite, di dialoghi sterili; la presenza della prima persona, strumento che dichiara di controllare meglio e l’unico che le permetta di esprimersi ecc.
Chi ha parlato di femminismo nella creazione della Ginzburg non aveva del tutto torto. In tutti questi testi sono le donne ad avere il ruolo di protagonista, soltanto che non si può parlare di femminismo nei termini in cui esso è stato proposto alla nostra cultura contemporanea ma piuttosto di una particolare attenzione dell’autrice a una materia che meglio conosceva e padroneggiava. Infatti l’autrice era già cosciente dell’impossibilità di scrivere romanzi in terza persona, di vivere in un epoca dell’io il più delle volte autobiografico. La Ginzburg si limita a presentare figure di donne a lei contemporanee, senza giudicare, senza pretendere di offrire un inquadramento socio-psicologico. Si gode la libertà di poter moltiplicare quell’io, di poter presentare tante altre biografie fittizie (v. Filo diretto Dessì-Ginzburg, «Corriere della sera», 10 dicembre 1967). Le donne portate davanti allo spettatore sono a prima vista prive di qualsiasi interesse, sono perlopiù donne indifferenti, insensibili, disoccupate, non sanno fare niente, non sanno stare da sole al mondo e per questo si cacciano nei rapporti più disastrosi, che loro identificano come tali sin dall’inizio.

La figura della «randagia»

La figura della «randagia» è sicuramente la più presente. Giuliana di Ti ho sposato per allegria è una tale ragazza, scappata di casa a causa della povertà e dei continui conflitti con la madre, a sua volta una tipologia a sé stante. La randagia non sa fare niente, non ama fare niente, preferisce essere scelta da un uomo qualsiasi, che può anche amare o no, dal quale sa che sarà comunque abbandonata prima o poi. Giunta alla disperazione non può che buttarsi tra le braccia del primo disposto a dare un po’ di stabilità alla sua vita, eventualmente anche sposarlo. Però la caratteristica principale di tale donna è la freddezza di pensiero, la lucidità con cui capisce la sua vera situazione, con la quale mette a nudo davanti agli occhi di tutti gli eventi della sua vita. Senza malizie, senza secondi fini.
In Fragola e panna (1966), Barbara immedesima questo stesso concetto: moglie e madre troppo giovane, si fa coinvolgere in una relazione con Cesare («Un uomo da niente. Freddo. Cinico. Limitato. Forse anche molto stupido»; p. 153) e decide di abbandonare il marito e il figlio («Flaminia: Mi sembra che tu sia totalmente priva di responsabilità. Barbara: Le sembra? sembra anche a me»; p. 142), senza però assicurarsi che l’amante la voglia. Anche se egli vive con la moglie Flaminia una situazione di compromesso tanto particolare allo spazio italiano, dove il divorzio è stato possibile solo dopo il 1971, non è per niente disposto a cambiare quello stato di cose e l’amante non ha posto nella sua vita. Da tutti sbattuta da tutte le parti, gli stessi che ora si preoccupano per lei, ora la mandano chissà dove, alla fine della commedia nessuno sa più che fine avrà fatto e che cosa ne sarà di lei in futuro.
Il titolo di «randagia» nasce invece appena con la quarta commedia, La segretaria, 1967, dove Silvana è spacciata dall’amante Eduardo per segretaria in una famiglia di conoscenti che avrebbe bisogno di tutto (di una badante per i figli, di una donna di servizio, di un veterinario persino) ma non di una segretaria. Che comunque Silvana non è. Ha abbandonato la casa dei genitori esaurita dalle crisi isteriche della troppo fertile madre, che non le ha insegnato niente. Non ha un lavoro, non ha una casa (dorme nel sacco a pelo nei bagni delle signore benefacenti!), si attacca senza amore all’editore Eduardo, sposato, sporco, pigro, alcolizzato, fallito che si sparerà e la lascerà a carico di estranei che non la vogliono in casa loro e si preparano a buttarla in strada. Il tutto all’aperto, sotto gli occhi indifferenti di Silvana stessa. Man mano che parlano tra di loro, i vari personaggi compongono il ritratto di tale ragazza, un tassello dietro all’altro:
«Titina: Una di queste ragazzette che girano oggi. Senza cuore, senza sentimenti, senza affetti. Una di queste ragazzette randage (p. 176). Sono queste ragazzette di oggi, strampalate, assurde, senza cuore, senza sentimenti, senza memoria (p. 203). Non ha orgoglio. Sono queste ragazzette moderne, senza orgoglio, senza dignità. Ragazzette che non arrossiscono mai (p.208). Lei non piange. Non ha nemmeno una lacrima. Prende, piglia, va, ritorna, si prende un uomo, se ne prende un altro, butta via quello, butta via quell’altro (p. 210).
Nino: Una di queste ragazzette che girano adesso. Non hanno dei sentimenti veri. Non hanno futuro […] Non chiedono niente, e non hanno da dare niente a nessuno» (p. 190).
Anzi, oltre ad ascoltare e accettare tutte queste caratterizzazioni, Silvana stessa è cosciente del suo modo di stare al mondo e delle scelte che ha deciso di fare: «Non mi piace voler bene alla gente. Trovo che fa male al cuore» (p. 213).
La storia di Giuliana, di Barbara oppure di Silvana si scopre attraverso le loro stesse dichiarazioni, fatte con indifferenza, senza false vergogne, falsi orgogli (Silvana è talmente abituata agli schiaffi della madre che quelli degli altri non la offendono minimamente). Nel teatro della Ginzburg ci sono anche dei personaggi assenti che appartengono alla stessa categoria: Lucianella Calabrò (L’intervista, 1965), la ragazza ungherese (La porta sbagliata, 1968), le cui storie arrivano frammentarie agli altri.

La figura della moglie


A volte, la randagia può avere anche un briciolo di fortuna e uscire da questa categoria per diventare moglie. Un matrimonio senza amore, fatto in fretta e furia. Per esempio, Giuliana (Ti ho sposato per allegria), che, dopo aver «gironzolato per le strade» (p. 20), dopo aver avuto una storia – anche importante! – con un uomo che ha lasciato un’impronta per niente insignificante sulla sua formazione mentale («avevo imparato a pensare»; p. 23), ma che l’aveva abbandonata incinta senza una parola, si è imbattuta in Pietro, che si è facilmente persuaso a sposarla:«Giuliana: E io gli ho detto: Sposami! Perché se non mi sposi tu, chi mi sposa? (p. 30). Ma ero disposta a sposare chiunque» (p. 16), per la semplice ragione che, a differenza di tante altre donne che aveva incontrato, Giuliana non era una vespa. Anche se era stata lei a chiedergli di sposarla, anche se ciò si era dimostrato una soluzione per lei, è ancora lei a chiedersi continuamente e a torturare il marito con la stessa domanda: «Giuliana: Ma se non sappiamo nemmeno bene, perché siamo sposati! Non facciamo che domandarci perché, dalla mattina alla sera! (p.33) Ci siamo sposati come se stesse bruciando la casa. Perché? Non era meglio riflettere un poco? […] E invece non abbiamo riflettuto affatto, e ci siamo sposati come due stupidi, io anche per i soldi, tu anche perché ti facevo pietà (p. 40). Trovo che sei una persona leggera. Sposandomi hai dato prova di una gran leggerezza» (p. 32).
Il matrimonio di Marta e Francesco (Dialogo, 1970) è in crisi per le stesse ragioni, ma non si concluderà, nonostante l’adulterio di Marta: «Marta: È perché non sei mai stato innamorato di me. Non ho mai capito perché mi hai sposato» (p. 91).
Anche Teresa (L’inserzione, 1965) è una randagia («Io a vent’anni sono scappata via dal paese»; p. 85) che ha vinto: ha sposato un uomo che, anche se all’inizio non le interessava, ha finito per amare in tale misura da essere capace di uccidere per gelosia. L’ha capito anche l’ex marito, Lorenzo: «Mi sono unito a lei per unirmi a una ragazza matta, scombinata, confusa» (p. 108).
Le altre donne sposate, di cui il più delle volte non sappiamo gli antecedenti del matrimonio, vivono in uno stato di continua infelicità, che a volte risolvono in un adulterio (la donna di La parrucca, 1971; Marta di Dialogo, Bianca di Paese di mare, 1968), oppure non cercano alcuna soluzione (Flaminia di Fragola e panna). Poche riescono a staccarsi da quell’ambiente cupo e andare via: Ada de La poltrona, di cui non sappiamo che fine ha fatto, Sofia de La segretaria, che ha preferito lasciare all’improvviso il marito per rendere felici entrambi («Mio marito rientrava, si metteva seduto sul letto e guardava nel vuoto. Era disperato. Ma non per i soldi. Era disperato di dover vivere con me»; p. 182) oppure Angelica de La porta sbagliata che ha lasciato un uomo che amava per un altro (Tecla: «Non sa vivere da sola. Non sa vivere né con un uomo, né sola»; p. 152) che tormenta con le sue malattie e crisi di gelosia per il primo marito (Stefano: «L’ho sposata perché aveva bisogno di me»; p. 167).

Le donne capaci di amore

Però le donne ginzburghiane sono anche capaci di amore. Sofia ama segretamente e intensamente il suo editore Eduardo, per il quale fa delle traduzioni di romanzi gialli di scarsissimo valore letterario e agli amori del quale è costretta ad assistere. Ilaria de L’intervista rimane lungo i dieci anni dell’azione della commedia (e sicuramente anche molto di più) accanto a Gianni Tiraboschi, anche lui sposato, con un figlio, che ha un’altra amante più giovane di lui, che si perde umanamente e professionalmente quando questa lo lascia. Anzi, invece di voler vendicarsi delle storie di lui, quando lo vede a terra prova a riproporlo all’attenzione del pubblico, anche se questo l’avrebbe portato di nuovo in giro per tutta l’Italia a fare conferenze e a trovare donne affascinate dalla sua intelligenza.
Ma la figura della donna innamorata rimane Teresa de L’inserzione. Sposata con un uomo che, nei primi tempi, si dimenticava di tornare nel letto dove l’aveva lasciata, un uomo che aveva capito da subito cosa sarebbe stato il loro matrimonio, che le dichiara apertamente che «lo [faceva] vivere come in una bufera di sabbia [...], che sembrava [con lei,] di sprofondare in un pozzo di acqua nera, torbida, putrida, e di perdere, a poco a poco se stesso» (p. 102), quando egli è finalmente riuscito a staccarsene disperato e ad andare a vivere di nuovo con sua madre, quando lei è più convinta che mai che egli non le voleva bene si attacca a lui con la furia che soltanto la psicosi le può dare: lo tormenta di telefonate, pretende che egli si prenda ancora cura di lei, che vada a trovarla, sotto vari pretesti. Quando proprio in casa di lei Lorenzo trova una ragazza di cui si innamora, l’equilibrata e silenziosa Elena, Teresa, nonostante le dichiarazioni di amicizia e pace, le spara e poi chiama Lorenzo per comunicarglielo.

La donna di servizio

Nelle prime commedie di Natalia Ginzburg appare anche un altro tipo di donna, del tutto opposta alle protagoniste, ma che infatti ritornava nella letteratura italiana perché, alla fine dell’Ottocento, aveva goduto di numerosi e illustri esempi: la donna di servizio – Vittoria di Ti ho sposato per allegria, Tosca di Fragola e panna, Perfetta de La segretaria. Sono donne che appartengono quasi sempre allo stesso ceto sociale delle padrone – donne del popolo – ma la loro situazione al paese era migliore rispetto a quella delle ultime. Anche se Tosca e Perfetta rimpiangono la città con i suoi agi, tutte ricordano con nostalgia gli anni trascorsi in paese, accanto a delle famiglie normali, a delle madri operose e presenti nelle vite delle figlie. Il fatto che appaiano nei primi testi e negli ultimi invece siano assenti potrebbe essere interpretato come una reminiscenza del Neorealismo: in assenza di un suo qualsiasi giudizio nei confronti delle proprie protagoniste, la Ginzburg sembra aver voluto dare al pubblico un elemento di paragone. Il periodo sarebbe quello e sembra trovare conferma anche in una battuta della madre di Pietro (Ti ho sposato per allegria): «Oggi è molto difficile trovare delle brave ragazze. Non vogliono più andare nelle case, preferiscono andare in fabbrica. E allora, in fabbrica, trovano i comunisti, e così poi, quando sono stanche del lavoro in fabbrica, se ne vengono nelle case, hanno idee sovversive» (p. 59). Integrate nelle rispettive famiglie, nel bene e anche nel male, le domestiche non si trovano mai bene nelle case dei loro padroni, appunto perché più dotate: psichicamente sono più forti, socialmente meglio adattate.

L’essere donna nelle protagoniste ginzburghiane

Gli anni in cui Natalia Ginzburg dà i primi testi teatrali, considerati anche i migliori, sono gli anni che precedono e succedono di poco il ’68, con tutto il suo contesto. Gli anni del boom economico si erano conclusi, l’Italia si preparava infatti alla crisi degli anni ’70. I mutamenti sociali iniziati con il secondo dopoguerra o si erano esauriti o si erano già dimostrati fallaci. Un’intera generazione di giovani si trovava allo sbando e tentava di trovare un senso alla vita. Gli uomini del teatro ginzburghiano – eccezion fatta per Marco di Paese di mare e Stefano de La porta sbagliata – appartengono alla borghesia. Le madri, vecchie vedove, sono ancora in possesso del patrimonio di famiglia e a loro accorrono sempre i figli per un supporto finanziario. A volte sono in silenzioso conflitto con i figli, che «danno [loro] dispiaceri» e che sposano delle ragazze «randagie» per fare un dispetto alla madre.
Invece le ragazze che questi uomini sposano sono esempi tipici del proletariato povero di campagna, figlie di madri sole che si sono fatte in quattro per tirarle su e che adesso non sono più all’altezza delle vite che le figlie desidererebbero. Queste sono capaci di tutto per evitare di fare la stessa vita delle madri. Ed è ancora la loro lucidità ad averla vinta: fredde, insensibili, scelgono di allontanarsene quanto più possibile. Anche se nessuna delle «randagie» appartiene alla gente che avrebbe partecipato al ’68, ne respirano l’atmosfera: mettono in pratica la libertà sessuale, la libertà di opinione, la libertà di parola, sensata o meno (Giuliana: «Come parliamo a vanvera noi! Come parliamo saltando di palo in frasca! […] Non facciamo mai un discorso ben costruito»; p.73) e, non poche volte, sembrano parlare come a se stesse, indifferenti alle regole sociali della conversazione. Come affette da autismo, non mettono alcun filtro al loro cicaleccio, non temono di ferire le persone, come non temono di esporsi al pubblico ludibrio raccontando i più intimi e umilianti fatti della loro vita.
Questo loro continuo conversare ha spinto molti a parlare di «teatro della parola» nella drammaturgia della Ginzburg, il che costituisce un errore significativo.
Il sintagma «teatro di parola» è stato proposto da Pier Paolo Pasolini nel suo testo Per un nuovo teatro  (1968), passato però alla storia con il nome di Manifesto del teatro di parola. Dalle sue posizioni di sinistra, Pasolini ha un’idea molto chiara di cosa voglia intendere: pensa alle parole che contengono l’azione, che sono marchi della lotta ideologica, che – anche in assenza di una rappresentazione o dell’azione – comunicano ugualmente il loro messaggio anarchico e, allo stesso tempo, costruttore del testo. Quindi «teatro di parola» vuol dire teatro di dibattito interno al testo drammatico stesso, condotto dai «gruppi avanzati della borghesia [cioè] le poche migliaia di intellettuali di ogni città»: «negli spettacoli del teatro di Parola [...] ci sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto più critico che rituale» (Pasolini, 1995: 715,719).
Non è il caso del teatro di Natalia Ginzburg. Nei suoi testi neanche chi si spaccia per intellettuale (la maggioranza degli uomini pretendono di essere scrittori) propone almeno un’idea, conduce un discorso articolato su una tematica scottante della contemporaneità, magari su un tema culturale atemporale. Nella stessa misura in cui nessuna delle protagoniste propone discorsi oppure azioni atte a determinare un mutamento dello stato di cose e questo ci fa affermare che la Ginzburg è lontana dalle posizioni femministe.
Oppure si è parlato del teatro ginzburghiano come «teatro di poesia», dove tale teatro veniva assimilato al «teatro di parola» (G. Fink, «Il Mondo», 1 nov. 1973; apud Taffon, 2012:97, 105; ma anche Taviani, 1995: 204). Già le parole di Giorgio Taffon vengono a delimitare l’imprecisione di questa catalogazione: «Direi che Natalia ha compreso l’ineffabile poesia del teatro, piuttosto che sostenere e difendere il teatro di poesia» (Taffon, 2012: 99).
Molto più vicine sono invece le posizioni espresse da Alberto Moravia nel saggio La chiacchiera a teatro (1967). Partendo dalle posizioni heideggeriane e riprendendo i commenti del filosofo tedesco, Moravia dimostra come l’adozione della parola chiacchiera non comporta per niente un significato peggiorativo, ma si riferisce alle valenze comunicative che il dialogo a vuoto assume. La chiacchiera si dimostra essere un «chiudersi», ma, allo stesso tempo, anche conferma del fatto che, a un certo momento, è possibile che la conversazione si sviluppi e siano trasmessi pure dei contenuti carichi di senso. Allo stesso tempo però «la chiacchiera non è comunicazione, comprensione, intendimento bensì modo di esistere o di comportarsi» (Moravia, 1998: 869).
Moravia porta come esempio appunto un autore che anche la Ginzburg considerava uno dei migliori modelli da seguire (oltre a Eduardo de Filippo) e del quale aveva curato l’edizione delle opere per la casa editrice Einaudi, della quale era stata redattrice per anni: Čechov. Nell’opera del russo, dimostra Moravia, la chiacchiera si fa presaga, cioè non soltanto testimonia le capacità trasmettenti del canale, ma si carica di aspettative [4].
Infatti la carriera drammatica della Ginzburg inizia alla metà degli anni Sessanta, dopo circa dieci anni di prosperità economica, in cui la vita degli italiani era cambiata profondamente, tanto a livello del tenore di vita quanto al livello delle strutture identitarie. Specialmente le donne, uscite da decenni di sottomissione all’uomo, arrivate in tante a forme di preparazione scolastica prima poco scelti o accessibili, cambiano soprattutto di mentalità. Basti pensare a una cosa apparentemente minore ma che rappresenta l’esito di anni di battaglie femministe: l’anno di scrittura della prima commedia della Ginzburg corrisponde all’apparizione della minigonna. La donna, ancora di più se giovane, più che fisicamente si mostra, si spiega agli altri socialmente e psicologicamente.
In un tale periodo di apertura senza precedenti, le protagoniste ginzburghiane non riescono, anche se l’età le favorisce per simile inserimento sociale, a dare un indirizzo alle loro vite. Sono continuamente in attesa di una soluzione esterna dei loro problemi, sono sempre dipendenti – finanziariamente e affettivamente – da altri, sebbene il loro coinvolgimento volitivo sia minimo. Esse veicolano i diritti conquistati di recente dalle loro coetanee: parlano liberamente di sesso, di aborto, di contraccezione (la pillola era arrivata da poco ma veniva ammessa soltanto quale trattamento ginecologico in varie patologie, tanto che i medici e i farmacisti facevano esercizi di fantasia per poterla prescrivere), ma non condividono con quelle anche le scelte di evoluzione sociale ed indipendenza.
Varie sono state le circostanze che hanno spinto Natalia Ginzburg a mettere al centro del suo teatro la donna piuttosto giovane della sua contemporaneità: l’essere donna, la speranza di scappare dalla trappola dell’uso logoro della prosa (autobiografica), l’amicizia con Adriana Asti oppure con Giulia Lazzarini ecc. Ma un ruolo decisivo in questa scelta l’ha avuto anche l’intero contesto socio-culturale al quale la scrittrice partecipava. In un mondo continuamente soggetto a cambiamenti velocissimi, la Ginzburg sofferma l’attenzione sullo stato di perpetua insicurezza delle persone – di tutte le persone, uomini e donne, senza distinzione – che non sono riuscite e neanche sembrano poter diventare capaci di inserirsi nel flusso del loro tempo. Lucidi, a volte persino atroci, i protagonisti ginzburghiani vivono all’unico livello di azione al quale la loro inabilità sociale li limita: quello della parola. Essa arriva quindi ad assumere un duplice aspetto antitetico: più si svuota di senso, più si carica di tensione. Una tensione verbale che però non si sa se mai troverà uno sfogo o se continuerà a tormentare e consumare le persone più della stessa vita vissuta.




Roxana Utale
(n. 4, aprile 2016, anno VI)


NOTE

1. No. 229, maggio 1965. Sono stati intervistati: Alberto Arbasino, Gabriele Baldini, Nanni Balestrini, Carlo Bernari, Luciano Bianciardi, Libero Bigiaretti, Carlo Bo, Laudomia Bonnani, Dino Buzzati, Giuseppe Cassieri,Oreste Del Buono, Ennio Flaiano, Araldo Fraiteli, Natalia Ginzburg, Francesco Leonetti, Luigi Malerba, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Ercole Patti, Guglielmo Petroni, Guido Piovene, Salvatore Quasimodo, Luigi Santucci, Leonardo Sciascia, Mario Soldati, Giovanni Testori, Franco Vegliani, J. Rodolfo Wilcock.
2. Il primo volume di teatro della Nostra è del 1968 e porta proprio il titolo di questa commedia. Raccoglie i testi: Ti ho sposato per allegria, L’inserzione, Fragola e panna, La Segretaria. Le citazioni di questo studio inviano al volume edito dalla Einaudi nel 1997. Per il resto delle commedie invece abbiamo adoperato il volume Teatro, Einaudi, Torino, 1990.
3. Sembra che l’ultimo testo teatrale dell’autrice, Il cormorano (1991), sia stato anche l’ultimo testo letterario pubblicato prima della sua morte.
4. Per approfondimenti, v. Roxana Utale, Naraturgii, Editura Universităţii din Bucureşti, 2009.



Bibliografia

Ginzburg, Natalia – Teatro, Torino, Einaudi, 1990.
Ginzburg, Natalia – Paese di mare, Milano, Garzanti, 1973.
Moravia, Alberto – Tutto il teatro, Milano, Bompiani, voll. II, 1998.
Pasolini, Pier Paolo – Teatro,Milano, Garzanti, 1995.
Taffon, Giorgio – Maestri drammaturghi del teatro italiano del ’900, Roma-Bari, Laterza, 2012.
Taviani, Ferdinando – Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995.