Arnoldo Foà, la voce dai mille volti

Quando ho accettato di scrivere queste righe l’ho fatto per dimostrare qualcosa. Io ed altri sappiamo che cosa e perché. Soltanto poi mi sono resa conto che, anche se mi occupo da più di quindici anni del teatro italiano del Novecento, non so che dire di Arnoldo Foà (1916-2014). Così come non so che cosa si potrebbe dire – da me oppure da altri – di attori che non si è mai visti sul palcoscenico. Oppure quanto onesto sarebbe farlo. Credevo di non sapere nulla di lui: l’ho ritrovato solo in lunghi elenchi di attori, registi, anzi ho saputo anche delle commedie che ha scritto (Signori buonasera, La corda a tre capi, Il testimone, Amphitryon Toutjour e Oggi), potevo ricostituire il suo percorso da varie fonti. Ma non avevo un legame con lui.

Non sapevo non fosse vero.Tra le prime cose indicate da una qualsiasi nota bibliografica su Arnoldo Foà c’è che è stato «un attore italiano di origini ebraiche». Da un pezzo mi occupo anche della Shoah in Italia ma non avevo neanche su questa filiera informazioni su di lui: generalmente gli ebrei di cui scrivo io sono rimasti in Polonia o in Germania. Mi sono imbattuta in altri Foà – storici, critici, sociologi – ma lui no. Mentre giravo intorno alle stesse informazioni – che è stato una delle figure emblematiche del Novecento italiano, che ha conosciuto di persona tutti i grandi nomi del teatro italiano di quel secolo e che hanno condiviso il palcoscenico (Andrea Pagnani, Lea Massari, Lea Padovani, Ruggero Ruggeri ecc.), che ha lavorato per alcuni dei maggiori registi del teatro (Guido Salvini, Luchino Visconti, Jean Giradoux, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Luigi Squarzina), che ha interpretato i testi di quasi tutti i grandi della drammaturgia (Sofocle, Euripide, Eschilo, Aristofane, Plauto, Ruzzante, Tasso, Shakespeare, Calderon de la Barca, Molière, Gozzi, Goldoni, Shiller, Hugo, Turgheniev, Gogol, Ibsen, Wilde, Faydeau, D’Annunzio, Pirandello, Steinbeck, G.B. Shaw, Hemingway, Anouilh, Cocteau, Ayn Rand, Pasolini ecc.), che è stato voluto da grandi registi internazionali di film (Orson Welles per Il processo, Jacques Deray per Borsalino, Ettore Scola per Gente di Roma ed altri 100 e passa registi), che è stato sposato quattro volte, che ha avuto problemi con il fisco e si è autoesiliato alle Seychelles ecc. –, ho scoperto che ha doppiato Antony Quinn in La strada di Fellini. Un clic e come per miracolo tutto è diventato chiaro. Lo conoscevo, avevo un legame con lui. Era una delle voci!

Negli anni ’80 ero terrorizzata dalla televisione bulgara, dove una signora di una certa età (che a me sembrava sempre la stessa signora) doppiava con voce tabagica le ragazzine dei film. Quindi ho sempre biasimato anche gli italiani per la consuetudine di doppiare i film. Non so quante volte mi hanno rovinato il piacere di vedere un film perché Greta Garbo, John Wayne, Clark Gable oppure Elisabeth Taylor erano stati depredati delle loro tanto specifiche voci che erano state sostituite da quelle di ignoti. Oggi è stata la prima volta che non mi sono tanto accanita contro di loro. La voce messa nella bocca di Antony Quinn in Zampanò, in Barabba, di Kirk Douglas in Jim Deakis, di John Wayne in Craic McCoy, di Peter Ustinov in Nerone di Quo vadis, di Toshiro Mifune nella parte di Tajomaru, ma anche quella di Broderick Crawford in Augusto di Il bidone di Fellini e di tanti altri era stata sempre la sua, di Foà. Carnosa, vibrante, dal basso-ventre.

L’era tecnologica che viviamo mi ha regalato però di più: negli anni ’60 sembra che in Italia fosse nata una vera moda – la poesia registrata su dischi di vinile, nella lettura di grandi voci. Alcune di queste registrazioni si trovano adesso in rete. Così che oggi, in una Bucarest sepolta nella neve, come ritagliata dai poemi russi, ho spento le luci in tutta la casa e mi sono concentrata solo sull’udito – il mio legame con Arnoldo Foà e mediante lui con Leopardi, Neruda, Lorca, Borges, Dante, Khalil Gibran, Carducci, ma anche San Francesco. Una lettura normale come una conversazione tra amici, senza l’enfasi gratuita, senza traccia alcuna dell’arte dei mattatori italiani, senza desiderio alcuno di impressionare. Però con un fraseggio impeccabile, in cui l’unica meta sembrava fosse la logica del testo e il messaggio da trasmettere. Appunto perché in questo periodo scrivo sulla storia italiana della metà nel Novecento, mi sono immaginata come sarà stata la notizia della firma dell’armistizio tra italiani ed Alleati, l’8 settembre del 1943 pronunciata dalla voce di Foà dal microfono della radio alleata PWB installata a Napoli, dove le leggi razziali l’avevano costretto a rifugiarsi abbandonando la scuola di arte drammatica che stava frequentando a Roma? Ho pensato anche allo sconosciuto la cui voce dirà sempre ai romeni «Non spegnete le radio! Segue un comunicato di estrema importanza per il Paese» e a che arnese terribile è la radio per un attore: gli ruba il volto per regalargliene altri mille, nessuno suo però; lo rende dio per uno dei sensi e un perfetto ignoto per un altro. Ma ho anche ascoltato e visto ciò che da adesso mi pare l’unica possibile interpretazione, letto di Procuste per altri attori, nel monologo da Novecento di Alessandro Baricco con la regia di Gabriele Vadis, quando Foà aveva quasi 90 anni e quando la vena vitale non sembrava ancora esausta nell’attore.

Da un paio di settimane è questo l’unico Arnoldo Foà che la nostra stragrande maggioranza conoscerà, coloro di noi che non l’abbiamo mai visto a teatro, coloro di noi che non siamo cresciuti con le sue interpretazioni nelle produzioni di televisione L’isola del tesoro, David Copperfield, Capitan Fracassa oppure Marcovaldo.



Roxana Utale
(n. 2, febbraio 2014, anno IV)