Quel potere sotterraneo che nega la democrazia. Rileggere Sciascia

Dopo 22 interviste con insigni personalità italiane e romene, pubblicate in questa rivista, è venuto il momento di proporre qualcosa di nuovo, pur senza rinunciare del tutto alle interviste: una rubrica nella quale – con la collaborazione di tutti i colleghi italiani e italianisti, che qui invitiamo a partecipare – riportare alla memoria collettiva testi e autori da non dimenticare.

Inizierò con Leonardo Sciascia (1921-1989) cui intendo consacrare la prima serie di articoli. Perché Sciascia? Perché lo conosco bene e perciò spero di presentarlo correttamente; perché gli ho dedicato una monografia pubblicata sia in Romania sia in Italia, insignita dell’importante premio letterario Ennio Flaiano, che speravo destasse l’interesse degli editori romeni per questo scrittore e, dato che questo non è avvenuto, lo ripropongo qui e ora.
Scrivendo quella monografia in romeno avevo la certezza di rivolgermi a lettori che conoscevano forse poco o affatto l’uomo Sciascia e la sua opera (benché parzialmente tradotta negli anni ’80), che avevano probabilmente un’idea piuttosto vaga e forse deformata della storia politica e culturale dell’Italia nella seconda metà del Novecento, ma che sicuramente avevano vissuto, almeno in parte, la nostra dittatura (non molto dissimile dall’«eterno fascismo italiano» di cui parla Sciascia), col suo controllo ideologico e la sua polizia politica (che ha tante cose in comune con l’OVRA, ma anche con l’Inquisizione spagnolesca della Sicilia, che ritornano ossessivamente in Sciascia); che, dopo, hanno vissuto la grande speranza della libertà e del cambiamento (come la Sicilia nel dopoguerra) per vedere poi come i più fedeli della dittatura di ieri diventano i più zelanti fautori della democrazia di oggi, sparpagliandosi per i vari partiti politici dei vari colori e servendosi di qualsiasi ideologia purché, al governo o in opposizione, rimangano dentro l’apparato, dentro quella struttura compatta che è il potere effettivo e non trasparente (il Leviatano di Sciascia); che hanno visto come la confusione legislativa della transizione è abilmente usata per dirottare i soldi pubblici verso tasche private o di vari partiti politici; come le vecchie relazioni personali si riannodano per costituire gruppi di potere economico sotterraneo, cosche di vario grado ed estensione, che la stampa, finalmente libera ed impotente, chiama, con parola prettamente siciliana, «mafie», e parla di «baroni locali» (termine assolutamente estraneo alla tradizione storica romena, ma familiare a quella siciliana, e diventata corrente nella stampa romena di oggi) ecc. ecc. Sapevo cioè che, indifferentemente dal grado di cultura e d’informazione letteraria del mio lettore romeno, lui avrebbe avuto uno spessore di esperienza vissuta che giustificava di per sé l’incontro con  Sciascia. Oggi credo che Sciascia dovrebbe essere ricordato non solo ai lettori romeni ma anche agli italiani.

In questo primo articolo vorrei occuparmi di un romanzo e di una formula costante e caratteristica di Sciascia: il giallo. Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo, Il cavaliere e la morte, Una storia semplice: non sono molti, se si pensa ai professionisti del genere, e, tuttavia, Sciascia è l’autore italiano che, come Borges o Gadda, fa dell’inchiesta poliziesca un’indagine metafisica e ridefinisce lo stesso genere letterario del giallo. All’inizio la scelta del genere poliziesco è legata all’adesione di Sciascia al realismo. Infatti, i suoi primi romanzi gialli offrono subito un’immagine quanto mai chiara di alcune realtà della Sicilia, in primo luogo della mafia; quelli successivi invece ritraggono l’imputridimento e la nevrosi di una società ormai più vasta, quella dell’Italia e (non illudiamoci) del mondo nel suo insieme. Il romanzo poliziesco è la formula letteraria che permette a Sciascia di analizzare uno dei problemi centrali e drammatici del mondo moderno, cioè il Potere, di riflettere sul sistema politico e sulla metafisica dell’esercizio del del potere. Infatti, come chiarisce Claude Ambroise, grande studioso e traduttore di Sciascia in francese,  il vero problema nei gialli di Sciascia è quello di capire come è fatta quella società nella cui struttura si verifica un’interferenza fra la delinquenza e il potere legale.
E ricorderei qui, anche ai lettori italiani, l’unico giallo di Sciascia non pubblicato in romeno e il solo da cui non si è tratto un film (sarà una coincidenza o un freudiano atto mancato?): Il contesto. Una parodia.  Uscito in Italia nel 1971, nei Classici Bompiani del 2002  appare con la seguente nota dell’autore:

«Ho scritto questa parodia [...] partendo da un fatto di cronaca […]. Un divertimento. Ma mi andò per altro verso: ché ad un certo punto la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principî – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava. Un paese immaginario, ripeto. E si può anche pensare all’Italia, si può anche pensare alla Sicilia; ma nel senso del mio amico Guttuso quando dice: “Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia”. La luce. Il colore. E il verme che da dentro se la mangia? Ecco, il verme, in questa mia parodia, è tutto d’immaginazione. Possono essere siciliani e italiani la luce, il colore (ma ce n’è poi?), gli accidenti, i dettagli; ma la sostanza (se c’è) vuole essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa».

Ecco la trama: in uno stato e in un tempo immaginari, viene assassinato prima un procuratore, poi, uno dopo l’altro, una lunga serie di giudici con cariche sempre più alte. Le indagini sono condotte dall’ispettore di polizia Rogas, il protagonista del romanzo, che, pur avendo un gran numero di qualità di investigatore, è caratterizzato fin dall’inizio dall’autore con un singolo tratto: «aveva dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva». Analizzando, con la meticolosità e l’intelligenza di Hercule Poirot, gli affari loschi e complicati delle vittime, Rogas riesce a ricostruire la complessa rete di interessi e relazioni finanziarie, politiche, giuridiche e mediatiche che unisce tutti quelli che si trovano al potere, scoprendo, in altre parole, di avere a che fare con una sorta di mafia. D’altra parte intuisce, con il fiuto di un Maigret, che l’assassino deve essere una persona sola che non agisce all’interno dei meccanismi di potere. Tutti gli indizi, infatti, lo conducono allo psicopatico Cres che, condannato anni prima ingiustamente, ha perso fiducia nella giustizia della società e, perciò, se la amministra da solo, uccidendo, uno dopo l’altro, i giudici; Cres conduce quindi una guerra personale contro la magistratura, cioè contro uno dei poteri dello stato. Nel romanzo, dunque, l’indagine di Rogas si divide ben presto in due direzioni che sembrano non intersecarsi: una all’interno delle strutture del potere, l’altra nei meandri della mente dello psicopatico. Questo finché le rivelazioni graduali della prima gli confermano che i misfatti e i delitti non sono un’eccezione, ma sono perpetrati anche da chi fa e rappresenta la legge. È naturale perciò che, man mano che entrambe le indagini progrediscono, Rogas inizi sempre più a capire l’assassino e a dargli ragione: cioè che, di fatto, dovrebbe difendere lo stato proprio da chi lo rappresenta: «In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo».
Al di là della comicità grottesca di molte situazioni e dei personaggi, sul paese immaginario – cioè esattamente il «contesto» e, al tempo stesso, il tema reale del romanzo – grava, però, un’atmosfera di pericolosa follia, la follia di una società che tende a sottrarsi, nelle sue strutture costituite, al controllo razionale e alla responsabilità individuale. Il Ministro degli Interni è uno dei grandi orchestratori della pazzia, anche se sembra essere il solo a dominarla razionalmente. È proprio lui a spiegare cinicamente all’attonito Rogas perché appoggia non solo il potere, ma anche l’opposizione e i gruppetti estremisti. Cito (spiegando solo che Galano e Narco sono ricchi imprenditori strettamente legati al potere in esercizio, mentre Amar è il dirigente del Partito Rivoluzionario Internazionale, apparentemente di sinistra e apparentemente in opposizione):

«– Pazzesco sì – disse il ministro. – Ma io, caro ispettore, appunto giuoco su queste loro pazzesche reazioni. Ci sto in mezzo alternando la protezione alla minaccia.Più credono alla minaccia e più io alzo il prezzo della protezione. Perché gruppi come quelli di Galano e di Narco, e specialmente quello di Narco, di cattolici rivoluzionari, a me fanno comodo. Mi fanno comodo quasi quanto la catena dell’Onesto Consumo, che come lei sa è cosa di Narco. Per dirla brutalmente: consumo (è la parola che fa al caso) l’uovo di oggi e la gallina di domani, stando con loro. L’uovo del potere e la gallina della rivoluzione…Voi sapete qual’è la situazione politica; della politica, per così dire, istituzionalizzata. Si può condensare in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale; e specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. Ora la visione del signor Amar che da quella poltrona fa sparare sugli operai in sciopero, sui contadini che chiedono acqua, sugli studenti che chiedono di non studiare: come il mio predecessore buonanima, e anzi meglio; questa visione, debbo confessarlo, seduce anche me. Ma oggi come oggi è un sogno. Il signor Amar non è un imbecille: sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso». 

Voglio dire che, anche se a mo' di parodia, Il contesto presenta la fenomenologia di una società dominata da un potere sotterraneo che è la negazione puntuale del sistema democratico. E se gli italiani considerassero tale visione obsoleta, buon per loro! Io li consiglierei tuttavia di leggere il romanzo per deliziarsi di questa obsolescenza, che per altri obsolescenza non è.



Smaranda Bratu Elian
(febbraio 2017, anno VII)