Sciascia l’eretico: «Morte dell’inquisitore», un romanzo-inchiesta

Continuando la presentazione di quelle ipostasi di Leonardo Sciascia (1921-1989) che, meno conosciute non solo ai romeni ma anche agli italiani, sono altamente rilevanti anche per i tempi che viviamo adesso, propongo questa volta un personaggio senza pari della vasta galleria di personaggi sciasciani: fra Diego La Matina di Morte dell’inquisitore. Per presentarlo, però, bisogna prima chiarire il genere letterario creato da Sciascia a cominciare da questo volume. È probabilmente il genere più originale e appassionante fra quelli creati da Sciascia, quello che nella mia monografia sciasciana intitolavo «romanzo-inchiesta» e descrivevo in dettaglio. Ora riassumerei solo i tratti più caratteristici, per poter poi passare al protagonista che qui interessa.
Il romanzo-inchiesta di Sciascia si collega ad altri due generi specifici di questo autore: il giallo e il romanzo giudiziario; come questo mette regolarmente in discussione un atto giudiziario e la giustizia in sé con la sua procedura, mentre la sua impostazione e struttura sono identiche a quelle del romanzo poliziesco: il mistero di una morte (in alcuni casi un delitto) come punto di partenza, l’inchiesta (detection, nel romanzo poliziesco) come materia centrale del romanzo, il detective come principale attante. Che cosa distingue il romanzo-inchiesta dai due generi prossimi? Dal «romanzo giudiziario», lo distingue il fatto che qui l’attenzione è concentrata sull’inchiesta, non sul processo. Dal romanzo poliziesco lo separa una differenza capitale: il caso trattato non è inventato ma reale, i documenti, le prove, gli indizi sono reali, e il detective non è un personaggio ma è Sciascia stesso.

Lo scrittore Sciascia si mette dunque a svolgere il lavoro del poliziotto o del giurista. Perché e quando lo fa? Quando si verificano simultaneamente due situazioni: quando il personaggio-vittima acquista un valore di exemplum, perché tale valore è molto più convincente se preso dalla vita reale invece che frutto di una finzione letteraria; la seconda situazione, quando gli strumenti specifici dei professionisti si dimostrano insufficienti a risolvere il caso e allora appare la necessità dell’esercizio ermeneutico, cioè dell’acutezza e raffinatezza interpretativa e speculativa dello scrittore.
Dove si situa l’inchiesta di Sciascia rispetto alle indagini svolte dai professionisti? Si situa in una posizione scomoda e vulnerabile, anche perché non ha il carattere imparziale e asettico di un’inchiesta ufficiale; essa parte a volte da premesse discutibili o chiaramente faziose sostituendo molto spesso, sebbene non in modo palese, lo svolgimento tipicamente induttivo di un’inchiesta con la dimostrazione di una tesi. Ne derivano due conseguenze: in primo luogo, nonostante l’apporto dei fatti reali, il lettore riconosce il carattere letterario dell’opera e ne subisce il fascino; in secondo luogo, l’operazione di Sciascia spinge i professionisti a riesaminare i documenti presentati dallo scrittore e a volte provoca polemiche accese. Ma la differenza principale è la ferma persuasione di Sciascia, che traspare da tutte le sue opere, che la letteratura offre al mondo una testimonianza più vera e convincente rispetto alla storia e ai suoi documenti dato che, per il suo stesso statuto, è libera di attribuirle un senso.


Morte dell’inquisitore è il primo di questo genere. Nel minuzioso lavoro di documentazione sulla storia siciliana che prepara Il consiglio d’Egitto – romanzo storico sui generis – Sciascia si imbatte in un personaggio formidabile e per di più suo concittadino: fra Diego La Matina, eremita condannato per eresia che, trovandosi rinchiuso nelle carceri dell’inquisizione a Palermo nel 1657, durante un interrogatorio colpisce con le manette il grande inquisitore della Sicilia, Juan Lopez de Cisneros, provocandone così la morte – caso unico nella storia dell’inquisizione siciliana. Nella prefazione alla seconda edizione, Sciascia confessa: «Questo breve saggio o racconto, su un avvenimento e un personaggio quasi dimenticati della storia siciliana, è la cosa che mi è più cara tra quelle che ho scritto e l’unica che rileggo e su cui ancora mi arrovello. La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa: un nuovo documento, una nuova rivelazione che scatti dai documenti che già conosco, un qualche indizio che mi accada magari di scoprire tra sonno e veglia, come succede al Maigret di Simenon quando è preso da un’inchiesta. Ma a parte questa passione per il mistero ancora non svelato, che ancora non sono riuscito a svelare, c’è che questo breve mio scritto ha provocato intorno a sé come un vuoto: di diffidenza, di irritazione, di rancore».

Il detective Sciascia parte alla ricerca di due verità, che parevano piuttosto nascoste che rivelate dai documenti: quale era la colpa reale per cui si trovava nei carceri dell’inquisizione fra Diego e che cosa era avvenuto nella mente di quell’uomo fino a quello scoppio di violenza che l’avrebbe condannato a morte. Per rispondere a queste domande Sciascia cerca con massima scrupolosità e impegno tutto ciò che gli offrono gli archivi, le storie, la letteratura e offre al lettore un’inestimabile testimonianza sull’istituzione del Sant’Uffizio, sugli uomini che la rappresentavano e quelli che la soccorrevano; sugli interrogatori e le torture ricostruite dettagliatamente; sulle grandi cerimonie barocche degli auto da fé palermitani, spettacoli spaventosi e imponenti, durante i quali alle signore del pubblico e ai nobili si servivano antipasti e rinfreschi; ma soprattutto, frugando fra le pieghe invisibili di tutti questi documenti, su fra Diego e sul Grande Inquisitore, sulla probabile psicologia di ciascuno, immaginando come dovevano essere avvenuti i loro incontri e come doveva essere nata ed esplosa la rivolta del frate.

Sciascia esamina con sottigliezza ed intuizione di scrittore la marea di documenti partendo da due premesse molto sue: la fondamentale irreligiosità dei siciliani e la perfetta complicità, in Sicilia, fra l’Inquisizione e il potere laico, fra il controllo ideologico, esercitato dall’Inquisizione, e quello economico-politico, esercitato dai nobili, che offrivano al santo tribunale una rete di informatori e delatori che, dice Sciascia, «avrebbero fatto impallidire d’invidia l’OVRA» e, aggiungo io, forse anche la Securitate romena. Da qui Sciascia deduce che l’eresia di fra Diego non avrebbe potuto fare proseliti, come invece accadde e, perciò, deve essere stata di natura non solo teologica, ma anche sociale. Per essere considerata pericolosa, deve aver fomentato il malcontento popolare e forse anche l’insurrezione palermitana del 1647. La sua colpa deve essere stata, come nel caso del suo contemporaneo Tommaso Campanella:

«Bivalente: un’azione che fosse stata al tempo stesso eresia e contravvenzione alle leggi ordinarie. Per esempio: un’idea od opinione contro la proprietà o contro certe forme della proprietà […], un’opinione o protesta contro la pressione fiscale in quel momento esercitata con particolare ferocia sul popolo siciliano. […] In senso teologico, pare che la sua eresia si possa restringere e riassumere nell’affermazione che Dio è ingiusto; poiché non soltanto sul rogo fra Diego la pronunciò ripetendo l’antica sua bestemmia, dunque: e sarà stata la finale proposizione ereticale delle sue concezioni morali e sociali. E par facile poter formulare l’ipotesi che dalla rivolta contro l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. Non a negarlo, ma ad accusarlo».

Ma noi non dobbiamo dimenticare che Sciascia resta uno scrittore e il suo obiettivo non è quello di giustificare, attraverso i documenti, la colpa e poi la violenza di fra Diego: il suo obiettivo  è un altro e, diremmo, duplice. Uno e di mostrare nel funzionamento e nella strategia dell’Inquisizione un meccanismo oltre che pratico, mentale, ancora vivo e virtualmente sempre in agguato nella società umana; e quello di creare un archetipo di ribelle moderno che, moralmente, ha il sangue dello scrittore siciliano. Ciò che resta, alla fine, al lettore non è la figura di un martire dell’intolleranza religiosa e del grande Leviatano che è il Potere; ma la statura gigantesca di un uomo ribelle. Fra Diego non accetta le regole del gioco in cui uno è irrimediabilmente inquisitore e l’altro condannato, uno il lupo e l’altro l’agnello e, anche a rischio della vita, afferma per un istante l’uguaglianza degli uomini secondo natura. Però fra Diego ha qualcosa anche dell’homme révolté di Camus, perché il suo atto di ribellione – e a ciò contribuisce molto lo stile incalzante di Sciascia – dà un senso a tutta la sua esistenza e «tiene alta la dignità umana». Infatti, per dissipare qualsiasi dubbio, Sciascia confessa che, nel tentativo di scoprire il vero fra Diego, ha avuto in mente uomini «di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio. Ed ho scritto di fra Diego come di uno di loro: eretici non di fronte alla religione (che a loro modo osservavano o non osservavano) ma di fronte alla vita».


Smaranda Bratu Elian
(aprile 2017, anno VII)