Un omaggio e un sentito ricordo a Dieter Schlesak recentemente scomparso

Il 29 marzo si è spento all’età di 85 anni Dieter Schlesak (1932-2019), intellettuale, poeta e scrittore romeno di lingua tedesca che da anni, dopo la fuga nel 1969 dalla dittatura comunista, viveva in Italia, a Pieve di Camaiore. Orizzonti Culturali Italo-Romeni si unisce al cordoglio per la sua scomparsa e come omaggio in suo ricordo presentiamo il primo capitolo della biografia che la poetessa Vivetta Valacca stava scrivendo su di lui, dal titolo Sentinella, a che punto è la notte?, e che generosamente mette a disposizione dei nostri lettori. Sit tibi terra levis.


Cap. I. Sotto un orologio con le figurine (L’infanzia)

L’essenza di Dieter Schlesak trova voce nella sua scrittura.
Profondissimo poeta lirico, unisce nei suoi testi spiritualità e materia, anamnesi platonicamente intesa – nella quale la conoscenza vera si fonda sulla reminiscenza della vita conosciuta dall’anima nell’ esistenza anteriore al suo ingresso nel corpo – e ricordi laceranti del vissuto.
Allo stesso modo, la sua prosa è straordinariamente ricca e variegata, puntigliosamente analitica o visionaria, commovente e sentimentale o cruda e scientificamente realistica.
Il fil rouge che lega nell’unicità il fluire delle sue rivelazioni è quella poeticità che riscatta sia il  realismo più estremo sia l’irruzione dell’onirico nella narrazione. È sempre mondo interiore che si rivela.
È una scrittura occidentale e misticamente orientale.

L’infanzia è come l’incipit di quel libro che è la vita. Non può non essere raccontata.
E per comprendere l’anima di un uomo bisogna conoscere il luogo in cui è nato.
Il mondo dell'infanzia imprime nella personalità una rete di connessioni, al pari della famiglia.
L'atmosfera, le case, i colori, i suoni, gli odori costituiscono le prime suggestioni, sono, come le persone di casa, alla base dei primi ricordi, investiranno per sempre di sé l’area emozionale, hanno parte determinante nel formarsi di quella visione della vita che segnerà l’intera esistenza.
Si deve molto al luogo natale: quanto più sarà colorito il contesto urbano e variegato il contesto socio-culturale, tanto più saranno ricche  e stimolanti le esperienze del bambino e vivace l'idea del mondo che si formerà.
E in un animo dal temperamento artistico si riverbererà in una miriade di sfumature che coloreranno per sempre il mondo.
Infatti le cose che ci circondano, proprio come le persone, con la loro atmosfera, i loro stimoli visivi, acustici, olfattivi, tattili, relazionali, accompagnando o contrastando la nostra indole, possono renderci interiormente più ricchi, possono perfino farci più allegri o più cupi, più aperti o più diffidenti, più sognatori o più razionali, incidendo addirittura sulle sfaccettature del nostro carattere, perché, come gli episodi che ci capitano, costituiscono le nostre prime esperienze.
É straordinario dunque nascere in una piccola città circondata dal verde prorompente della natura, sufficientemente piccola perché tutti si conoscano, ma dotata di tante “anime”, perché costituisce il luogo di incontro e convivenza di etnie diverse, ciascuna con la propria lingua e le proprie tradizioni, che porta in sé vestigia medievali in cui si radica la memoria storica della nazione stessa… sarà un serbatoio di emozioni straordinario per sempre.
Questo è il contesto di Sighișoara, cittadina transilvana dove Dieter Schlesak nasce il 7 agosto 1934.
E non a caso, il libro di Dieter Schlesak che in italiano è intitolato L’uomo senza radici, con allusione all’esilio dell’autore, ma che dovremmo invece forse chiamare L’uomo dalle molte radici, si intitola in tedesco Transsylwanien, transilvaneggiare…
C’è troppo, in quella città, per poterlo dimenticare, per poterlo confondere con altre realtà, perché quel mondo è unico.
Il simbolo della città è la Torre dell'orologio, con le celebri figurine del carillon che ruotano segnando le ore e rappresentano i giorni della settimana.
Un orologio fantastico per un bambino, come un enorme giocattolo vicino al cielo, con l’aura di una leggenda, a scandire un tempo sempre uguale, rassicurante, con un sapore d’eternità…
E il cielo è quello blu, profondo della Transilvania, quello che lo segnerà per sempre e che nei bellissimi versi della poesia “Per E.M. Cioran” in occasione della sua morte il 20 giugno 1995, descrisse così:

abbiamo visto entrambi
che l’abisso è
solo

il cielo
alto nei Carpazi *

La torre, per i sassoni lo Stundturmuhr, di 64 metri, si trova nel cuore della città proprio come Sighișoara si trova nel cuore della Romania, e fin dal 1556 costituisce il simbolo della comunità. Era la  Torre del Consiglio, perché vi si tenevano le assemblee cittadine, e nel 1891 il tetto venne coperto con tegole in ceramica colorata e smaltata, come le illustrazioni delle fiabe. Se la si visita allo scoccare dell'ora si vede in funzione il meccanismo che attiva le campane… ingegno, antichità, tradizione. Un gioco nel gioco nel multiforme e colorito mondo della leggendaria cittadina transilvana.
Schlesak ne scrive in poesia, tanto tempo dopo, quando Sighișoara è irrimediabilmente lontana e ha il sapore della nostalgia di un mondo perduto:

    (…) Auch die Stundturmuhr
mit ihren bunten  Figuren einmal früher und
lang her
(…)
Aber du lebst ja….
Tonbanduhr im Tal Campanile ist wieder ein Heute
im Esszimmer die Uhr ist schon viel näher
täglich kaum unterscheidbar
vorgestern gestern und heute morgen
wieder. Sie wird einmal geschlagen haben
und geschlagen haben werden  sie.

    (…) Come prima lo Stundturmuhr
con le sue figurine multicolori, allora,
tanto tempo fa
(…)
Ma tu sei in vita ancora…
Ci sono suoni registrati di campane si vedono campanili nella valle e c’è
di nuovo un Oggi
nel salone l’orologio incombe più vicino,
ogni singolo giorno si differenzia appena
l’altro ieri, ieri, oggi, domani
di nuovo. L’ora battuta una volta
verrà battuta ancora.

Sighișoara, in tedesco Schäßburg, ma in sassone transilvanico Schessbrich, fu fondata dai sassoni nel XII secolo per volontà del Re d’Ungheria, che volle che si trasferissero in Transilvania per dar vita a vere e proprie colonie, alimentate dall’artigianato e dal commercio tedesco, ma utili al sovrano per garantire la sicurezza dei confini.
Ecco il perché dell’importante presenza tedesca a Sighișoara, ecco perché Dieter Schlesak nasce, come tanti “tedeschi in Romania” in un contesto multiculturale, nel quale i sassoni parlano la propria lingua e il proprio dialetto, mantengono le proprie tradizioni e sono il cuore pulsante dell’economia locale.
Sono la classe borghese di Sighișoara, alla nascita di Schlesak così come all’arrivo delle truppe naziste durante la seconda guerra mondiale.
Infatti quella che adesso è una piccola città di circa 30.000 abitanti, lontana dalla capitale, è stata nei secoli un presidio strategico in campo politico e commerciale, con una rete di commerci a livello europeo.
Oggi è turisticamente rilevante per l’impianto medievale e per la casa natale della gloria nazionale, il Principe di Valacchia, Vlad Dracul, il Conte Dracula.
I turisti affollano Sighișoara per Vlad Dracul e visitano il centro storico, straordinariamente integro, per perdersi come in un videogioco tridimensionale negli edifici caratteristici della cittadella medievale, dichiarata Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
In centro vi sono ancora le case degli artigiani, con i loro laboratori e gli attrezzi di lavoro ben conservati e tutelati dallo Stato.
Quando Schlesak era bambino vi era anche un piccolo trenino, che arrancava alla volta del mercato e lui ricorda quando l’aveva rincorso fino al palazzo giallo della posta e fino alla pasticceria Martini (Transsylwanien, parte prima, cap. 18).
Adesso, ogni anno, tutto culmina nell'ultima settimana di luglio, quando Sighișoara diventa un enorme palcoscenico a cielo aperto, con il suo Festivalmedievale.
Ai tempi in cui Schlesak era bambino, o, per meglio dire, prima dell’occupazione nazista, la cittadina era abitata anche da un cospicuo numero di cittadini ebrei, oltre a ungheresi e magiari.
Si incontravano l’anima occidentale e quella orientale. Le molte radici che si riverberano nella personalità e nella sensibilità di Schlesak…
E così, il 2 ottobre 1980, in una lettera a Emil Cioran Schlesak scriverà:

«Molto spesso, oramai, mi ritrovo di nuovo in Transilvania, immerso nella mia infanzia, nel paese da fiaba che è la Romania (solo così può essere un paese da fiaba!). Ma l’elemento romeno giunge a me anche sotto una nuova forma, in quella immensità che  manca a noi tedeschi (…). Ora et labora piuttosto che unio mystica.

Il piccolo Dieter nasce nella Baiergasse (solo dopo l’avvento del comunismo sono scomparsi i nomi tedeschi ed è diventata via 1° dicembre 1918!) nella Gassenhaus, una casa vicina a quella del nonno materno. Quest’ultima era una casa grande e di color rosa con un vasto giardino, il giardino delle scoperte, del mistero, dei primi giochi, oltre il quale scorreva il Grosse Kokel, il fiume Tȃrnava.
Ora non quella casa non esiste più, è stata divorata proprio dal fiume.
Ma è tra i ricordi più cari, come quel nonno, veterinario del paese, che lo prendeva sul calesse con sé e lo portava, unico fra i suoi fratelli (Gerd e Inge, entrambi più giovani di lui) nel suo giro di visite e allora tutta la campagna era un’enorme festa, mentre sfilava davanti agli occhi del bambino emozionato e orgoglioso, e tutti, dai borghesi ai contadini, salutavano il dottore che curava i loro animali.
C’era, in quelle giornate col nonno, dedicate a lui solo, il contatto col mondo contadino, con i grossi bovini, con i profumi intensi dei prati e gli odori delle stalle, col latte appena munto e i vitellini da accarezzare.
Le stesse sollecitazioni, la stessa concretezza le trovava nella casa estiva, immersa nel verde: «Noi allora correvamo scalzi sull’umido della nuda terra, in cantina sentivamo il cemento sotto i talloni, raggi di sole filtravano attraverso il pergolato, disegnavano i motivi più vari su tutte le strade; ogni cosa appariva come lavata di fresco. Correvamo nelle pozzanghere, il fango e l’erba tra le dita dei piedi... (…) A quel tempo i sentieri erano ancora pieni di piante aromatiche, i talleri del sole, cerchietti sul muro caldo di casa.(…) tutto odorava di terra, fieno, cipolle, fumo del camino, dell’acidità del sudore, del terreno solido, di una felicità sicura e durevole.» (Transsylwanien, parte prima, cap. 14).
E l’imprinting del cielo, del sole, dell’erba, dei profumi, del ronzio degli insetti avviene quando il bambino è ancora piccolissimo, deposto sul prato, già distratto da cose alle quali ancora non sa dare il nome o, appena più grande, lavato nella tinozza al sole. E tante, tante fotografie di momenti felici.
Una vita, un’infanzia, proprio come lui scrisse a Cioran, in una fiaba, dove ogni filo d’erba aveva il suo profumo, il suo colore, ogni cosa era al suo posto e il mondo era tutto da scoprire, multicolore e fantasmagorico davanti agli occhi incantati di Dieter.
In una delle sue frasi più belle Schlesak dice «Perché allora il mondo era ancora così ingenuo e per questo sacro…». (Transsylwanien, parte seconda, cap. 7).
Era la «Terra del vino», ricca dei vigneti portati dai sassoni, ancora oggi rilevanti nell’economia locale, e Dieter, piccolo da che arrivare al piatto in tavola solo alzando le manine, prese e svuotò il suo primo bicchiere, vino di Nadesch, e provò la prima ebbrezza, segnata per sempre dal grido della nonna «Dio mio! Il bambino!» (Transsylwanien, parte quarta, cap. 3).
Il giardino vicino al fiume era lo spazio dei giochi e del mistero, con gli ammonimenti e le paure degli adulti che lui o i suoi fratelli potessero cadere nell’acqua, sparire nei gorghi… e Dieter, sensibilissimo, ne mise alla prova i sentimenti, nascondendosi una volta e non rispondendo ai loro richiami angosciati. Il gioco di ogni bambino che vuole vedere riconfermato l’amore dei genitori, rassicurarsi che lo cercheranno, che gli apriranno le braccia felici, ritrovandolo. E il brivido dell’avventura, sentirsi in grado di sparire, di eludere la ricerca, di reprimere la voglia di saltar fuori al primo richiamo.
Ma la famiglia è presente, attenta e quel nonno veterinario, il signore distinto della casa vicino al fiume, ha un largo sorriso, e compare già nelle prime foto del bambino, mentre lo tiene in braccio con gioia evidente.
Un nonno che è una presenza costante, anche quando, dalla casa natale, la famiglia si trasferì prima si traferi prima nella Ahusenblasyhaus, poi nella casa del nonno paterno nella Gartengasse, una casa proprio sotto la torre dell’orologio, accanto alla casa di Vlad Dracul, il cuore di Sighișoara.
Lì la famiglia Schlesak occupa l’appartamento sopra il negozio di stoffe di proprietà del nonno paterno, dove lavorava suo padre.
Nella casa di nascita si è intanto trasferita la famiglia Baruch, poi emigrata in Israele, come tutti i superstiti della deportazione nazista. Nella pacifica vita cittadina, nella quale tutti si conoscevano, Dieter Schlesak ricorda che giocava con la loro bambina, poco più grande di lui.
E ricorda cosa significasse allora per lui la parola “ebreo”, associata dai sassoni a uno strano sentimento in cui si insinuavano curiosità e senso del mistero, l’incapacità di definire gli ebrei in altro modo se non quello di “strane persone”, che celebrano feste diverse dagli altri e che nella sinagoga parlano tutte insieme, un modo di parlare per il quale usavano la parola tschawalles, un’espressione forse in yddish.
Eppure, con quelle pur “strane persone”, i rapporti erano quotidiani, amichevoli, senza vero pregiudizio.
Il nido non era ancora avvelenato dal nazismo.
È questo il contesto in cui Dieter Schlesak prende coscienza del mondo e il primo ricordo è solare, felice. Dieter Schlesak racconta che si trovava sulla scala che portava al ballatoio dal quale si levavano due scale più piccole che portavano all’ Aufboden, l’asciugatoio dove si stendevano i panni.
«Io stavo accanto a quelle piccole scale, inondate dal sole. Faceva caldo ed erano caldi  il metallo della ringhiera e il legno delle scale» dice.
E, in quelle prime emozioni coscienti nelle quali sensazioni, emozioni e sentimenti si confondono, lui ricorda quello che definisce in sé come il «”sentimento” del metallo e del legno caldo».
Ma l’avventurarsi verso le scale e, al contempo, il rimanere lì accanto al ballatoio portavano il conforto della presenza materna: il ballatoio partiva dalla cucina della mamma e lui dice: «io provavo il sentimento della vicinanza».
Sentimenti ed emozioni sono inestricabilmente legate ai ricordi. Del resto –questa è la grande lezione di  Goleman sull’intelligenza emotiva - ricordiamo solo ciò che ci ha emozionato.
Un altro ricordo, che conferma le cure costanti e la gioia dei giochi  riguarda invece la seconda casa, quando lui si nascondeva sotto le gonne lunghe delle domestiche magiare, che andavano a lavorare a Sighișoara, ma avevano casa nella Romania dell'Est, dove le loro famiglie erano emigrate dall’ Ungheria al tempo in cui Sassoni erano emigrati dalla Mosella.
«Ricordo che era entrato in casa mio padre e mi aveva visto. Rideva e mi ha detto –che fai lì?»
Il padre, figura centrale, era molto sentimentale e con grande tenerezza lo chiamava sempre col vezzeggiativo Dieterchen.
Un padre che alla sua nascita, come leggiamo in Transsylwanien, (parte prima, cap. 6), «… se ne stava in mezzo alla stanza e balbettava alla moglie tutta la sua smisurata gratitudine (…) voleva prendere dei fiori, voleva portarle una montagna di fiori» e, lungo la strada, guardava la frutta, anticipando nel pensiero i bisogni, immediati e futuri, della moglie e del bambino, pensava al profumo francese per lei e si diceva «Certo, qui da noi puoi ordinare qualunque cosa, tutto il mondo è a portata di mano.» E pensava a un gioiello, da regalarle, e al cinema «Quando potrà tornare al cinema lei?».
I ricordi del padre, raccontatigli mille volte, si intrecciano ai suoi e Schlesak mi racconta:
«Un momento di grande intensità fu quando mio padre, che allora era soldato , tornò a casa all’improvviso, in divisa. Io avevo cinque o sei anni e non riuscivo a parlare per l’emozione e lui mi accarezzava»
Una delle rarissime volte che Dieter Schlesak non vide suo padre in giacca e cravatta. Le indossava sempre, con la camicia bianca, tanto che, in Transsylwanien, scrive che quel nodo sotto il mento forse gli serviva a darsi coraggio, come una divisa: «Non usciva mai senza questo nodo sotto il pomo d’Adamo. Gli dava sicurezza.» (parte prima, cap. 5)
La madre, pur se allegra e piena di vita, era più dura. Ma Dieter Schlesak fu un bambino molto amato, curato con quel pizzico di orgoglio in più che si doveva al figlio o al nipote primogenito.
Era lei stessa a raccontargli «Tu eri il primo, e avevi un ruolo importante nella grande famiglia.»Alla nascita, lui costituiva tutti i suoi pensieri. Il suo universo materno?«Farti il bagnetto, fasciarti e nutrirti.» ( Transsylwanien, parte prima, cap. 5)
E questa madre, pur se rigida nell’educazione, era allegra, gioiosa, sorride in ogni fotografia, dalle primissime, nel letto col neonato, appena dopo il parto, a quelle dove ogni tappa di Dieter è rigorosamente documentata, dai primi completini di lana ai primi pantaloncini in pelle, dalle foto in giardino a quelle di posa con l’abito alla marinara, secondo la moda del tempo. E sorridente appare nelle foto da ragazza, nelle feste in giardino, al braccio del marito, piena di vita ed elegante, inserita nella vita cittadina.
Si vede, nelle foto, che è una donna paga della sua vita e del suo ruolo. Come non esserlo, in quegli anni di solidità economica, con una famiglia unita, figli sani da crescere, in una famiglia borghese non ancora toccata dalla tragedia della guerra?
E perfino da anziana, ci racconta Schlesak in Transsylwanien (parte prima, cap. 7) «lei continuava a comportarsi con la più estrema spensieratezza. Era così, così stupendamente ingenua e vicina alla natura da cui si lasciava trasportare.» Poco dopo (parte prima, cap. 8) dice ancora: «Lei continuava a fare la ragazzina e forse – non sfiorata dagli eventi – era rimasta tale fino alla sua morte
Sempre in Transsylwanien (parte prima, cap. 2) Schlesak attribuisce queste parole al fratello:«Quel che abbiamo potuto imparare da nostra madre (…) è stata la sua dolcezza, la sua allegria e il suo atteggiamento positivo nei confronti della vita. La sua risata che alleviava il cuore e l’aveva resa famosa anche nella cerchia degli amici… La sua risata noi non l’abbiamo ereditata.»
Ma Dieter, con infinita dolcezza, dice qualcosa di ben più profondo: «Ora in giardino fioriscono le mimose e i meli giapponesi: io ne palpo volentieri i frutti, morbidi come labbra infantili! Allora là, nella mia casa natale, mia madre mi aveva indicato i fiori rosa e detto: “Guarda, questi sono i meli giapponesi”. È da quel momento che li conosco. Quante cose mi ha mostrato lei per la prima volta, rivelandomene il nome! Ed è orribile, è come se ora con le fosse morto anche il bambino che era in me. » (Transsylwanien, parte prima, cap. 1).
L’abbiamo mai pensato? La madre come Dio con Adamo: mostra le cose e Adamo impara a dar loro nome.
Prosegue: «E ora se n’è andata. È morta, diciamo noi, senza sapere cosa significhi veramente. Noi continuiamo a vivere. E questo è l’autentico impossibile: che la vita sia possibile, ciononostante. Persino la bellezza.» (Transsylwanien, parte prima, cap. 4).
È una delle affermazioni più vere che si possano leggere. È questo che viviamo/pensiamo ogni volta che perdiamo una persona che per noi era il mondo.
E quello è il mondo che affolla la mente di Schlesak, che gli fa scrivere Transsylvanien, per salvare, come fece  Isaac Bashevis Singer per la cultura yddish, ciò che non c’è più, perso per sempre.
Sighișoara è oggi per i turisti, ma il mondo multietnico e laborioso del tempo è stato spazzato via dalla guerra, dalla dittatura, da una modernità che ha depauperato le molte anime che ne costituivano la peculiarità.
Tornarvi è sentirsi ancora più in esilio.
Quello è stato il luogo della formazione, nel quale la natura era rigogliosa, le lingue che risuonavano erano molteplici e lì avvenne la sua formazione, la sua educazione alla bellezza. Dieter Schlesak frequentò il Gymnasium locale, con le pareti decorate con i nomi dei personaggi illustri che avevano legami con la città. Tra essi c’era quello di Michael Albert, poeta, scrittore e critico letterario di lingua tedesca che aveva studiato Teologia e Letteratura tedesca a Jena, Berlino e Vienna e che morì nel 1893 a Sighișoara. Era motivo di orgoglio per la fiorente comunità tedesca e la sua poesia era romantica e struggente, forte e legata alla terra, vicina alla sensibilità transilvana. Sono, appunto, gli stessi echi che si ritrovano anche nella lirica di Schlesak, quando parla della natura.
Il giovanissimo Dieter correva con i compagni di scuola su per la Scala degli studiosi,  una scala, di ben 177 scalini, interamente coperta da un tetto di legno, che porta al Liceo J. Haltrich, aperto nel Cinquecento, e alla Chiesa sulla collina, costruita in stile gotico e al cui interno sono conservati alcuni frammenti di affreschi del 1480.
Soprattutto, come scrissi nel mio tributo a Dieter Schlesak in occasione del suo compimento dell’ottantesimo anno, quello che era stato il «nido» della famiglia e della cultura tedesca, tanto vivamente tramandata dai sassoni che vivevano in Romania, c’era stato l’amore per la poesia, per la musica, per la bellezza. Raffinatezze che renderanno ancora più lacerante la scoperta di quel collaborazionismo diffuso con i nazisti che, messo in luce a poco a poco, segnerà tragicamente la vita e l’opera dell’autore, simile ad un tragico Edipo che deve e vuole guardare in faccia la realtà.
Infatti le letture poetiche, la musica al pianoforte segnavano le giornate nelle quali arrivavano in visita, in licenza, ma con l’uniforme delle SS, gli “zii”, Roland e Ali, il primo cugino, il secondo fratello della madre.
Erano zii giovani, affettuosi, regalavano caramelle e mettevano sul capo del bambino il loro cappello con la visiera con l’ insegna del teschio, che lui definisce la testa di morto. Una gioia, allora, un incubo da ricordare, poi, quando, più grande,  apprese cosa significava quella divisa, cosa si faceva sotto l’autorità conferita dall’indossare quel cappello…
Una ferita che non si sanerà mai più.
Ma da quella ferita nascono i due romanzi capolavoro, Il farmacista di Auschwitz e Transsylwanien,  L’uomo senza radici.
Poesia e orrore irrimediabilmente inestricati.
Sembrano profetici i bei versi di Schiller che la nonna materna pensava proprio prima che la figlia le gridasse, concitata, che il travaglio era iniziato: «Cambiano le lune, fuggono le generazioni / le rose fioriscono della loro divina gioventù / immutabilmente in eterna rovina.» (Transsylwanien, parte prima, cap. 5).




Vivetta Valacca
(n. 4, aprile 2019, anno IX)